La salute psicologica delle donne in gravidanza ai tempi del Coronavirus

23593357_1416201181812398_5087625289057612355_oIl primo studio italiano che ha valutato come lo stato di ansia, depressione e attaccamento materno fetale è influenzato dalla diffusione dell’infezione da Coronavirus nelle donne in gravidanza. Uno studio dell’Associazione di Volontariato Mammachemamme patrocinato dal Movimento Italiano Psicologia Perinatale(MIPPE)

 

La gravidanza, per la donna, rappresenta un periodo di trasformazioni fisiche ed emotive, di adattamento e continue scoperte. L’emergenza sanitaria rappresentata dalla circolazione del virus responsabile della COVID-19, sta avendo un notevole impatto sullo stile di vita della gestante

e sulla gestione della gravidanza. Durante il periodo di gestazione, una condizione cronica di stress, è uno dei più importanti fattori di rischio sia a livello fisico, psicologico che sociale. Lo stress sappiamo, è la risposta dell’organismo a stimoli nocivi che influenzano il suo equilibrio interno basale. Questa attivazione genera una tensione profonda nell’intero sistema manifestata da una serie di modificazioni psicofisiche e comportamentali atte a consentire all’organismo la reazione di difesa. Qualunque sia la natura dell’agente stressante, in questo caso il coronavirus, i meccanismi di adattamento che vengono innescati sono simili seppur orientati, da ognuno di noi, verso ciò che maggiormente percepiamo come vulnerabile o in pericolo. Questo conferma che si tratta di una risposta biologica primaria legata alla sopravvivenza, un meccanismo difensivo con cui l’ organismo si sforza di superare una difficoltà per poi tornare, il più presto possibile, al suo normale equilibrio operativo basale. Il tipo di stress che le donne in gravidanza stanno vivendo in questo periodo, è un tipo di stress che fino ad oggi non conoscevano, perché legato all’isolamento e alla riduzione dei contatti fisici, e mentre sempre più numerosi studi dimostrano come lo sviluppo fisico e mentale dipende dal contatto durante tutto il corso della nostra vita, ci chiediamo quale sarà l’impatto che questo tipo di condizione avrà sulle donne in gravidanza.

Attualmente le poche notizie disponibili su COVID-19 in gravidanza sono abbastanza rassicuranti, ma visto l’esiguo numero di studi, è comprensibile registrare una forte risposta di ansia nelle donne in attesa, che si orienta verso l’andamento della gravidanza, i figli, i parenti, il lavoro e il futuro in generale della società.

Lo studio SEG-Covid19, un’indagine epidemiologica promossa dall’Associazione di Volontariato Mammachemamme con il patrocinio del Movimento Italiano Psicologia Perinatale (MIPPE) vuole valutare come l’impatto mediatico dato dalla diffusione del Coronavirus sta influenzando la salute psicologica delle donne in gravidanza.

 

All’indagine, avviata il 14 marzo, hanno risposto oltre 1000 donne con un’età media di 32 anni, ugualmente distribuite nel territorio nazionale. Le donne con un’età media di gestazione di 26° settimana presentano le seguenti caratteristiche demografiche e cliniche: il 46% ha conseguito una laurea e il 58% ha un lavoro dipendente; il 61% è coniugata, mentre il 31% è convivente; infine il 65% versa in condizioni economiche modeste, mentre il 16% presenta difficoltà economiche. Dal punto di vista ginecologico, il 52% è alla prima gravidanza e il 40% alla 2° gravidanza. Il 26% ha avuto precedenti interruzioni di gravidanza, mentre il 14% ha in corso una gravidanza a rischio. Il 63% ha partecipato ai percorsi di accompagnamento alla nascita e il 65% intende farlo.

 

Come sono state valutate le mamme.

Per misurare la percezione di pericolo per la salute della gestante, del nascituro e dei suoi familiari dovuto alla diffusione del Coronavirus è stato costruito un questionario ad hoc. Alle donne si è chiesto di indicare su una scala likert l’intensità della loro preoccupazione riguardo l’impatto del Coronavirus sulla loro salute, sull’andamento della gravidanza, sui figli, i loro parenti, il lavoro e il futuro in generale della società. Il peso dei valori di questa scala insieme alle variabili cliniche-demografiche sono state inserite in un modello di regressione per misurare la loro influenza sui livelli di ansia, depressione e attaccamento prenatale.

