Ottobre lieve.

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Eppure c’è ancora molto da fare.

Questo il mio pensiero del risveglio, dopo una notte densa di immagini e sogni.

Un fisiologico stare in questo periodo di attese e di emozioni.

Perché aspettare Ottobre ha un suo perché, come periodo ricco di eventi significativi, nella mia vita di apprendista bismamma di terra e trismamma di cielo.

Due nomi scorrono nella mia mente, la Settimana Mondiale dell’Allattamento Materno e il Babyloss ovvero la Giornata Internazionale per il Lutto Pre e Perinatale. Due date importanti, per me.

Due momenti che hanno trasformato la mia vita e le mie piccole e grandi certezze.

Dopo la loro scoperta, in me tutto è cambiato.

Ho promesso a me stessa, nel mio piccolo, di provare umilmente a stare accanto alle mamme e ai papà, un passo indietro, rispettando gli spazi. Ho promesso a tutti i neonati e neonate, i bambini e le bambine, di promuovere quotidianamente la cultura del rispetto e dell’accoglienza.

E grazie alla piccola ma significativa rete di sostegno creata con MammacheMamme, molti neogenitori alle prese con l’allattamento sono stati accompagnati gratuitamente verso una genitorialità consapevole e rispettosa dei bisogni del* bambin*.

Continuando ogni giorno a diffondere l’accoglienza e la buona nascita, come momento unico e irripetibile del* bambin* e dei genitori.

Promuovendo salute e condividendo informazioni corrette, in un rituale quotidiano che conferma il valore del “dare” come occasione di arricchimento personale e comunitario.

Lo ammetto, alcune volte sono rumorosa e scomoda, perché donna di pancia e di cuore, ma sto imparando a contenere i miei frequenti brontolii provando a trasformare questa energia in azioni funzionali.

Ottobre per me è un mese che profuma di latte materno e di cielo.

Di battiti d’ali di figli portati in pancia e abbracciati ogni giorno nel cuore.

Ottobre per me ha il sapore metallico della solitudine e del dolore assordante, della mia pancia vuota e dell’etichetta di donna poliabortiva.

Ottobre, grazie a CiaoLapo è diventato per me, il mese della rinascita.

Ed ecco che le etichette, le diagnosi appena sussurrate, la pancia troppe volte vuota si trasformano in azioni a sostegno di tutti i genitori di bambini e bambini nati in silenzio. Lo ammetto, questa attesa del Babyloss, mi emoziona ogni giorno di più. Sei anni di lavoro di ascolto e sostegno alle famiglie calabresi, cinque Babyloss a Cosenza, tre incontri di Formazione per operatori e genitori in una Calabria che sta imparando, con fatica, a conoscere il lutto pre e perinatale. Questo grazie al lavoro persistente e resiliente del Gruppo di Automutuoaiuto Parole in ConTatto, ai genitori volontari e ai nostri cuccioli e cucciole silenzios* che quando si uniscono riescono a fare davvero rumore, in questa terra spesso troppo distratta.

E il quotidiano viversi si impreziosisce di doni e di piccole e grandi difficoltà.

Ma aspetto e spero,

desidero e sogno,

respiro e amo.

Ottobre per me è ri-nascita come donna, mamma di cielo e di terra e professionista, in uno spirito di sorellanza che unisce e svela.

Cecilia Gioia 

Quello che c’è.

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Da un pò di tempo sto allenando la mia mente e il mio sguardo sulla ricerca quotidiana di quello che c’è.

Un’esercizio semplice, ma che richiede grande impegno e determinazione. Almeno per me e per la mia tendenza a distrarmi e cercare altrove.

E invece sto, osservo, alcune volte provo a sfuggire ma poi ritorno.

Mi soffermo e alleno la mia mente, mi dedico ai dettagli, a tutte quelle piccole sfumature che spesso sfuggono ad uno sguardo frettoloso e abituato, piuttosto, a cercare quello che manca.

Invece sosto, alcune volte con fatica, su quello che c’è.

E quando riesco, trovo equilibrio e pace, perchè finalmente “vedo” con gli occhi e con il cuore. E sento che quello che c’è è davvero molto, quasi da scoppiarmi il cuore, perchè mi sento “piena” e “centrata” nella vita che abito. E nelle relazioni che incontro.

