Chi è l’altr*?

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Tema familiare per chi lavora quotidianamente nell’incontro dell’altr* e che apre inevitabilmente mille interrogativi.

Mai come in questo periodo risuona fortemente nella nostra coscienza individuale e collettiva il bisogno di ritrovare la radice che sta alla base della convivenza, ovvero la capacità di mantenere quotidianamente uno spazio intersoggettivo che favorisca la somma dell’io e del tu. In altre parole abbiamo bisogno di nutrirci di relazioni efficaci, incontrando l’altr*, imparando a stare in questo luogo per gustarne a pieno le differenze.

Entrare in questo “spazio intersoggettivo” significa imparare a so-stare nel paradosso dell’incontro:  l’altr* è colui che identifico fuori di me, separato, fuori dal mio campo personale, ed è nel suo essere fuori che può entrare dentro, in un’osmotico scambio di similitudini e differenze.

Spesso però, entriamo in relazione con gli altri non riconoscendo loro una propria identità. Questo si verifica quando non riusciamo a so-stare nel paradosso dell’incontro, considerando l’altr* un’estensione di noi stessi, una proiezione dei nostri valori attraverso cui rivivere esperienze passate o soddisfare i nostri bisogni.

Spesso questo accade e crea in noi l’illusione di possedere l’altro, alimentando e consolidando dinamiche di distruzione.  Ed è proprio in questo possedere che l’altr* viene percepito come oggetto, indipendentemente dalla relazione stabilita evidenziando un paradosso mai come in questi tempi attuale: chi alimenta il possesso è sol*, perché l’atto di possedere esclude la possibilità dell’incontrare.

Ecco perchè, in tempi così duri, abbiamo bisogno di stabilire relazioni con l’altr* per incontrare noi stessi. La relazione dunque si trasforma in uno specchio, non sempre comodo, che riflette immagini non sempre rassicuranti.

Ed è proprio nei riflessi scomodi che percepiamo il dolore dell’incontro, cercando disperatamente di allontarci da quel dolore, mettendo in atto, ahimè, strategie di evitamento e intolleranza. Odiamo l’altr*, lo percepiamo minaccios*, desideriamo che scompaia alla nostra vista, dimenticando che l’altr* è solo una delle mille variazioni di noi.

Perchè so-stare nell’incontro con l’altr* ci insegna a so-stare con noi stess*.

Perchè accogliere i riflessi scomodi dell’altr*, ci insegna ad accogliere e integrare tutte le nostre parti, tutti gli innumerevoli pezzetti che abbiamo sviluppato nella nostra esperienza di vita. Ed è in quell’unità individuale che è possibile aprirsi all’altr*, in modo autentico, scoprendo il gusto della diversità, come risorsa evolutiva per vivere.

Cecilia Gioia

 

La salute psicologica delle donne in gravidanza ai tempi del Coronavirus

23593357_1416201181812398_5087625289057612355_oIl primo studio italiano che ha valutato come lo stato di ansia, depressione e attaccamento materno fetale è influenzato dalla diffusione dell’infezione da Coronavirus nelle donne in gravidanza. Uno studio dell’Associazione di Volontariato Mammachemamme patrocinato dal Movimento Italiano Psicologia Perinatale(MIPPE)

 

La gravidanza, per la donna, rappresenta un periodo di trasformazioni fisiche ed emotive, di adattamento e continue scoperte. L’emergenza sanitaria rappresentata dalla circolazione del virus responsabile della COVID-19, sta avendo un notevole impatto sullo stile di vita della gestante

e sulla gestione della gravidanza. Durante il periodo di gestazione, una condizione cronica di stress, è uno dei più importanti fattori di rischio sia a livello fisico, psicologico che sociale. Lo stress sappiamo, è la risposta dell’organismo a stimoli nocivi che influenzano il suo equilibrio interno basale. Questa attivazione genera una tensione profonda nell’intero sistema manifestata da una serie di modificazioni psicofisiche e comportamentali atte a consentire all’organismo la reazione di difesa. Qualunque sia la natura dell’agente stressante, in questo caso il coronavirus, i meccanismi di adattamento che vengono innescati sono simili seppur orientati, da ognuno di noi, verso ciò che maggiormente percepiamo come vulnerabile o in pericolo. Questo conferma che si tratta di una risposta biologica primaria legata alla sopravvivenza, un meccanismo difensivo con cui l’ organismo si sforza di superare una difficoltà per poi tornare, il più presto possibile, al suo normale equilibrio operativo basale. Il tipo di stress che le donne in gravidanza stanno vivendo in questo periodo, è un tipo di stress che fino ad oggi non conoscevano, perché legato all’isolamento e alla riduzione dei contatti fisici, e mentre sempre più numerosi studi dimostrano come lo sviluppo fisico e mentale dipende dal contatto durante tutto il corso della nostra vita, ci chiediamo quale sarà l’impatto che questo tipo di condizione avrà sulle donne in gravidanza.