I risultati dello studio

I valori di ansia di stato delle madri superavano i livelli di soglia di normalità (STAI-Y1: 55.5), come quelli relative alla depressione (BDI-II: 12.4). Per misurare l’attaccamento prenatale (APN) ovvero l’insieme di pensieri che la futura madre ha nei confronti del proprio feto e che aumentano di intensità con l’andamento della gravidanza, è stata utilizzata la Prenatal Attachment Interview. Nelle analisi preliminare l’attaccamento prenatale delle future mamme italiane risultava più basso nelle donne con più alto stato di ansia (r= -0.18; p-level< 0.0001) e depressione (r= -0.13; p-level= 0.0004).

 

Le analisi di regressione multipla dimostrano che i livelli di ansia di stato, depressione e l’attaccamento prenatale delle donne in gravidanza sono influenzati da tre variabili: la percezione di pericolo legato al Coronavirus, lo stato economico della famiglia e la presenza di altri figli. Nello specifico, l’alta percezione di pericolo per la diffusione del virus, le difficoltà economiche e la presenza di altri figli in famiglia, sono tutti fattori che aumentano lo stato di ansia e depressione delle gestanti, influenzando l’attaccamento prenatale (r2= 0.54; p-level < 0.0001).

 

Negli ultimi anni un numero crescente di studi ha messo in luce un’associazione tra l’ambiente delle prime fasi dello sviluppo di un individuo e il modo in cui l’organismo si formerà.

Un’analisi condotta sul cordone ombelicale, sulla placenta e sul sangue materno ha messo in evidenza che se la mamma vive un momento di forte stress e preoccupazione durante la gravidanza, il bambino che porta in pancia non solo registrerà questo stress ma ne sarà a sua volta influenzato. Questo principio alla base dell’epigenetica, ci insegna come le modificazioni biochimiche all’interno delle nostre cellule hanno la possibilità di alterare l’espressione di alcuni geni.

E’ importante sottolineare che l’espressione dei nostri geni è influenzata dall’interazione del nostro organismo con l’ambiente esterno. Nello specifico, i nostri risultati evidenziano l’importanza di attuare programmi di prevenzione per evitare che lo stato di salute psicologica delle donne in gravidanza, non solo in questo periodo, abbia il minore impatto possibile sulla donna, il nascituro e la famiglia.

Il contatto emotivo nell’evento nascita.

82451052_1507421709408608_9008107013258870784_nDa otto anni ho il privilegio di assistere l’evento nascita in sala parto o in sala operatoria, di celebrare il miracolo del “venire al mondo” attraverso gli strumenti che la mia professione mi ha insegnato, di sostare in silenzio entrando in contatto, mentre tutto si compie.

Da otto anni ho imparato come facilitare questo processo, restando un passo indietro, sintonizzandomi sui non detti e gli sguardi, in un contatto emotivo costante.

Perchè è questo che fa una psicoterapeuta durante l’evento nascita, stabilisce un contatto emotivo, sintonizzandosi empaticamente, cogliendo i bisogni della mamma, del papà e del bambino o bambina che viene al mondo, mantenendo uno sguardo costante sul clima che si instaura in sala parto o in sala operatoria e sugli operatori coinvolti.

La pratica clinica, l’esperienza di saper ascoltare “dentro”, l’esercizio quotidiano di so-stare nei pensieri, anche quelli più scomodi, la sospensione del giudizio, la consapevolezza del valore delle parole, il rispetto dei propri spazi, lo sguardo che mantiene il contatto oculare, e che sa andare oltre, la conoscenza della psiche e delle sue manifestazioni, la capacità di leggere i silenzi, la conoscenza del sistema famiglia in un’ ottica sistemica, l’abilità di entrare in relazione immediata e stabilire un’alleanza, sono alcuni degli strumenti che una psicoterapeuta può mettere a disposizione in sala parto e in sala operatoria.

