La sindrome rancorosa del beneficato.

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L’ingratitudine è un comportamento umano che riflette sentimenti negativi nei confronti del nostro prossimo. Ed è proprio l’ingratitudine e il rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente) che coglie chi ha ricevuto un beneficio, visto che tale condizione lo pone in “debito di riconoscenza” nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli “dovrebbe” riconoscere ma che non riesce ad accettare di aver ricevuto, al punto di arrivare a penalizzare e calunniare il suo benefattore.

Di tutt’altra matrice la gratitudine, l’emozione che ci permette di poter apprezzare la vita nel qui ed ora e di vivere liberamente i doni che l’altro sceglie di donarci. Proviamo a pensare a quante volte pronunciamo la parola “Grazie” nella nostra giornata e se la risposta tarda ad arrivare iniziamo a pensare alla gratitudine come ad una qualità da coltivare quotidianamente per essere felici.

Ma torniamo alla comprensione di questa sindrome non dimenticando il ruolo fondamentale di entrambi i protagonisti di questa dinamica, il beneficiato e il benefattore nell’espressione di questo comportamento. Ed ecco che la domanda: “Che struttura di personalità presentano il benefattore ed il beneficato?“ci permette di andare oltre la superficie comportamentale per scoprire le aspettative e le emozioni legate a questa relazione di reciprocità non sempre espresse e riconosciute.

Esistono in letteratura,  varie tipologie di benefattore come quello:

  • OCCASIONALE
  • INCALLITO
  • PER FEDE O IDEOLOGIA
  • IN OMBRA
  • ILLUSO-DISILLUSO
  • D’AMORE

e varie tipologie di beneficato:

  • INSAZIABILE
  • STITICO
  • DISTRATTO
  • SILENZIOSO
  • TRADITORE
  • D’AMORE

Proviamo a pensare a quale di queste tipologie ci sentiamo di appartenere, cercando di ricordare l’ultimo episodio di vita che ci ha coinvolto in questa dinamica.

E mi rivolgo a te che stai leggendo ora, sei stato più benefattore o beneficato?

Cecilia Gioia

 

Bibliografia:

  • Maria Rita Parsi, Ingrati, ed. Oscar Mondadori

Nella mente di una psicoterapeuta

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Capita di tornare a casa e di portare su di me le storie raccolte in una giornata di ascolto. Perché di ASCOLTO si tratta, di ascolto “dentro”, per fare spazio all’altr* me che incontro in ogni seduta terapeutica.
Questo è il mio lavoro, amato, odiato, sudato, masticato, indossato quasi come una seconda pelle.
Perché un lavoro così ti scava a fondo e ti “costringe” quotidianamente a “stare” anche quando umanamente vorresti andare via.
Croce e delizia di un’arte antica quanto efficace che regala paesaggi mozzafiato di incommensurabile bellezza.
Pensavo che per fare questo lavoro è necessario esercitarsi all’amore verso l’altro. Ogni giorno. Perché non bastano i tecnicismi e i protocolli, perché la differenza la fa il CUORE.
E si sente, mentre la mia poltrona aspetta la PERSONA che verrà.
Strano lavoro quello della psicoterapeuta, misto di scienza e mistero, dove è necessario so-stare a “pori aperti” per assorbire e restituire, un po’ come i polmoni fanno con l’ossigeno.
Assorbire e restituire in un’osmosi psichica che narra emozioni e vita.
Mentre le ore scorrono e le PERSONE scivolano aderendomi addosso, nei capelli, nella mente e soprattutto nel cuore.
A C C O G L I E R E e lasciare andare come atto d’amore verso l’altr* me, diverso e uguale che sceglie in ogni seduta di incontrarci, confermando la sua fiducia.
Che grande dono che riceviamo ogni giorno! Che atto d’amore prende forma in ogni incontro!
Perché ogni seduta terapeutica è un sigillo di stima e di volontà che la PERSONA ci conferma attraverso la sua scelta in un rapporto che si struttura e si consolida seduta dopo seduta. Mentre le storie scorrono e la sintomatologia svanisce perché finalmente svelata.
Capita con alcune PERSONE di iniziare lo “svezzamento” dalla psicoterapia, un momento importante che necessita di cura e attenzione costante, come si fa con i cuccioli di uomo non più lattanti. L’emozione è tanta ma il legame è forte, come la fiducia nelle risorse ri-scoperte. Ed ecco che la psicoterapia si svela in tutta la sua bellezza, rivelando la sua natura più vera, un atto d’amore e di libertà verso chi ha scelto per un periodo di camminare con noi e che adesso, grazie al suo lavoro, non necessita più della nostra presenza.
DISTACCO, gioia, orgoglio, fiducia, speranza, CONSAPEVOLEZZA, saluti, silenzi, SGUARDI, conferme. LEGAMI.
Cosa c’è nella mente di una psicoterapeuta? C’è tutto questo e altro ancora.
C’è gratitudine per un lavoro che toglie e dà l’occasione più grande del genere umano: imparare a fare spazio all’altr* me, accoglierl*, amarl* per poi lasciarl* andare.