Attualmente le poche notizie disponibili su COVID-19 in gravidanza sono abbastanza rassicuranti, ma visto l’esiguo numero di studi, è comprensibile registrare una forte risposta di ansia nelle donne in attesa, che si orienta verso l’andamento della gravidanza, i figli, i parenti, il lavoro e il futuro in generale della società.

Lo studio SEG-Covid19, un’indagine epidemiologica promossa dall’Associazione di Volontariato Mammachemamme con il patrocinio del Movimento Italiano Psicologia Perinatale (MIPPE) vuole valutare come l’impatto mediatico dato dalla diffusione del Coronavirus sta influenzando la salute psicologica delle donne in gravidanza.

 

All’indagine, avviata il 14 marzo, hanno risposto oltre 1000 donne con un’età media di 32 anni, ugualmente distribuite nel territorio nazionale. Le donne con un’età media di gestazione di 26° settimana presentano le seguenti caratteristiche demografiche e cliniche: il 46% ha conseguito una laurea e il 58% ha un lavoro dipendente; il 61% è coniugata, mentre il 31% è convivente; infine il 65% versa in condizioni economiche modeste, mentre il 16% presenta difficoltà economiche. Dal punto di vista ginecologico, il 52% è alla prima gravidanza e il 40% alla 2° gravidanza. Il 26% ha avuto precedenti interruzioni di gravidanza, mentre il 14% ha in corso una gravidanza a rischio. Il 63% ha partecipato ai percorsi di accompagnamento alla nascita e il 65% intende farlo.

 

Come sono state valutate le mamme.

Per misurare la percezione di pericolo per la salute della gestante, del nascituro e dei suoi familiari dovuto alla diffusione del Coronavirus è stato costruito un questionario ad hoc. Alle donne si è chiesto di indicare su una scala likert l’intensità della loro preoccupazione riguardo l’impatto del Coronavirus sulla loro salute, sull’andamento della gravidanza, sui figli, i loro parenti, il lavoro e il futuro in generale della società. Il peso dei valori di questa scala insieme alle variabili cliniche-demografiche sono state inserite in un modello di regressione per misurare la loro influenza sui livelli di ansia, depressione e attaccamento prenatale.

I risultati dello studio

I valori di ansia di stato delle madri superavano i livelli di soglia di normalità (STAI-Y1: 55.5), come quelli relative alla depressione (BDI-II: 12.4). Per misurare l’attaccamento prenatale (APN) ovvero l’insieme di pensieri che la futura madre ha nei confronti del proprio feto e che aumentano di intensità con l’andamento della gravidanza, è stata utilizzata la Prenatal Attachment Interview. Nelle analisi preliminare l’attaccamento prenatale delle future mamme italiane risultava più basso nelle donne con più alto stato di ansia (r= -0.18; p-level< 0.0001) e depressione (r= -0.13; p-level= 0.0004).

 

Le analisi di regressione multipla dimostrano che i livelli di ansia di stato, depressione e l’attaccamento prenatale delle donne in gravidanza sono influenzati da tre variabili: la percezione di pericolo legato al Coronavirus, lo stato economico della famiglia e la presenza di altri figli. Nello specifico, l’alta percezione di pericolo per la diffusione del virus, le difficoltà economiche e la presenza di altri figli in famiglia, sono tutti fattori che aumentano lo stato di ansia e depressione delle gestanti, influenzando l’attaccamento prenatale (r2= 0.54; p-level < 0.0001).

 

Negli ultimi anni un numero crescente di studi ha messo in luce un’associazione tra l’ambiente delle prime fasi dello sviluppo di un individuo e il modo in cui l’organismo si formerà.

Un’analisi condotta sul cordone ombelicale, sulla placenta e sul sangue materno ha messo in evidenza che se la mamma vive un momento di forte stress e preoccupazione durante la gravidanza, il bambino che porta in pancia non solo registrerà questo stress ma ne sarà a sua volta influenzato. Questo principio alla base dell’epigenetica, ci insegna come le modificazioni biochimiche all’interno delle nostre cellule hanno la possibilità di alterare l’espressione di alcuni geni.