Ecco perchè, credo fortemente nel valore della psicologia perinatale al servizio delle famiglie e degli operatori coinvolti nell’evento nascita.

Ecco perchè accolgo da otto anni tirocinanti postlauream o specializzande che vogliono avvicinarsi a questa branca della psicologia clinica, permettendo loro di aprirsi a questa possibilità formativa davvero potente, perchè trasforma lo sguardo e la visione della Persona. Imparare ad accogliere la nascita è un potente attivatore di risorse perchè apre canali sensoriali ed emotivi di cui spesso non siamo consapevoli, influenzando poi la nostra pratica clinica nei setting a cui siamo maggiormente abituat*. Accogliere la nascita e assistere al postpartum di una neomamma, ci permette di entrare in contatto con le nostre parti più intime, richiamando in noi emozioni spesso inascoltate, insegnandoci a sostare nel ricordo della nostra nascita e nel nostro pianto primordiale quando siamo venut* al mondo. Potenza di un evento generativo che continua a manifestarsi ogni giorno, sin dalla notte dei tempi e che necessita protezione, rispetto, silenzio e stupore. E ascolto.

Perchè l’evento nascita non è dell’operatore o operatrice che assiste, ma è della mamma, del cucciolo o cucciola e del papà. Compito di noi operatori è continuare a stupirci, promuovendo una nascita rispettata e consapevole, ogni giorno, con uno sguardo attento ai bisogni fisici e psicologici che la nascita richiede.

Cecilia Gioia

 

La solitudine delle madri.

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Noi madri siamo sempre più sole. Sempre più sole e sempre più giudicate.

Devi fare questo“, “Non puoi non fare così“, “Così lo vizi!“, “Ma che tipo di madre sei?” e potrei continuare per ore. Come madre e psicoterapeuta che si occupa di perinatalità, ascolto ogni giorno i rumorosi silenzi delle mamme. E incontro la difficoltà di una società distratta a restare in ascolto, sospendendo il giudizio e sostenendo l’accoglienza.

Il rischio di sviluppare una depressione postnatale è maggiore nelle 5 settimane dopo il parto. Si manifesta quando la donna presenta da e per almeno due settimane umore depresso e interesse nelle abituali attività e almeno cinque di questi sintomi: disturbi del sonno e/o dell’appetito, iperattività motoria o letargia, faticabilità o mancanza di energia, sensi di colpa, bassa autostima, sentimenti di impotenza e disvalore, ridotta capacità di pensare o concentrarsi e pensieri ricorrenti di morte.

Esiste un modello biopsicosociale che spiega la depressione postpartum attraverso tre fattori di diversa natura quali:

  • I fattori di vulnerabilità, che rispecchiano il fatto che alcune donne sono più soggette alla depressione postnatale che altre.
  • I fattori facilitanti-scatenanti: i livelli di stress collegati a eventi difficili accaduti subito prima dell’insorgenza della depressione postnatale, le variabili moderatrici dello stress(sostegno sociale e abilità di coping).
  • I fattori biologici, come un improvviso e considerevole calo nei livelli degli estrogeni dopo il parto.

Le cure possono consistere nella psicoterapia e nella partecipazione a terapie di gruppo con donne che manifestano la stessa sintomatologia; nell’eventuale assunzione di ansiolitici e antidepressivi, che sono cure possibili, ma da assumere comunque sotto controllo medico.

Una donna che soffre di depressione ha bisogno di essere riconosciuta nel suo disagio attraverso una presa in carico che non coinvolge solo la donna, ma tutto il sistema familiare che ne è inevitabilmente coinvolto. Lo sviluppo del rapporto madre-bambino è il processo psicologico centrale del periodo perinatale. La relazione madre-bambino inizia già durante la gravidanza e consiste essenzialmente in idee ed emozioni attivate dal bambino che trovano la loro espressione nei comportamenti affettivi e protettivi della madre. La depressione post-partum trascurata o sottovalutata può avere effetti negativi su tutta la famiglia, condizionando il corretto sviluppo di una buona relazione madre-bambino. Una donna che soffre di depressione postpartum sperimenta quotidianamente un ventaglio di emozioni che fatica a condividere perchè inaccettabili, prima di tutto da se stessa, come ostilità verso il bambino, rammarico per la gravidanza, sensazione di sollievo quando si allontana dal bambino, tentativo di evasione o fuga dal contesto relazionale.