Metafore

impastare

-Deve essere dura– diceva nonna Filomena, –molto dura– conferma mia madre- dura e difficile da impastare all’inizio, ma se la lavori bene ti darà grandi soddisfazioni-.

Su queste due raccomandazioni suggerite da un femminile generazionale che ha segnato la mia vita, ho iniziato a impastare farina e acqua. Ho dosato bene, attentamente, mentre ripetevo in me le parole apprese –deve essere dura– mentre un impasto ribelle, spesso difficile da compattare sfuggiva alle mie mani – dura si, un po’ come la vita– ho aggiunto io, mentre movimenti sapienti accarezzavano due elementi che prendono forma.

Farina e acqua, insieme. Il semplice che diventa lavorato, uno stato in polvere e uno liquido che danno vita a un composto compatto e sodo. Una trasformazione sotto le nostre mani che ci ricorda la metafora del nostro Essere. In fondo anche noi spesso ci trasformiamo, cambiamo pelle, ci rigeneriamo e ci ri-diamo vita. E mentre i movimenti ormai naturali scorrono sulla spianatoia, ricordo quando fare la pasta per me era un momento davvero speciale. Le immagini si susseguono in un ritmo ri-conosciuto e la mente rievoca anche i profumi di quei momenti. Mi rivedo bambina, con un grembiule rosso (perché il rosso ha segnato sempre i momenti importanti della mia vita), accanto ad una nonna sapiente quanto misteriosa, perché custode di un femminile segnato. Le sue mani rugose si muovono sapientemente miscelando antiche pozioni mentre l’indefinito prende forma lentamente. E la danza di una donna che impasta si svela, in un ritmo silenzioso ricco di significati. Io da piccola mi lasciavo travolgere da questa danza, rimanevo estasiata dal potere di un femminile che dava vita, che creava e condivideva, in uno spazio temporale dove il pranzo domenicale era un momento davvero speciale. Ricordi che scorrono, mentre le mie mani continuano a impastare un composto ribelle. Tra le dita scorre farina, mentre l’acqua aggiunta gradualmente dona un lieve sollievo a movimenti che diventano sempre più ritmici ed efficaci. Ed è così che in quei momenti il femminile delle mie antenate rivive, si nutre e nutre in questo gesto tanto antico ma sempre attuale. E mentre la mia pancia si allinea a tutte le pance di donna che mi hanno generato, godo del fare e del sentire in un istante che dura un’eternità.

E impasto, continuo e accarezzo, trasformo, prendo a pugni, rallento, accellero, mi fermo fino a quando le mani fanno davvero male. Allora Sto, e rivivo altri ricordi, di me bambina curiosa e assetata di segreti, che tempestava di domande, la sua nonna misteriosa. Ho sempre immaginato mia nonna come custode di grandi segreti, segreti di un femminile svelato negli anni, quando i miei sguardi consapevoli hanno preso il posto delle mie trecce. Quando ho scoperto che la durezza dell’impasto è un po’ come la vita. Quando ho ripercorso le tracce segnate delle mie antenate. Quando ho iniziato a scrivere e amare senza remore, un femminile misterioso e magico. Quando ho deciso finalmente di Stare.

Cecilia Gioia

La vita è davvero una torta?