E’ importante sottolineare che l’espressione dei nostri geni è influenzata dall’interazione del nostro organismo con l’ambiente esterno. Nello specifico, i nostri risultati evidenziano l’importanza di attuare programmi di prevenzione per evitare che lo stato di salute psicologica delle donne in gravidanza, non solo in questo periodo, abbia il minore impatto possibile sulla donna, il nascituro e la famiglia.

La solitudine delle madri.

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Noi madri siamo sempre più sole. Sempre più sole e sempre più giudicate.

Devi fare questo“, “Non puoi non fare così“, “Così lo vizi!“, “Ma che tipo di madre sei?” e potrei continuare per ore. Come madre e psicoterapeuta che si occupa di perinatalità, ascolto ogni giorno i rumorosi silenzi delle mamme. E incontro la difficoltà di una società distratta a restare in ascolto, sospendendo il giudizio e sostenendo l’accoglienza.

Il rischio di sviluppare una depressione postnatale è maggiore nelle 5 settimane dopo il parto. Si manifesta quando la donna presenta da e per almeno due settimane umore depresso e interesse nelle abituali attività e almeno cinque di questi sintomi: disturbi del sonno e/o dell’appetito, iperattività motoria o letargia, faticabilità o mancanza di energia, sensi di colpa, bassa autostima, sentimenti di impotenza e disvalore, ridotta capacità di pensare o concentrarsi e pensieri ricorrenti di morte.

Esiste un modello biopsicosociale che spiega la depressione postpartum attraverso tre fattori di diversa natura quali:

  • I fattori di vulnerabilità, che rispecchiano il fatto che alcune donne sono più soggette alla depressione postnatale che altre.
  • I fattori facilitanti-scatenanti: i livelli di stress collegati a eventi difficili accaduti subito prima dell’insorgenza della depressione postnatale, le variabili moderatrici dello stress(sostegno sociale e abilità di coping).
  • I fattori biologici, come un improvviso e considerevole calo nei livelli degli estrogeni dopo il parto.

Le cure possono consistere nella psicoterapia e nella partecipazione a terapie di gruppo con donne che manifestano la stessa sintomatologia; nell’eventuale assunzione di ansiolitici e antidepressivi, che sono cure possibili, ma da assumere comunque sotto controllo medico.

Una donna che soffre di depressione ha bisogno di essere riconosciuta nel suo disagio attraverso una presa in carico che non coinvolge solo la donna, ma tutto il sistema familiare che ne è inevitabilmente coinvolto. Lo sviluppo del rapporto madre-bambino è il processo psicologico centrale del periodo perinatale. La relazione madre-bambino inizia già durante la gravidanza e consiste essenzialmente in idee ed emozioni attivate dal bambino che trovano la loro espressione nei comportamenti affettivi e protettivi della madre. La depressione post-partum trascurata o sottovalutata può avere effetti negativi su tutta la famiglia, condizionando il corretto sviluppo di una buona relazione madre-bambino. Una donna che soffre di depressione postpartum sperimenta quotidianamente un ventaglio di emozioni che fatica a condividere perchè inaccettabili, prima di tutto da se stessa, come ostilità verso il bambino, rammarico per la gravidanza, sensazione di sollievo quando si allontana dal bambino, tentativo di evasione o fuga dal contesto relazionale.

È necessario rivolgersi ad un* specialista, un* psicoterapeuta o un* psichiatra, se i sintomi sono di una entità allarmante o comunque persistono oltre le due settimane, se si ha la sensazione di poter fare del male a se stesse o al proprio bambino e se i sintomi di ansietà, paura e panico si manifestano con grande frequenza nell’arco della giornata.

E’ importante ricordare che la depressione post partum non si manifesta subito dopo il parto. La maternity blues, o tristezza post-partum, è una sindrome transitoria che può intervenire nelle prime 48 ore dopo il parto. Di norma si risolve spontaneamente entro una settimana. È importante identificare le donne con maternity-blues poiché il 20% di esse presentano un episodio depressivo maggiore nel primo anno dopo il parto.