È necessario rivolgersi ad un* specialista, un* psicoterapeuta o un* psichiatra, se i sintomi sono di una entità allarmante o comunque persistono oltre le due settimane, se si ha la sensazione di poter fare del male a se stesse o al proprio bambino e se i sintomi di ansietà, paura e panico si manifestano con grande frequenza nell’arco della giornata.

E’ importante ricordare che la depressione post partum non si manifesta subito dopo il parto. La maternity blues, o tristezza post-partum, è una sindrome transitoria che può intervenire nelle prime 48 ore dopo il parto. Di norma si risolve spontaneamente entro una settimana. È importante identificare le donne con maternity-blues poiché il 20% di esse presentano un episodio depressivo maggiore nel primo anno dopo il parto.

La gravidanza è un momento irripetibile nella vita di una donna, tanto delicato quanto incredibilmente denso di forza e di coraggio. E’ il tempo dell’attesa e della fisiologica necessità di imparare a sostare con gli innumerevoli modifiche fisiche e psicologiche che accompagnano i nove mesi di endogestazione. Ecco perché è importante sostenere le donne e i papà sin dal preconcepimento, in un’ottica di prevenzione e promozione di benessere psicofisico, promuovendo spazi di incontro e confronto tra i neo genitori. Da un po’ di anni, come operatori che si occupano di perinatalità, stiamo cercando di diffondere informazioni per prevenire e portare alla consapevolezza di tutti la necessità di ricreare una rete di sostegno intorno alle neomamme in un’ottica di salutogenesi per tutte le famiglie. Molto è stato fatto, ma non abbastanza, ecco perché è necessario continuare a fare prevenzione attraverso tutti i mezzi divulgativi. Per info si può consultare il sito www.depressionepostpartum.it e selezionare la regione di riferimento per conoscere i centri o le associazioni riconosciute a livello nazionale che si occupano di depressione postpartum. Anche sul nostro territorio sono sempre più presenti associazioni che si occupano di stare accanto alle neomamme e ai neopapà promuovendo il famoso proverbio “Per crescere un bambino o una bambina, ci vuole un intero villaggio”. Ecco, il villaggio attualmente, non fa abbastanza, non riesce a proteggere tutte le madri. Dovremmo imparare a fare più silenzio, per riuscire ad ascoltare la richiesta di aiuto delle madri e delle famiglie, sospendendo il giudizio e accogliendo i bisogni.

Cecilia Gioia

QM: il Quoziente Mammesco.

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Foto dal web

Strana sigla il QM, di comprensione non immediata, ma per una che si occupa da tanti (sic!) anni di neuropsicologia, non nascondo di provare un misto di soddisfazione nel raccontare questa piacevole “scoperta”.

Bene, partendo da queste premesse, che cos’è il Quoziente Mammesco?

Nel linguaggio comune probabilmente è capitato di incontrare più volte il termine di Quoziente Intellettivo o QI, e allora procediamo con ordine e se vi va, provate a seguirmi.

In neuropsicologia parliamo di Quoziente Intellettivo (QI) come il punteggio che si ottiene attraverso un Test di Intelligenza, cioè un test standardizzato che misura l’efficienza intellettiva. E’ bene sottolineare che i test di intelligenza misurano delle abilità specifiche (intelligenza psicometrica) e non l’intelligenza “vera” che invece comprende una serie di aspetti e abilità. Infatti il QI è semplicemente un indice quantitativo: dimostra se lo sviluppo cognitivo procede in linea con il gruppo di riferimento, è un ottimo indicatore da utilizzare nella ricerca ma “perde” di quegli aspetti squisitamente individuali che tanto ci rendono umanamente interessanti ed unici. Due autori Horn e Cattell mi colpirono durante i miei studi, per il concetto di intelligenza cristallizzata, ovvero quelle capacità cognitive acquisite tramite la socializzazione e la cultura, basate quindi sul sapere e sull’esperienza e meno toccate dai processi di logoramento dovuti all’invecchiamento; e di intelligenza fluida, ovvero quelle capacità cognitive come il problem solving, il pensiero induttivo e la memoria associativa, che sono legate alla predisposizione fisica e quindi al buon funzionamento di specifiche strutture neurofisiologiche e che si riducono, con l’età. A tutto questo, mentre sorvoliamo anni e anni di studi sull’intelligenza, voglio aggiungere il concetto conosciuto e largamente usato di intelligenza emotiva di Goleman, che include “la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli altrui, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali”.