Da quando mi alleno a sostare in quello che c’è ho imparato a stare negli imprevisti, a gustarne l’imprevedibilità e l’effetto che hanno su di me, senza giudicarmi.

Da quando mi soffermo in questa quotidiana ricerca ho scoperto che le relazioni interpersonali possono terminare, semplicemente perchè si è concluso un ciclo. Senza cercare colpe, senza attribuirmi ulteriori carichi emotivi che non mi spettano. Semplicemente lascio andare e sposto il mio sguardo altrove, su quello che c’è.

Da quando, mi riconosco il diritto di volermi bene, mi nutro di quello che ho.

E questo mi piace. Davvero.

Cecilia Gioia

 

Diventare madre nell’assenza.

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Tredici anni ho scoperto la maternità attraverso una linea che si colorava e confermava un desiderio.

Ho gustato il sapere della conferma e dopo tre mesi il dolore dell’assenza. Esattamente 13 anni fa ho conosciuto il dolce e l’amaro del diventare madre. Ma ho scelto di starci dentro, provando a navigarci, spesso perdendomi e scoprendo nuove destinazioni, in un processo che continua e mi trasforma.

Nel 2006 ho accolto la carezza della presenza di una maternità cercata e il pugno violento e improvviso dell’assenza. L’ho conosciuto e mi ha completato, perché parte di me e della mia storia di maternità. Lo riconosco ogni giorno, perchè vissuto altre volte e perché così doloroso e crudo da lasciarti senza fiato. E senza fiducia in te stessa e verso un corpo osservato, studiato, analizzato. Addolorato.

Tredici anni fa abitavo il mondo da donna, figlia e moglie. Poi ho scoperto il significato di diventare madre. Mi correggo, ho sperimentato l’illusione di averlo compreso, perché in realtà continuo a ricercare significati e significanti, che svelino un senso compiuto e squisitamente personale, alla mia storia di maternità. E alle migliaia di storie di donne e madri che ho incontrato, ascoltato, ripensato. Risognato.

Abitare il mondo attraverso le mille sfumature della maternità.

Ma cosa significa?

Davvero questa società così rumorosa e distratta può coglierne le innumerevoli declinazioni fatte di sguardi, sospiri e fatica quotidiana per restare a galla e non perdersi?

Si, perché noi mamme possiamo perderci in una routine del fare e del sentire che ci assorbe, ci risucchia in un vortice di aspettative e di stereotipi, condizionando quel meraviglioso fluire di scoperte e di chiaroscuri che la maternità sa donare, se rispettata nei suoi tempi e nei suoi bisogni.

Io so riconoscere lo sguardo affannato di una madre, quando prova a navigare la sua maternità, sommersa dai DEVO e timida nei VOGLIO, mentre cerca sguardi accoglienti a cui aggrapparsi per restare a galla e non perdersi.

Io lo conosco quello sguardo, perché lo riconosco in me e in tutte le donne e madri che ho il privilegio di incontrare.

Credo che per promuovere la cultura del rispetto della maternità e delle sue innumerevoli declinazioni, bisogna partire dalla base, ovvero l’ascolto e l’attenzione verso l’altr* me.

Forse è proprio nello sguardo di una madre che potrebbe racchiudersi l’essenza della maternità, un processo così intimo, personale ed unico che non può vivere nei confronti, nei modelli e nei consigli che la società elargisce generosamente.

Forse se imparassimo ad accogliere quello sguardo, a starci dentro, riusciremmo a collegarci al nostro nucleo, alla nostra matrice.

Perché noi tutt* abbiamo abitato nostra madre, assaporato le sue emozioni attraverso un liquido amniotico che rivela e protegge, e questo ci accomuna, nella nostra incredibile unicità.

Ecco perché possiamo provare a cogliere quello sguardo, rispettandolo e riconoscendo dignità alla donna e madre che incontriamo, attraverso la sospensione del giudizio e il rispetto della sua fatica.

Perché ascoltare una donna e madre, accogliendo il suo sguardo e la sua quotidiana navigazione nei mari profondi della maternità, significa onorare la nostra matrice. Significa proteggere le nostre radici e la nostra libertà. Significa provare tenerezza verso l’altr* me. E in questi tempi duri, ne abbiamo bisogno. Davvero.

Cecilia Gioia

Feste di compleanno….strategie di sopravvivenza da bismamma.