La gravidanza è un momento irripetibile nella vita di una donna, tanto delicato quanto incredibilmente denso di forza e di coraggio. E’ il tempo dell’attesa e della fisiologica necessità di imparare a sostare con gli innumerevoli modifiche fisiche e psicologiche che accompagnano i nove mesi di endogestazione. Ecco perché è importante sostenere le donne e i papà sin dal preconcepimento, in un’ottica di prevenzione e promozione di benessere psicofisico, promuovendo spazi di incontro e confronto tra i neo genitori. Da un po’ di anni, come operatori che si occupano di perinatalità, stiamo cercando di diffondere informazioni per prevenire e portare alla consapevolezza di tutti la necessità di ricreare una rete di sostegno intorno alle neomamme in un’ottica di salutogenesi per tutte le famiglie. Molto è stato fatto, ma non abbastanza, ecco perché è necessario continuare a fare prevenzione attraverso tutti i mezzi divulgativi. Per info si può consultare il sito www.depressionepostpartum.it e selezionare la regione di riferimento per conoscere i centri o le associazioni riconosciute a livello nazionale che si occupano di depressione postpartum. Anche sul nostro territorio sono sempre più presenti associazioni che si occupano di stare accanto alle neomamme e ai neopapà promuovendo il famoso proverbio “Per crescere un bambino o una bambina, ci vuole un intero villaggio”. Ecco, il villaggio attualmente, non fa abbastanza, non riesce a proteggere tutte le madri. Dovremmo imparare a fare più silenzio, per riuscire ad ascoltare la richiesta di aiuto delle madri e delle famiglie, sospendendo il giudizio e accogliendo i bisogni.

Cecilia Gioia

Aiuto….ho l’ansia!

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L’ansia, in condizioni normali, è uno stato di attivazione psicologica e organica che ci consente di affrontare le difficoltà quotidiane e la loro risoluzione. L’ansia diviene patologica, e non più adattiva, quando condiziona la qualità della vita inficiando le normali attività quotidiane. Tutto questo influenza notevolmente la percezione della realtà rendendo la persona incapace di contenere e esprimere le proprie emozioni in maniera funzionale e riducendo significamente le personali capacità di problem solving, anche nelle situazioni più semplici.

Il panico consiste in uno stato di intensa paura che raggiunge il suo picco nel giro di circa dieci minuti, caratterizzato dalla comparsa, spesso inaspettata, di almeno quattro dei seguenti sintomi: palpitazioni, sudorazione, tremori, dispnea, sensazione di asfissia, dolore al petto, nausea, sensazione di instabilità e sbandamento, derealizzazione o depersonalizzazione, sensazione di perdere il controllo, impazzire o morire, parestesie, brividi o vampate di calore.

Di solito gli attacchi di panico sono più frequenti in periodi stressanti. Alcuni eventi di vita possono infatti agire da fattori scatenanti quali la separazione, la perdita o la malattia di una persona significativa, l’essere vittima di una qualche forma di violenza, problemi finanziari e lavorativi.

I disturbi d’ansia, nelle loro innumerevoli manifestazioni, sono molto diffusi nel mondo occidentale negli ultimi anni. Il contesto socioeconomico e culturale, le relazioni familiari non ne sono la causa primaria, ma indubbiamente contribuiscono a trasformare in patologia una predisposizione di base, anche di tipo genetico.

Come psicoterapeuta ho potuto constatare quanto questi disturbi possano influenzare la qualità della vita dell’individuo, che mette in atto una serie di strategie di evitamento delle situazioni considerate ansiogene. L’approccio cognitivo comportamentale spiega gli attacchi di panico come uno stimolo incondizionato che, presentandosi in relazione temporale o spaziale con altro stimolo, fanno si che quest’ultimo inneschi una risposta condizionata che si manifesta attraverso le condotte di evitamento . Ad esempio se penso all’ascensore inizio ad avere le palpitazioni ed evito di salirci. Inoltre, gli aspetti cognitivi, ovvero i pensieri coinvolti nell’eziologia e nel mantenimento degli attacchi di panico sono spesso il risultato di “interpretazioni catastrofiche” di eventi fisici e mentali considerati erroneamente come segni di un imminente disastro. Ad esempio l’aumento del battito cardiaco può essere interpretato come un indicatore di un attacco di cuore. La Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) è considerata attualmente la terapia che ottiene i risultati migliori nel trattamento della maggior parte dei disturbi emozionali e del comportamento dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla comunità scientifica internazionale.

È un approccio psicologico di tipo educativo che ha come obiettivo principale far apprendere nuove modalità e abilità comportamentali e cognitive. In particolare, l’attenzione dello psicoterapeuta è posta sui comportamenti disfunzionali, sulle credenze e sui pensieri che sono alla base delle cause del disagio.