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Oggi mi sveglio molto presto, devo preparare una piccola torta al profumo di figlia.
Lo so, sono ancora assonnata, ma doso bene gli ingredienti, osservo sapientemente i tempi e inforno.
E mentre l’aria calda gonfia alchimie conosciute, preparo la bagna di kumquat, sorrido alla crema allo yogurt greco, mentre assaporo mentalmente i vari profumi.
Ho sonno però, vorrei ritornare a letto, ma voglio farlo e continuo.
Continuo senza fare i conti con un impasto capriccioso che gonfia, straborda e anarchicamente si sgonfia, lasciandomi incredula a questa scena tragicomica, ma emotivamente toccante.
La mia torta al profumo di figlia si sgonfia miseramente in un forno attonito e inconsapevole.
Mi sento smarrita.
Ripenso velocemente all’interno del mio frigo, povero di uova o altri ingredienti necessari.
Ed ora?
Attimi o minuti scorrono ed io rispolvero la mia sana amica resilienza.
Riprendo il pan di spagna, lo osservo, lo interrogo, lo recupero e riabilito.
Preparo la crema allo yogurt, ops, mi manca la panna, e adesso?
Adesso strizzo fogli di gelatina e inglobo, aromatizzo e spero.
Spero che la mia torta al profumo di figlia sia buona lo stesso, spero che nuovi ingredienti e nuove forme si mescolino e armonizzano sapori inaspettati.
Spero che la mia resilienza stia sempre con me e non mi abbandoni mai.
Spero che la mia vita sia un po’ come la torta di stamattina, ricca di sorprese e di nuove e improbabili soluzioni.
Perché la vita, si sa, anche quando non sembra, profuma di buono.
Cecilia Gioia

Non ci pensare.

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Chissà quante volte ce lo siamo sentite/i dire, quasi come un ignaro intercalare che si insinua e che si posiziona in frasi spesso abbandonate in superficie.

Non ci pensare, fidati” ha poi un non so che di paradossale, una raccomandazione che agisce su di me rinforzando negativamente un mio pensiero già abbondantemente presente.

E allora ci penso, eccome se ci penso. Penso che non è facile lasciare andare i propri pensieri.

Penso che se ricevo questa frase, probabilmente sono stata ascoltata poco, in superficie; sfiorata solo da un ascolto distratto e melanconico, poco aperto all’accoglienza dei miei pensieri rumorosi e un po’ invadenti.

E penso a quanto è difficile fare spazio ai propri e altrui pensieri, soprattutto quelli più spigolosi.

Io per esempio da un po’ di giorni ho un pensiero predominante e impudente. Uno di quei pensieri che non ti molla, che riflette le tue giornate con prospettive dissonanti, ingombrando il mio qui ed ora.

Un pensiero scomodo, anche sfacciato perché nutrito da una mia resistenze all’accoglienza.

Lo so, dovrei abbracciarlo, magari camminare un po’ insieme a lui, raccontarmi e attraverso l’ascolto, provare a comprenderlo, ma faccio fatica e lo evito.

E lui puntualmente torna, punzecchia il mio equilibrio, risveglia vecchi ritmi, decreta nuovi inizi.

Quasi decide, eccome se decide. Ed io….

E allora mi arrendo, 

mi faccio attraversare, 

non posso fronteggiarlo 

e non voglio stare male.

Lo guardo negli occhi,

un po’ arrabbiata, 

vorrei detestarlo 

ma sono bloccata.

In fondo lo so, 

non è colpa sua,

del resto l’eterno

non spetta a lui.

E quindi preparo

valigie e ricordi,

raccolgo conchiglie,

ascolti e bisogni.

Ritorno, ritorno

al mio lavoro,

finite vacanze

riprendo il mio suono.

Di ritmi veloci,

di ritmi incalzanti

ma anche di pause 

e rigeneranti silenzi.

E quindi

pensiero

che da giorni 

mi assilli,

ammetto sei scomodo,

e porti scompiglio.

Ma due settimane

di ferie, si sa,

non posson durare

un’eternità.

Cecilia Gioia

Dedicata al mio ultimo giorno di ferie. Oggi.

L’inaspettata leggerezza della vita.

large    Ha un disegno tutto suo la vita.

Un disegno spesso incomprensibile, un po’ amorfo, che delinea le nostre scelte e racconta la nostra storia.

Una storia fatta di incontri, di relazioni, di scambi osmotici di emozioni e di vita da vivere, fino in fondo.

Credo davvero che ogni incontro che facciamo con l’Altro Me non sia casuale, ma frutto di reazioni alchemiche e misteriose che si svelano gradualmente ai nostri occhi e al nostro cuore.

Perché l’incontro con l’Altro è un’opportunità, anche quando la nostra pancia brontola e ci sentiamo piuttosto scomodi. A me capita, alcune volte e devo dire, sempre meno, di non godere completamente della conoscenza dell’Altro Me, ovvero di non vivere tutto questo come una risorsa. Succede infatti di percepirmi “in difesa“, e questo non mi piace. Allora mi fermo, respiro e chiedo a me stessa cosa mi risuona dell’altro che non mi fa sentire “comoda“. E la risposta non tarda mai ad arrivare, permettendomi di vivere il “qui ed ora” come un’occasione di conoscenza personale e di relazione.

E quindi ricomincio.

Cerco, annuso, scopro, brontolo, conosco, mi incuriosisco, respiro e riprovo, ogni giorno.