 

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Ho calcolato che in media una mamma accompagna i propri figli da una parte all’altra della città, scarrozzandoli nei vari compleanni dei compagni da 1, 5-2 volte al mese. A tutto questo aggiungi l’estrema difficoltà a ricordare i regali degli anni passati, correndo spesso (sic) il rischio di replicare, il risultato che emerge è un’esposizione sistematica a situazioni stressanti e spesso decisamente “scomode”. E allora che fare?

Dopo 12 anni di sovraesposizioni costanti a questi eventi ciclici e, nel mio caso, al quadrato (sono una BisMamma) ho deciso di affrontare il tutto puntando agli aspetti positivi dei compleanni, crocevia di mamme e papà spesso affannati dagli innumerevoli incastri quotidiani.

E quindi mentre aspetto il fatidico giorno, sfrutto la preparazione del biglietto da dare al festeggiato di turno come attività da proporre ai miei bambini; tempo di realizzazione, circa mezz’ora che utilizzo per una doccia veloce e shampoo, piuttosto che una manicure con annesso smalto o altre attività che spesso sono costretta a rimandare. Ovviamente il tempo di realizzazione del piccolo manufatto si allunga se proponiamo un biglietto decorato con collage o quant’altro.

L’acquisto poi del regalo è una buona occasione per ritagliarsi del tempo rubato per fare uno shopping veloce giustificandolo come ricerca accurata per un regalo utile e educativo per il piccolo festeggiato.

E arriva il giorno della festa e tra un incastro e l’altro, un buco tra gli appuntamenti segnato nella mia agenda e un ritardo, ormai cronico e inconsapevole (?) parto con i miei bimbi alla ricerca di un nuovo asilo o ludoteca dove si terrà la festa.

E ci si ritrova, tra gli sguardi spesso stanchi, mentre l’animazione ci accoglie e coinvolge immediatamente i bambini in giochi di magia. Anche in questo caso, un rapido sguardo mi permette di localizzare un luogo confortevole per seguire i miei bambini e il flusso dei miei pensieri. E mentre riapro l’agenda, sperando di riuscire ad organizzare la prossima giornata lavorativa, la mamma di turno si avvicina e in quel momento esatto capisco che la mia ultima speranza di godere di un momento per me, si è definitivamente spenta e con essa la possibilità di sfuggire.

E allora che compleanno sia, chiudo l’agenda, abbraccio una mamma e punto la torta. Il resto potete immaginarlo, ed il ritorno in macchina mentre osservo dallo specchietto lo sguardo soddisfatto dei miei figli mi ripaga di tutto il resto, mentre ripeto a mente la prossima data di compleanno da ricordare perché: “Ovviamente i tuoi figli ci saranno? Guarda che vi aspetto, ci conto”.

Ce la posso fare, lo so, sono una BisMamma.

Cecilia Gioia

Tratto da Le nuove mamme

Le differenze che nutrono.

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Educarmi alle differenze significa volermi bene.

Significa ascoltare i brontolii di pancia quando incontro l’altr* me, imparando ad andare oltre.

Significa attribuire significanti a significati, dando il giusto spazio alle persone e trovando con loro la giusta distanza, per conoscersi o riconoscersi.

Educarmi alle differenze rappresenta una delle mie più grandi conquiste da conquistare.

E’ un lavoro quotidiano e costante, ci si allena sempre per imparare a decodificare i segnali esterni, traducendoli in messaggi sostenibili.

E per rendere tutto questo concreto è necessario imparare a stare “dentro” gli incontri, anche quelli più scomodi, per coglierne le sfumature e favorire l’esplorazione.

E’ un lavoro coraggioso, implica grande curiosità e un buon dialogo interno con sé stess*.

E’ un lavoro raffinato, ci si sofferma sui dettagli alla continua ricerca di bellezza.

Perché c’è bellezza ovunque, basta allenare lo sguardo e la pelle*.

E la fiducia verso gli incontri che quotidianamente caratterizzano la nostra vita.

Perché si apprende sempre e ogni scenario che attraversiamo può trasformarsi in luoghi di apprendimento.

Gli sguardi poi approfondiscono, le emozioni consolidano, i contatti integrano.

Quante occasioni in ogni incontro, anche in quello meno atteso!

Educarmi alle differenze significa questo e molto altro, scoprirlo è il mio compito, ricordarlo a me stessa, la mia missione.