La terapia cognitivo comportamentale nel trattamento del disturbo di panico risulta quindi essere un approccio più che valido poiché permette di lavorare sia a livello comportamentale, attraverso le esposizioni, sia a livello cognitivo, tramite l’individuazione degli errori di pensiero e la ristrutturazione cognitiva, arrivando così ad ottenere un modo di pensare e leggere le situazioni più semplice, proficuo.

Cecilia Gioia

Quando le pance brontolano (e si raccontano).

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Il titolo può far pensare ad una risposta fisiologica da risveglio in attesa di una abbondante colazione, in realtà ben si riferisce ad un brontolio psicologico, persistente e rumoroso che spesso fatichiamo a riconoscere.

Si, perchè la nostra psiche parla, racconta e brontola.
La mia poi, ultimamente (sarà l’età?) va spesso in sciopero, riconoscendosi il diritto di esprimere la sua perchè attivata dalle innumerevoli sollecitazioni che la vita quotidiana ci regala. Ed ecco che il brontolio aumenta, linkando ad episodi scomodi, tessendo una rete densa e spesso difficile da mollare.
Essere consapevole di questo movimento psichico permette a noi stessi di entrare in contatto con le emozioni più rumorose per ascoltarle e fare spazio alle loro innumerevoli sfaccettature.
Essere in ascolto di noi ci fa connettere con le nostre parti che spesso dimentichiamo o proviamo a rendere afone. Strategia davvero inutile e dispendiosa, perchè scarsamente funzionale e irrispettosa dei nostri bisogni.
Ecco perchè ho imparato negli anni a fare spazio al mio brontolio psichico regalando alla sua narrazione uno spazio confortevole e legittimo. Mi piace pensarmi eternamente in ascolto, un ascolto attivo e curioso mentre tutte le mie parti si riuniscono e fanno assemblea raccontandosi giornate dal retrogusto un pò amaro, mostrando piccole e grandi ferite da battaglia e imparando strategicamente a prendersene cura. Le immagino davvero così, piccole parti di un IO unitario e ribelle, che spesso faticano a convivere ma che con gli anni hanno imparato a sperimentare un equilibrio flessibile e trasformabile.
Perchè in fondo siamo davvero così, contenitori e contenuti densi di significati e significanti, in attesa di narrarsi storie e briciole, in attesa di scoprirci uniche/i mentre la pancia brontola compiaciuta, noi impariamo ad amarci.
Cecilia Gioia

Il dono: una storia zen.

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C’era una volta un anziano samurai che si dedicava a insegnare il buddismo zen a giovani allievi. Malgrado la sua età, correva la leggenda che fosse ancora capace di sconfiggere qualunque avversario.
Un pomeriggio si presentò un giovane guerriero conosciuto per la sua totale mancanza di scrupoli. Egli era famoso per l’uso della tecnica della provocazione: aspettava che l’avversario facesse la prima mossa e, dotato di una eccezionale intelligenza che gli permetteva di prevedere gli errori che avrebbe commesso l’avversario, contrattaccava con velocità fulminante. Questo giovane e impaziente guerriero non aveva mai perduto uno scontro. Conoscendo la reputazione del samurai, aveva deciso di sfidarlo, sconfiggerlo e accrescere così la propria fama.
Tutti gli allievi del vecchio samurai si dichiararono contrari all’idea, ma il maestro decise ugualmente di accettare la sfida lanciata dal giovane guerriero.
Si recarono tutti nella piazza della città: il giovane cominciò a insultare l’anziano maestro. Lanciò prima alcuni sassi nella sua direzione, gli sputò poi in faccia. Gli urlò tutti gli insulti che conosceva, offendendo addirittura i suoi antenati. Per lunghe ore fece di tutto per provocarlo, tuttavia il vecchio si mantenne impassibile.
Sul finire del pomeriggio, quando ormai si sentiva esausto e umiliato, l’impetuoso guerriero si ritirò.
Delusi dal fatto che il maestro avesse accettato tanti insulti e tante provocazioni senza reagire, gli allievi gli domandarono:
– “Come avete potuto sopportare tante indegnità? Perché non avete usato la vostra spada? Anche sapendo che avreste potuto perdere la lotta, avreste mostrato il vostro coraggio! La gente penserà che siete un codardo!”
L’anziano maestro samurai, allora domandò loro:
– “Se qualcuno vi si avvicina con un dono e voi non lo accettate, a chi appartiene il dono?”
– “Appartiene a chi ha tentato di regalarlo” – rispose uno dei ragazzi.
– “Lo stesso vale per l’invidia, la rabbia e gli insulti” – disse il maestro – “Quando invidia, rabbia e insulti non vengono accettati, continuano ad appartenere a chi li porta con sé”.