E soprattutto raccolgo storie fatte di sguardi e di parole.

Per noi psicoterapeuti la parola ha un valore inestimabile e va celebrata ogni giorno, imparando ad ascoltarla, in ogni sua, seppur velata, sfumatura.

Oggi, 13 agosto 2015, io voglio celebrare la parola, meraviglioso veicolo di emozioni e di silenzi, che rigenera quotidianamente la relazione con l’Altro Me. Voglio ricordare a me stessa il significato profondo dell’ascolto e l’armonia che si svela ad ogni incontro.

Perché la parola suggella relazioni affettive, amicali, sociali, terapeutiche, disegnando legami impregnati di emozioni.

Ho scoperto, negli anni, di nutrirmi, inconsapevolmente, della parola.

Ne ho gustato il sapore, la sua sapidità e l’inaspettata dolcezza.

Mi sono persa nei mille incontri con l’Altro Me, godendo dei toni e delle intensità di ogni singolo verbo.

E ho conosciuto l’inaspettata leggerezza della vita, perché ho imparato ad (af)fidarmi.

Ho scoperto il dono della fiducia in me stessa e nelle mie sensazioni, provando quotidianamente a “sentirmi” attraverso le parole e imparando a gioire dell’incontro con l’Altro; lo considero un dono davvero speciale, mentre assaggio curiosa, anche oggi, le sue parole.

Cecilia Gioia

Distillando gocce di me.

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Esiste un lavoro che accoglie, ascolta,

respira e rispecchia le mille sfumature della psiche.

E fa tutto questo ogni giorno, mentre raccoglie lacrime e personalità in crescita.

E’ un lavoro coraggioso, perché ricorda il passato, ascolta il presente e disegna il futuro, vivendo contemporaneamente piani paralleli di racconti di vita.

Lo fa delicatamente, sostando nelle mille pieghe della narrazione di Sè, in un silenzio nutriente che fa e sa riflettere.

E poi è magico e avventuroso e riesce, in un pomeriggio di lavoro, a portarti sulle montagne russe della vita altrui per scoprire scenari spesso sottovalutati, regalando panorami mozzafiato.

E se ha la fortuna di aprirsi all’evento nascita, dona l’emozione del “primo sguardo” verso il mondo, di un cucciolo di uomo e della sua mamma. Si, perché il mio lavoro fa tutto questo e altro ancora abbracciando i cicli di vita, e le emozioni che le accompagnano.

Lo fa ogni giorno mentre sfiora la vita e spesso accompagna la morte, in un costante bilico di freudiana memoria.

E mentre tutto scorre, il mio lavoro raccoglie sassolini e frammenti di un Sè in rinascita, lentamente, rispettando la giusta distanza.

Spesso osa, richiede nuovi spazi e propone cambiamenti.

Ha bisogno di nutrimento quotidiano, il mio lavoro.

Necessita di fiducia, di autostima, di coraggio e di silenzi, elementi essenziali per sostenere contenuti spesso scomodi.

E vive di CON-TATTO, energia vitale che fa crescere consapevolezza e apertura verso l’altro.

E’ un lavoro alchemico, denso di silenzi assordanti, che logora e rigenera chi lo pratica.

E’ un lavoro ancora oggi scarsamente conosciuto e questo alone di mistero, lo ammetto, mi delizia.

E’ arte e scienza, elementi fondamentali per una conoscenza profonda e consapevole della psiche umana, un non luogo dove è facile perdersi e ri-conoscersi.

Ecco perché necessita quotidianamente di una bussola, di un continuo lavoro su luci ed ombre del proprio Sè, atto fondamentale per sopravvivere alle emozioni altrui, senza perdersi.

E’ un lavoro che amo, è il mio lavoro e lo celebro.

Ogni giorno.

Cecilia Gioia

In bilico.

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E’ proprio così che mi sento, quando attraverso quotidianamente il mondo mammesco.

In bilico tra ragione e cuore, significati e significanti, pieni e vuoti, esterni e interni, silenzi e rumori.

Del resto il mondo mammesco non è sempre quel luogo magico e colorato, dove è facile viversi ed emozionarsi ogni giorno alle innumerevoli scoperte di una diade (triade) in divenire. A me, dopo tanti anni, ricorda un po’ una metropoli affollata, che contiene al suo interno piccole oasi di pace circondate da rumori e velocità spesso scomode. Un luogo non luogo, dove viversi rappresenta una sfida quotidiana alle nostre resistenze e “modelli” introiettati, che agiscono influenzando la percezione che abbiamo di noi stesse come donne e mamme, in continua trasformazione e crescita. Si, perché per me la maternità è un processo, e come tale è dinamico, fluisce, è in movimento e scorre. I tempi, si sa, sono squisitamente soggettivi regalando pause e riflessione in ognuna di noi, insegnando il valore del silenzio, balsamo che lenisce le piccole e grandi cicatrici del diventare madre.