Cecilia Gioia

*La conduttanza cutanea misura un concetto spesso citato dalla psicologia, chiamato arousal ovvero una attivazione generale che ognuno di noi prova quando si trova di fronte ad una particolare situazione: ad esempio, una minaccia (sensazione di paura) oppure a una festa a sorpresa per il nostro compleanno (sensazione di sorpresa e gioia incontenibile).

La tossicità psicologica.

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Ho deciso quindi di allontanarmi da ciò che intossica e opacizza.

E di porre attenzione ai momenti di contatto con elementi tossici che ci segnano e contaminano. Spesso però l’impegno di combatterli distoglie la nostra attenzione da ciò che è stato ritrovandoci già impregnat* di negativo e rabbia.

Rabbia cieca, senso di impotenza, frustrazione, sensazione di essere senza via di uscita, di esser cadut* nella trappola che elementi tossici abili e machiavellici hanno tessuto giorno dopo giorno. Una claustrofobica sensazione che attiva il nostro sistema di allerta aumentando il nostro livello di vigilanza.

I sensi si amplificano e fiutiamo nell’aria il pericolo che incombe e che lede alla nostra libertà.

Difficile stare in equilibrio quando la sensazione di pericolo persiste e la nostra amigdala si attiva. E ci avverte che il pericolo è vicino.

Perché spesso poi gli stimoli minacciosi si camuffano, si travestono in docili agnelli e provano a boicottare quella parte istintiva che per millenni ci ha protetto.

E quindi è facile distrarsi e non cogliere tutti i segnali.

Capita, a volte capita. E questo ci fa sentire vulnerabili e piccol*, mentre percepiamo chi ci minaccia, grande e invincibile.

Noi troppo piccol* e i chi ci intossica psicologicamente troppo grande.

Che fatica ritrovare l’equilibrio e riportare tutto in una relazione simmetrica!

E soprattutto richiamare dentro di noi la parte adulta e consapevole perché sa, con l’esperienza, che chi minaccia e aggredisce, in realtà, ha più paura di noi.

Chi tesse reti machiavelliche, chi rema contro il lavoro altrui, in una parola chi vìola la libertà, valore da difendere sempre, è spaventat*. E tanto.

Ed ecco che la nostra percezione cambia, non siamo più noi ad esser piccol*, ma chi continua a minacciarci.

Loro piccol*, noi di nuovo adult*.

Loro che utilizzano linguaggi altri per far rumore e condizionarci, noi che finalmente possiamo guardare negli occhi le loro fragilità.

Loro che pensano di avere il potere, noi che sorridiamo a noi stess* perché il vero potere è la libertà di non lasciarsi contaminare da emozioni e contatti tossici.

Loro e noi, in una osmotica lotta per differenziarsi e riconoscerci integri.

E se qualche ferita c’è stata, sorridiamo.

Le cicatrici se curate e celebrate raccontano atti di eroico coraggio e di vita.

La nostra.

Cecilia Gioia

Il 14 febbraio io ballo.

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“Un miliardo di donne violate è un’atrocità” sostiene Eve Ensler, “un miliardo di donne che ballano è una rivoluzione.

Sono partita da questa frase pronunciata da Eve Ensler, autrice de I monologhi della vagina, attivista e fondatrice del V-Day, per decidere di ballare ogni 14 febbraio.

E sempre da questa frase ho deciso che ballare insieme tutte significa produrre un’onda ossitocinica che invade tutt*, nessun* esclus*.

Un miliardo di donne, un numero assurdo e atroce se lo si associa alla violenza.

Un numero incredibile e rivoluzionario se rappresentato da mille storie di donne che prendono forma attraverso un corpo unico che balla e racconta.

Perché attraverso il ballo passa la rivoluzione. Una rivoluzione che non necessita di parole ma di azioni confluenti verso un unico obiettivo, un corpo che avvolge e coinvolge in una danza liberatoria e antica.

Ballare significa centratura, ascolto e libertà.

Ballare insieme ad altre donne significa sorellanza e consapevolezza.

Ballare davanti alle nostre figlie o ai nostri figli, alle nostre compagne o ai nostri compagni, alle nostre madri o ai nostri padri significa orgoglio e crescita.

Ballare davanti a tutte le forme di violenza subita significa ribellione e coraggio.