Lo Zen è una filosofia buddhista, un’arte del vivere e un modo d’essere. Secondo lo Zen questo processo si realizza attraverso la pratica, ovvero imparare a vivere con consapevolezza e agire in accordo con la propria natura: “Quando cammini cammina, quando sei seduto sii seduto, soprattutto non vacillare“.

Grazie agli insegnamenti zen possiamo quotidianamente imparare a mantenere il nostro equilibrio interiore nonostante le tante provocazioni che siamo costretti a “subire”.

Il racconto del vecchio Samurai ci insegna a come accogliere esperienze emotivamente tossiche senza lasciarsi inquinare psicologicamente e fisicamente. Imparare ad allontanare dalla propria vita ciò percepiamo come tossico, protegge il nostro equilibrio e le nostre energie. Alla luce di questo è necessario comprendere la differenza tra “reagire” e “rispondere” ad una provocazione. In genere reagiamo alle circostanze, come ad esempio, se qualcuno urla contro di noi, reagiamo allo stesso modo, urlando.

Aggrapparsi alla rabbia è come afferrare un carbone ardente con l’intento di gettarlo a qualcun altro; sei sempre e solo tu a rimanere bruciato”. Buddha

Ma possiamo imparare a rispondere, decidendo consapevolmente di avere il controllo. Vale a dire che se non accettiamo le provocazioni, i regali avvelenati, eviteremo di essere contagiati dalla loro tossicità.

“Siamo al mondo per convivere in armonia; coloro che ne sono consapevoli non lottano tra di loro” Buddha
In che modo?
  • Scopriamo cosa attiva in noi le risposte maladattive al punto di perdere il controllo. Questo ci permetterà di riconoscere i trigger che innescano in noi comportamenti di attacco/fuga da alcune situazioni per ripristinare la nostra sicurezza interna. Generalmente queste modalità sono apprese durante i nostri primi anni di vita.
  • Impariamo a lasciare il nostro passato alle spalle, trasformando le esperienze passate, anche quelle più dolorose, come insegnamenti. Riconoscere le proprie ferite e prendersene cura determina in noi un processo di guarigione interiore che ci rende più forti e ci fa sentire sicur*.
  • Guardiamo ai nostri stati emotivi come a delle nuvole transitorie che ora coprono il cielo, ma presto non ci saranno più. Se non ci lasciamo trasportare, è possibile non agire sulla rabbia e sulle provocazioni, imparando ad accettare o rifiutare quello che gli altri ti offrono.. E ricordiamo che è impossibile controllare tutte le nostre reazioni emotive, ma possiamo imparare a riconoscere e guidare in modo funzionale i nostri atteggiamenti e comportamenti.
Cecilia Gioia

 

 

 

Siamo tutti dei porcospini?

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“Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”. (Arthur Schopenhauer – ‘Parerga e Paralipomena’).

In questo breve racconto, il filosofo Arthur Schopenhauer ci fa riflettere sulla difficoltà del vivere in gruppo e mantenere la giusta distanza nelle relazioni interpersonali per non ferirsi l’un l’altro.

Nel dilemma del porcospino, l’unico modo per evitare di ferirsi e di pungersi è quello di restare vicini, ma non troppo vicini. In questo modo i protagonisti riescono a trovare riparo sia dagli aculei che rischiano di pungerli che dal freddo.

Ma siamo tutti dei porcospini quando parliamo di relazioni interpersonali?

Jon Maner e i suoi colleghi hanno voluto approfondire questa domanda con uno studio sperimentale che ha avuto come oggetto il modo in cui le persone rispondono al rifiuto sociale. Nell’ articolo “Does Social Exclusion Motivate Interpersonal Reconnection?Resolving the “Porcupine Problem” gli autori hanno dimostrato che in seguito a continui rifiuti le persone molto ansiose diventano meno socievoli. Le persone più ottimiste, invece, nonostante i rifiuti ricevuti, si impegnano molto per rafforzare le proprie relazioni con gli altri.