Bene, e allora perché non parlare di intelligenza materna, che racchiude alcuni aspetti delle intelligenze sopraelencate e che può essere facilmente identificata, e magari un giorno, “classificata” con il Quoziente Mammesco?

E qui le nostre competenze di mamme, tante, uniche riescono facilmente ad identificarsi, riconoscendosi in tutte queste abilità sopraelencate.

Iniziamo dalle strategie di problem solving, cavallo di battaglia di noi mamme, sollecitate sempre da situazioni spesso di “emergenza” che ci costringono a ragionare in tempi immediati e imprevedibili. Il pensiero induttivo, di aristotelica memoria, tanto caro a noi mamme, sempre alle prese con particolari premesse da cui partire per arrivare a conclusioni probabilmente vere, in termini di probabilità, assecondando i tempi ristretti a cui spesso è sottoposto il nostro pensiero. Un esempio di pensiero induttivo mammesco che ci farà sorridere un po’ ma in cui molte di noi si riconosceranno è “In classe di mio figlio, ho visto un bimbo raffreddato, un secondo bimbo raffreddato… allora probabilmente tutti i bimbi della classe sono raffreddati”.

Alzi la mano chi si riconosce in questo tipo di pensiero?

Ma continuiamo con la memoria associativa che sembra essere a forma più primitiva di memoria molto nutrita nelle mamme perché costantemente sollecitata da associazioni di informazioni e che permette a diversi ricordi di legarsi tra loro come anelli di una catena. Anche in questo caso noi mamme siamo speciali, riusciamo a partire da un piccolo ricordo per ricostruire anni e anni di informazioni acquisite, non tralasciando nulla, anzi arricchendo le di nuovi particolari digeriti nel corso del tempo.

E poi c’è l’intelligenza emotiva, un misto di empatia, motivazione, autocontrollo, logica, capacità di adattamento e di gestione delle proprie emozioni, utile per utilizzare i lati positivi di ogni situazione cui si va incontro. Per Goleman l’intelligenza emotiva racchiude due competenze a cui attribuisce delle caratteristiche specifiche:

  1. Competenza personale, ovvero il modo in cui controlliamo noi stessi e che comprende
  • la consapevolezza di sé, utile per riconoscere le proprie emozioni e le proprie risorse;
  • la padronanza di sé che racchiude l’abilità ad adattarsi e una buona resilienza
  • e la motivazione, spinta energetica che guida l’individuo verso nuovi obiettivi da raggiungere.
  1. Competenza sociale, ossia la modalità con cui gestiamo le relazioni con l’Altro che comprende:

– l’empatia, ovvero la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui, individuare e promuovere le opportunità offerte dall’incontro con altre persone e il saper interagire all’interno di un gruppo.

– le abilità sociali,  che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili e favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo che consenta di lavorare per obiettivi comuni.

Alla luce di tutto questo, alzi la mano chi come donna e mamma, non esercita quotidianamente questo tipo di intelligenza?

Immagino che ognuna di noi, nei suoi tempi diversi di maternità, possa riconoscersi in queste caratteristiche e provare a guardare a sè stessa con gratitudine per l’enorme lavoro cognitivo ed emotivo che porta avanti.

E allora diciamolo a gran voce, il Quoziente Mammesco esiste davvero perché racchiude tutto questo e altro ancora e noi mamme spesso, non ne siamo davvero consapevoli.