Ballare il 14 febbraio in una piazza incuriosita significa promuovere la cultura del rispetto.

Perché la rivoluzione parte da me, ogni giorno.

Attraverso il mio scegliermi, accogliermi e amarmi: scelta coraggiosa e concreta

che necessita di un costante ri-conoscermi dentro.

Perché contro la violenza sulle donne e le bambine serve una vera rivoluzione, a partire da ognuna di noi, dentro di noi.

Perché praticare verso di me atti gentili significa imparare ad amarmi e rispettarmi.

Spezzare le catene della violenza, i maltrattamenti fisici, le mutilazioni genitali, l’incesto e la schiavitù sessuale a cui una donna su tre è sottoposta in ogni luogo del mondo, questo il mio obiettivo.

Liberare il mio corpo e la mia mente per sentirmi parte consapevole di un corpo unico e meraviglioso, il mio impegno di ogni giorno.

Il 14 febbraio io ballo, e voi?

Cecilia Gioia

 

 

Anatomia del setting psicoterapeutico.

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Luogo davvero intimo e prezioso, fatto di segni e di significati, il setting terapeutico si presenta agli occhi della Persona che decide di intraprendere un percorso di psicoterapia, con le sue caratteristiche squisitamente individuali. Il termine setting deriva dal verbo inglese “to set” che significa delimitare, ma costituisce anche un sostantivo di per sé col significato essenzialmente di “cornice”. Una cornice davvero unica, dove possono liberamente esprimersi le storie terapeutiche, attraverso una narrazione costellata di simboli e ricordi. Un vero e proprio palcoscenico dove drammatizzare le proprie emozioni, dove sentirsi comod* di raccontarsi e prendersi cura del proprio dolore psichico. Un luogo dell’attesa, dove ogni elemento fisico e astratto racconta un significato, dove nessuna scelta è casuale ma funzionale, per “accogliere” e “contenere” e dove ogni psicoterapeuta racconta la sua esperienza come Persona. Che luogo incredibile, sembra quasi di “camminare dentro” le sfumature della personalità di chi accoglie e aspetta ora dopo ora le storie delle Persone, in una ciclicità di un tempo che ascolta e cura.

Perchè il setting terapeutico, il mio setting, è fatto di me e delle tracce che ogni Persona che ha scelto di “abitare” per un periodo questo spazio, ha lasciato. Piccole ma indelebili briciole che creano un continuum fatto di inizi, percorsi e saluti, dove ogni storia si è fatta spazio e a preso forma accomodandosi nella poltrona bianca.

Si inizia sempre così, timidamente ci si siede, provando ad esplorare con lo sguardo lembi di uno spazio sconosciuto. Quanto dolore negli occhi di chi si siede per la prima volta su quella poltrona e quanto stupore quando io mi siedo di fronte, eliminando quindi dal campo visivo, limiti o barriere fisiche o astratte. Si inizia sempre così, ci si scruta negli occhi, si prova a sostare negli angoli, in quegli angoli in cui per troppo tempo la psiche è stata costretta. La luce soffusa poi, la poltrona che avvolge e il non verbale che accoglie rende tutto più fluido. La schiena da rigida si appoggia allo schienale della poltrona, il tremolio della voce si riduce, le mani si aprono, lo sguardo si estende e la narrazione prende spazio. Uno spazio e un tempo rotondo che contiene, assimila, restituisce, respira. E cura, attraverso atti psicoterapeutici lavorando sulle risorse della Persona e sulla Relazione, ricucendo strappi di storia e rileggendo i ricordi, radici su cui fondiamo il nostro presente e il nostro futuro.

Il mio setting è fatto di me, di una scrivania che quotidianamente si arricchisce di tracce, di libri (tanti) e di appunti. Di penne che spesso faticano a scrivere, di post-it dai colori improbabili, di disegni dei figli e da una ciotola di caramelle spesso rifocillata anche dalle Persone che abitano settimanalmente il setting e che lasciano dolci tracce per le Persone che verranno nelle ore successive. Vedo in questo atto un gesto di grande alleanza e consapevolezza, di chi sa di coabitare questo spazio prendendosene cura per sé stess* e per le altre Persone; attraverso il gesto del lasciare non solo la sua storia e la sua sofferenza di vita, ma anche piccole dolcezze, l’essenza del dono prende forma, tra sconosciuti ignari ma consapevoli che un filo invisibile li lega, il desiderio di stare bene.