I ricercatori concludono « A questo punto va ricordata la risposta che Schopenhauer stesso suggeriva al dilemma del porcospino: infatti Schopenhauer asseriva che le persone cercano naturalmente una distanza di sicurezza dagli altri. “In questo modo” scriveva “il mutuo bisogno di calore viene soddisfatto solo in parte; ma le persone almeno non si feriscono”. (1851/1964, p. 226) Naturalmente Schopenhauer era noto anche per il suo carattere cupo e la sua filosofia era nota per il pessimismo.[5] ».

Alla luce di questo, possiamo davvero sentirci tutti dei porcospini? 

Ognuno di noi può chiederlo a se stess* e provare a rispondere.

Forse molt* di noi provano paura nell’avvicinarsi agli altre o alle altre a causa di alcuni eventi dolorosi del nostro passato. Forse fatichiamo a sperimentare il valore del contatto come occasione di nutrimento, ma non dovremmo mai rinunciare alla nostra vita sociale. Non dovremmo mai evitare di entrare nella relazione con l’altr*, perchè è vero, i rapporti con gli altri e con le altre sono sempre una scommessa, ma è proprio questo che li rende unici e preziosi. E il nostro quotidiano impegno a mantenerli in equilibrio un esercizio per conoscerci e conoscere. E crescere.

Cecilia Gioia

La Scala di Edimburgo per un’autovalutazione della depressione post partum.

Maternity-blues-ok-950x545È l’unico test di screening attualmente riconosciuto a livello internazionale. La sua applicazione può rivolgersi a popolazioni di origini etniche diverse. Il test non costituisce di per sé una diagnosi di dpp, ma può essere un punto sa cui partire. In generale si esegue si esegue dopo due settimane dalla nascita del bambino ed è necessario rispondere a tutte le domande e sommare il punteggio.

1) Negli ultimi 7 giorni sono stato capace di sorridere e vedere il lato divertente delle cose:

– Come sempre  = 0 punti
– Un po’ meno del solito = 1
– Decisamente meno del solito = 2
– Per niente = 3

2)  Negli ultimi 7 giorni guardavo alle cose imminenti con gioia:

– Come sempre  = 0 punti
– Un po’ meno del solito = 1
– Decisamente meno del solito = 2
– Per niente = 3

3) Negli ultimi 7 giorni mi rimproveravo senza motivo quando le cose andavano male:

– Sì, per la maggior parte delle volte = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

4) Negli ultimi 7 giorni sono stata ansiosa e preoccupata senza una ragione:

– No, per niente = 0 punti
– Molto raramente = 1
– Sì, qualche volta = 2
– Sì, molto spesso = 3

5) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita spaventata o terrorizzata senza una vera ragione:

– Sì, abbastanza = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

6) Negli ultimi 7 giorni le cose mi sovrastano:

– Sì, per la maggior parte del tempo non riesco a cavarmela affatto = 3 punti
– Sì, a volte non riesco a cavarmela come al solito = 2
– No, la maggior parte delle volte me la cavo abbastanza bene = 1
– No, me la sono cavata come sempre =0

7) Negli ultimi 7 giorni sono stata così infelice che da non riuscire a dormire:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non per molto = 1
– No, mai = 0

8) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita triste e abbattuta:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, abbastanza spesso= 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

9) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita così triste da mettermi a piangere:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, abbastanza spesso = 2
– Soltanto occasionalmente = 1
– No, mai = 0

10) Negli ultimi 7 giorni il pensiero di farmi del male mi è venuto in mente:

– Sì, abbastanza spesso = 3 punti
– Qualche volta = 2
– Quasi mai =1
– Mai = 0

In linea con la letteratura internazionale si può considerare un punteggio 9-11 come indicatore di medio rischio e ≥12 come indicatore di rischio elevato. Il solo punteggio non deve sostituire il giudizio clinico, è opportuno avvalersi di un colloquio clinico approfondito rispetto ai singoli item. L’importante è che non pensare di farcela da sola: la depressione è una malattia a tutti gli effetti e come tale va curata.

Puoi prenotare un colloquio clinico al numero 388/3620740.

Ti disprezzo, ma ho bisogno di te

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E’ in questa frase l’essenza del comportamento passivo aggressivo, una continua ambivalenza tra l’ostilità e l’intensa dipendenza emotiva dagli altri. L’aggressività passiva è una modalità di esprimere rabbia indirettamente, cioè ferendo gli altri senza “visibilmente” fare nulla. Tutto questo si esprime in sarcasmo, complimenti ambigui, eccessive dimostrazioni di interesse e gentilezza irreali, procrastinazioni, finti fraintendimenti, omissioni e negazione dei propri sentimenti di rabbia quando qualcuno li nota. Alla luce di tutto questo definiamo il comportamento passivo aggressivo come un modo deliberato e mascherato di esprimere sentimenti di rabbia (Long, Long & Whitson , 2008).