Ecco perchè è importante parlarne e risvegliare in noi le nostre coscienze spesso sopite che dimenticano di riconoscersi il nostro immenso valore. Ed è per questo che come donna e madre di cielo e di terra rivendico, con orgoglio, il mio Quoziente Mammesco come risorsa inesauribile che genera crescita e cambia-Menti fuori e dentro di me.

E tu, conosci il tuo Quoziente Mammesco?

Cecilia Gioia

 

 

 

 

 

Sei un* stupid*! Riflessioni sulla violenza verbale.

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Foto dal web

Come genitori abbiamo il dovere di conoscere il significato delle parole che comunichiamo ai nostri figli e alle nostre figlie.
Perchè le parole possono creare ponti e opportunità o pregiudizi e barriere.
Perchè chiamare i nostri bambini e le nostre bambine cattiv*, stupid*, furbett*, incapac*, brutt* è una forma di VIOLENZA.
Spesso noi genitori non ci rendiamo conto di come interagiamo negativamente con loro giudicando “normale” il nostro comportamento.
Ma cosa c’è di normale nel sottoporli a continue critiche, esprimendo giudizi negativi sulla loro personalità, sul loro aspetto fisico e sulla loro intelligenza?
La violenza verbale, perchè di violenza si tratta,  è un attacco al sentimento di valore della persona che lo subisce. Violentare un bambino o una bambina attraverso le parole significa violentare la sua psiche, significa lasciare un segno indelebile su di lui o su di lei durante la sua infanzia,un momento molto critico della fase evolutiva di una persona, in cui il sistema nervoso e il cervello sono molto vulnerabili a qualsiasi stimolo esterno.

Uno studio del 2017 ha dimostrato che la violenza verbale può provocare disturbi dell’attenzione e della memoria, difficoltà di linguaggio e sviluppo intellettivo, insuccesso scolastico.

Secondo i dati della National Child Traumatic Stress Network (NCTSN), di fatto, la violenza psicologica è la forma più frequente di abuso. Alla luce di tutto questo è molto importante, in quanto genitori, fare attenzione alla comunicazione verso i nostri figli e le nostre figlie. È fondamentale verificare quotidianamente come e cosa comunichiamo, imparando a concentrare le nostre attenzioni su quello che c’è e non su quello che manca.
Ecco perchè come figlia, madre e psicoterapeuta RIVENDICO IL DIRITTO delle bambine e dei bambini di NON RICEVERE etichette e giudizi che inflluenzano negativamente sulla loro autostima e contribuiscono a sviluppare una concezione negativa di sé.
Perchè la relazione con i nostri figli e le nostre figlie non si nutre di oggetti, ma di parole rispettose, di tocchi gentili e di sguardi che rassicurano.
Perchè non possiamo insegnare loro il valore del rispetto se noi come genitori non sappiamo rispettarli.
Perchè i figli e le figlie sono un Inno alla Vita ed è nostro dovere nutrirli di amore e di fiducia, ogni giorno.
Questa riflessione perchè  sul web ho letto l’ennesimo post che ridicolizzava un bambino utilizzando etichette dispregiative e presentando tutto questo come la norma per un genitore (dalla serie “Il figlio è mio e posto ciò che mi piace”). La vista di quella foto mi ha colpita, è stato come ricevere un pugno nello stomaco, perchè ho visto negli occhi di quel bambino la delusione di essere stato dato in pasto al web dal genitore, senza alcun rispetto.
Cecilia Gioia

Diventare genitori.

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Foto dal web

La nascita di un bambino o di una bambina viene considerata da sempre come un evento gioioso. Il vissuto provato della nascita però, è spesso in netto contrasto con questa immagine idealizzata della genitorialità. Il passaggio da figli a genitori è un processo delicato che necessita di molta cura per imparare a coniugare il passato e il futuro accogliendo consapevolmente questa importante trasformazione. Le emozioni dei neogenitori si muovono molto spesso su un continuum che va dalla gioia per la nascita alla tristezza per ciò che lasciano, facendo sperimentare durante il postpartum una instabilità emotiva e una vulnerabilità transitoria legata a questa fase di adattamento. Questo perché l’identità genitoriale è un processo evolutivo che coinvolge i pensieri, le emozioni e la capacità di integrare tutto questo nella propria vita personale, imparando quotidianamente a fare spazio. Mettere al mondo un figlio è concepire nuove parti sè, ed è attraverso questo atto creativo che la coppia sperimenta questo cambiamento.