E mentre rifletto e annuso storie, riconosco sguardi, rispecchio emozioni e traduco gesti delle innumerevoli donne e mamme che ho il privilegio di incontrare, continuo a restare in bilico, sospesa tra irrazionalità e ragione.

Ho provato per anni a spiegare a me stessa il mondo mammesco, ci sono entrata dentro da quando sono diventata mamma di cielo e di terra, ho toccato con la pelle e con il cuore le innumerevoli diversità materne. Ho respirato la nascita e accompagnato la morte, lasciandomi trasportare dall’onda delle emozioni, mollando ogni resistenza dovuta ai miei innumerevoli perché. E quell’onda poi, mi ha travolta, spingendomi giù, nel profondo dell’universo mammesco dove luci ed ombre si rincorrono, in una danza senza fine.

E proprio lì, mentre trattenevo il fiato, ho finalmente capito.

E ho imparato a sostare.

Sto imparando a sostare e accogliere.

Sto imparando a guardare la grande bellezza della maternità, dove i chiari e i scuri convivono, dove i “voglio” e i “devo” si affrontano e i miei pseudo-equilibri vacillano.

Dove ho imparato a sorridermi, accarezzando i miei e altrui ricordi ringraziando.

E riscoprendo un mondo misteriosamente unico.

Perché parla di noi.

Cecilia Gioia

Accordarsi all’armonia della vita.

Che poi, a rifletterci, la vita è davvero la ricerca di un’armonia.

10347633_777631772336012_7411167825434211745_nUna serie di piccole e grandi accordature per cercare di “stonare” il meno possibile sulle molteplici note che la quotidianità ci regala.

Dove è facile perdere di vista lo spartito, mentre le note scorrono inesorabilmente.

Dove è nutriente,alcune volte, lasciarsi andare per suonare in libertà senza una partitura condivisa. Suonare libera/o, ad orecchio, improvvisando variazioni e sfumature che solo l’immensità della vita può e sa donare.

Scegliere nuovi strumenti, sperimentarsi alla ricerca di nuovi suoni per adattarsi a nuovi righi musicali.

Pentagrammi che si svelano ai nostri occhi e al nostro cuore, raccontando improbabili armonie.

Si, perché la vita è tutto questo ed altro ancora.

E perché per “stare” in pienezza nella vita ci vuole un grande allenamento e un “buon” orecchio, il resto poi lo fa la musica .

Cecilia Gioia

Mi voglio bene

volersi-bene-1Ho deciso quindi, di volermi bene. Davvero.

Provo a farlo ogni giorno, con gesti e pensieri che strategicamente si trasformano in piccoli rituali di attenzioni, ricordando a me stessa chi sono.

Ho deciso di ripetermi ogni giorno “io sono una bella persona” e di credere completamente al valore di queste parole che svelano il mio essere nel mondo, consapevolmente.

Perché questa vita è un dono e va celebrato, con gesti amorevoli e accudenti.

Perché non posso accogliere l’altro Me se faccio fatica a riconoscermi nei miei bisogni. E non li accolgo.

Perché davvero credo che ognuno di noi è un “essere speciale” e che il suo stare sulla terra sia un’occasione unica da scoprire.

Perché se imparo a rivolgermi a me stessa amorevolmente, la mia comunicazione interpersonale migliorerà.

Perché se mi abbraccio e sono felice, le mie braccia impareranno a riconoscere le meravigliose differenze individuali delle persone che incontreranno.

se mi osservo e imparo a conoscermi, il mio ascolto diventerà ampio e farà spazio ai bisogni dell’altro Me.

se mi esercito al silenzio nutriente con me stessa, imparerò a fare a meno del rumore di sottofondo che la relazione con l’altro spesso comporta.

E imparerò a guardarmi amorevolmente, riempiendomi di vita e di promesse.

Si, perché di promesse si tratta. Di sigilli e di speranze che quotidianamente consolidano un complesso rapporto, ahimè spesso ambivalente, con noi stessi, fatto di odio e amore e di scarsa accettazione di sé.

Ecco, io a questo modo di viversi voglio dire basta, imparando a volermi bene.

In ogni attimo, perché scintilla consapevole di me.

Cecilia Gioia