Per essere classificati come atteggiamenti passivo-aggressivi, devono essere accomunati un’intenzione ostile nascosta dietro un atteggiamento apparentemente disponibile. Di fatto utilizzando questo tipo di comportamento, le persone esprimono la loro scarsa tendenza all’assertività, la difficoltà ad affrontare un eventuale conflitto e le emozioni negative emergenti seguiti dai sensi di colpa.

Ecco alcuni esempi di comportamenti passivo-aggressivi:

  • adottare una comunicazione ambigua;
  • drammatizzare;
  • procrastinare;
  • chiedere frequentemente scusa;
  • utilizzare i sensi di colpa;
  • essere spesso in ritardo;
  • polemizzare;
  • essere irresponsabile;
  • evitare l’intimità e la tenerezza verso l’altro;
  • controllare e manipolare l’altro.

Tutti questi comportamenti passivo-aggressivo hanno in comune l’insicurezza nell’esprimere i propri sentimenti e le proprie emozioni.

Benchè tutti noi utilizziamo saltuariamente comportamenti di questo tipo, ci sono alcune persone che ne fanno la loro modalità di relazione abituale.

Una buona consapevolezza delle emozioni che ci abitano è fondamentale per un equilibrio psicologico, ecco perché diventa fondamentale il concetto di “regolazione emotiva”. Nel caso della rabbia, indica la capacità dell’individuo di esprimere questa emozione liberamente, evitando atteggiamenti di repressione, di aggressività passiva o disregolata.

Cecilia Gioia

Bibliografia:

The Angry Smile: The Psychology of Passive-Aggressive Behavior in Families, Schools, and Workplaces. Long, Long & Whitson , 2008

 

 

Il grande segreto.

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Foto dal web

Negli anni la pratica clinica ha affinato i miei sensi rendendoli più sensibili e recettivi verso le storie che ascolto. Come nel caso di chi decide di abitare per un determinato periodo di vita il mio setting psicoterapeutico portando dietro di sé un grande segreto.

Quando questo arriva, lo sento nell’aria, tutto si sospende ed è in attesa, regalando tempi e pause ormai conosciute. E allora respiro, mi ascolto e aspetto, come chi sa che sta per assistere al grande miracolo dell’apertura del vero Sé.

E la persona lentamente si rivela, (ri)scoprendo parti di Sé per troppo tempo inibite dalle varie strategie di evitamento che hanno come un unico scopo di impedire l’accesso a un ricordo percepito come pericoloso per la coscienza.

Ma cos’è un grande segreto?

Potrebbe riguardare un episodio specifico (un trauma), oppure una condizione generale (es: i ricordi di come ci si sentiva annullati dalle critiche dei genitori). Ricordi e temi di vita dolorosi possono nascondersi oltre la coscienza e stimoli del presente possono farli rivivere richiamando parti di Sé dimenticate ma bisognose di essere (ri)conosciute e integrate.

Un esempio può essere rappresentato da chi, a ogni presa in giro del proprio capo, rischia di provare lo stesso senso di umiliazione ricevuto ad opera di un insegnante alle elementari. A questo punto la coscienza potrebbe apparentemente trarre vantaggio dall’inibire l’accesso di questi ricordi a sé stessa. E quindi cristallizza e protegge negli anni il grande segreto innescando una serie di meccanismi di difesa che generano sistemi disfunzionali e patologie che probabilmente non sarebbero comparse altrimenti. E’ fondamentale, per noi clinici, mantenere un approccio integrato e per questo inserire protocolli mirati alla cura del trauma, per accompagnare la persona che ha scelto di condividere con noi un percorso di psicoterapia, a svelare a se stess* il grande segreto.

Ci vuole davvero grande coraggio e fiducia per decidere di attraversare insieme quel confine, per conoscere cosa vi si nasconde, abitandolo per comprendere che non può distruggerci, ma renderci più forti e consapevoli. E tanta consapevolezza clinica e profondo rispetto verso i passaggi evolutivi di chi ha scelto di donarci la sua storia di vita e il suo grande segreto.

Cecilia Gioia