Mai come in questo periodo storico è necessario, quando è possibile, parlare di triade costituita da madre, padre e bambino/a, triangolazione fondamentale nella formazione della personalità. Ognuno di noi deriva da questo triangolo, in un passaggio generazionale che evidenzia dinamiche psicologiche importanti con le nostre figure genitoriali. Alla luce di tutto questo, in un’ottica di prevenzione primaria e promozione della salute, è fondamentale sostenere i neogenitori verso questa spinta evolutiva che necessita di sostegno e fiducia.

Questo non sempre capita ecco perché per alcuni neo genitori, di ritorno dall’ospedale, può essere davvero faticoso ricevere e intrattenere familiari e amici nella propria casa, in un momento in cui il solo occuparsi delle necessità quotidiane, sembra un qualcosa al di fuori della loro portata. Tutto questo sconvolge la routine familiare, rendendo il rientro a casa più pesante. Una buona organizzazione e una rete efficiente di persone disponibili e il rispetto dei tempi e degli spazi di questo delicato periodo di adattamento, alleggeriranno la vita della nuova famiglia.

Molti neo genitori si trovano inoltre a dover affrontare in solitudine le richieste del neonato o della neonata, la perdita della routine, le notti insonni, i cambiamenti di ruolo comprese le decisioni relative al proprio lavoro. Altri fattori stressanti possono essere l’isolamento, le difficoltà finanziarie o un parto inaspettatamente problematico.

Sappiamo che la donna, dopo il parto, sperimenta un calo dell’umore e una certa instabilità emotiva. I primi giorni che seguono la nascita di un/a figlio/a sono un periodo ricco di sollecitazioni psicologiche e affettive, ma anche neuroendocrine ed ormonali che possono favorire l’insorgere di un’alterazione dell’umore, nella maggior parte dei casi transitoria. In questo caso parliamo di babyblues , e si manifesta nei primi 10 giorni dopo il parto, e tende a risolversi spontaneamente.

E’ presente circa nel 50-80 % delle donne e solo il 10-15% della popolazione generale arriva a manifestare sintomi clinicamente significativi per una depressione postpartum. Rispetto alla baby blues che è una condizione benigna, la depressione postpartum è una patologia da non sottovalutare. Si può manifestare a diversi livelli di intensità: Lieve, Moderato, Severo e può essere legata ad un unico episodio o prolungarsi per più settimane o mesi o ripresentarsi in maniera ripetuta nel corso del tempo.

Negli ultimi anni, vari studi si sono occupati dell’argomento giungendo alla conclusione che la depressione postpartum può colpire circa il 10% dei neo papà di tutto il mondo. Solitamente, questo disturbo colpisce i papà nel primo anno di vita del bambino, con un picco tra i tre mesi e i sei mesi, mentre sembra meno a rischio l’immediato post parto.

Il passaggio dal bambino o dalla bambina immaginario/a al bambino o bambina reale porta ad un iniziale disorientamento che necessita di essere riorganizzato: ci possono volere giorni o settimane, o mesi, ecco perché diventa necessario favorire questo riorganizzazione tenendo conto dei cambiamenti che accompagneranno i neogenitori. Si tratta di cambiamenti tanto incisivi sia per i genitori quanto per il/la neonato/a, il/la quale ha dovuto abbandonare l’ambiente protetto dell’utero materno. D’ora in avanti, dovrà̀ abituarsi alla vita all’esterno ed ecco perché necessiterà̀ soprattutto di contatto fisico e attenzioni.