Sono grata al mio setting, ogni giorno e oggi, come sempre, voglio celebrarlo.

Cecilia Gioia

Cosa farò da grande?

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Volevo fare la cantante, la ballerina, la musicista, poi la giornalista, la scrittrice, l’arredatrice di interni, l’ispettrice di polizia, l’archeologa, la critica d’arte e la missionaria.

Mio padre invece voleva che facessi l’avvocata, mia madre l’insegnante.  Il mio essere figlia unica aveva permesso loro di avere idee chiare, quando si è unici meglio non caricare troppo, si rischia di confondere i desideri.

Io oggi  “sono” e “faccio” la psicologa clinica e psicoterapeuta.

Canto le storie delle persone che si rivolgono a me, danzo e percorro i loro passi, ho un buon orecchio per ascoltare attentamente la loro musica, suonando in concerto i loro spartiti di vita, e poi vivo di storie e conosco personaggi, li accolgo, li riconosco e do loro un nome; suggerisco arredi all’interno della psiche, armonizzando le sue mille sfumature, cerco indizi e tracce per leggere meglio i sintomi, torno indietro nel tempo e raccolgo i ricordi, mi soffermo in tutte le forme di bellezza, esercitando l’esercizio della psicoterapia come arte. E poi sto nella relazione d’aiuto con consapevolezza. Dimenticavo, esercito quotidianamente dispute sulle convinzioni irrazionali, e insegno attraverso la relazione terapeutica, l’arte della maieutica, aiutando a “tirar fuori” dalla persona le proprie risorse e consapevolezze.

E quindi, da grande, ho scelto bene. Ho integrato tutti i miei molteplici desideri del cuore in un’unica professione.

Sono e faccio la psicologa e psicoterapeuta, what else?

Cecilia Gioia

 

Quando la psicoterapia finisce.

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E’ un momento unico, denso di vuoti che riempiono e di silenzi che nutrono.

Perché quando una psicoterapia termina, la senti nell’aria e il setting rivela un passaggio evolutivo denso di significanti e significati. Noi psicoterapeuti questo momento lo conosciamo bene perché racconta una storia e una relazione costruita con passione. Perché di una relazione si tratta, di un appuntamento settimanale fatto di attesa, di riflessioni, di approfondimenti e di domande. Ogni Persona che ho accolto nel mio studio è una storia da ascoltare, una relazione da costruire, una fiducia da consolidare attraverso mille prove e mille ascolti. Noi psicoterapeuti siamo così, costruiamo relazioni terapeutiche attraverso l’ascolto attivo, l’empatia e l’accettazione dell’altro come un valore unico e promuoviamo il potere della Persona verso il cambiamento. Tutto questo richiede tempo, passione, consapevolezza e centratura costante del proprio Sè, strumenti che accompagnano quotidianamente il nostro lavoro ricordando a noi stessi il significato di una professione densa di emozioni. Perché quando emerge nella Persona che mi ha scelto un processo di cambiamento, so di aver stabilito con Lei un’alleanza terapeutica che protegge la relazione dalle innumerevoli resistenze che la psicoterapia può far emergere. E’ un percorso complesso e (im)prevedibile la psicoterapia: si può cadere e ci si può rialzare più volte. E ci si può scoprire sorprendentemente forti o incredibilmente fragili, perché è difficile scegliere di percorrere nuove strade. E’ un atto che richiede grande coraggio e FIDUCIA, verso sé stessi, verso il terapeuta scelto e la RELAZIONE.

La relazione che propone, protegge, nutre e accompagna la Persona verso un passaggio progressivo di autonomia evolutivamente sana e sostenibile. Ed è proprio lì che il percorso cambia forma, si consolida e si riempie di silenzi che raccontano una crescita consapevole attraverso una relazione che si prende cura e sostiene nuovi passi.

Galileo Galilei diceva: “Non puoi insegnare qualcosa ad un uomo. Puoi solo aiutarlo a scoprirla dentro di sè”. Ecco, quando si è raggiunto tutto questo, al momento del saluto, io dico sempre alla Persona che mi ha scelto come sua psicoterapeuta: “Abbiamo davvero fatto un buon lavoro, perché abbiamo scelto di farlo insieme”.

M. Cecilia Gioia