Tra i cambiamenti più evidenti che coinvolgono i neogenitori troviamo quelli che riguardano le abitudini del sonno. Il ritmo di vita è completamente stravolto, sia di notte che di giorno ed è impensabile dormire un’intera notte per il momento. I genitori non dovrebbero aspettarsi che i loro bambini dormano tutta la notte a 2, 6, 8 mesi o più. In realtà si svegliano tantissimo. Se si svegliano e sono soli, allora il loro scopo è di cercare di ridurre questa separazione, questo senso di abbandono col pianto; in questo caso dormire con o vicino al genitore (cosleeping) è una scelta funzionale, che può consentire a entrambi di dormire bene. La frase del grande psicologo infantile Winnicott: “Non esiste un neonato, esiste un neonato e qualcuno“, è una bella metafora che ci fa comprendere come le “aspettative biologiche” del neonato o della neonata rispetto alle sue esperienze di sonno, sono in netto contrasto con le nostre “aspettative culturali”.

La mancanza di sonno potrebbe rendere entrambi i genitori particolarmente irritabili e farli sentire in difficoltà nell’affrontare le incombenze della vita quotidiana. I neonati hanno bisogno di un contatto corporeo continuo con mamma e papà nei primi mesi e di muoversi con loro. Solo così riescono a scaricare la loro energia. Un genitore che una buona dose di pazienza, si accosti al pianto del neonato o della neonata, coccolandolo/a, nutrendolo/a, stabilendo il contatto, imparerà presto a scoprire i suoi bisogni. I neonati possono piangere perché hanno sete, fame, caldo, freddo, sonno, bisogno di uscire di casa e altri buoni motivi. Spesso il pianto serale dei neonati è confuso con la colica perché durante il pianto, il pancino è teso, ma non è così. Talvolta i gonfiori sono più̀ la conseguenza che la causa del pianto. I neonati infatti, come una cassa di risonanza, percepiscono i sentimenti e la stanchezza della madre accumulata durante la giornata trascorsa e trasformano queste tensioni in un pianto, spesso inconsolabile. Mentre piange il neonato o la neonata ingurgita molta aria e può essere utile tranquillizzarlo/a con lievi massaggi praticati in senso orario sul pancino gonfio oppure prendere i suoi piedini e spingere leggermente le sue ginocchia contro il pancino. Molte mamme si accorgono che i bambini si tranquillizzano non appena si trovano tra le braccia del padre. L’aiuto del papà è fondamentale perché permette alla mamma un momento di pausa e di riposo.

L’allattamento è il prototipo di ogni relazione umana, dove attraverso il seno, si impara a stare con l’altro acquisendo un modello di relazione. Benché allattare sia del tutto naturale, è anche un’arte, un comportamento che si apprende. Spesso questo processo naturale è influenzato già in fase precoce dalla disinformazione del personale sanitario o dalle pratiche ospedaliere. Tutto questo influenza i neogenitori aumentando la confusione e il disorientamento.

Diventa necessario quindi, un supporto psicologico ai neogenitori attraverso la creazione di una rete di sostegno familiare, sociale e sanitaria perché allattare nella nostra società attuale richiede un’inaspettata resilienza alle pressioni quotidiane. E’ importante ricordare che la donna, l’uomo e il bambino o la bambina, ovvero la triade di cui parla Daniel Stern, sono portatori sani di risorse endogene, spesso sconosciute ma presenti. Il compito di noi operatori è far emergere tutto questo, in un clima di fiducia e di rispetto, sostenendo l’allattamento come diritto della famiglia.

La qualità del legame del neonato o della neonata con le sue figure di accudimento è la base della “teoria dell’attaccamento” che descrive il bisogno di ogni persona di costruire un rapporto emozionale con i suoi simili. Ciò risulta particolarmente importante per i neonati: nei primi mesi e anni i piccoli dipendono da chi è in grado di soddisfare le loro principali esigenze e garantire la loro sopravvivenza. I genitori che rispondono in maniera efficace ai segnali di disagio dei bambini o delle bambine, dissolvendo il loro stato di stress, permettono di consolidare in quest’ultimi/e una rappresentazione caratterizzata dall’idea di essere degni/e di ricevere cure, perché riconosciuti/e nelle loro emozioni e nei loro bisogni. Apprenderanno quindi che le figure di accudimento si occuperanno efficacemente di loro, se impareranno a comunicare liberamente i loro bisogni di conforto e di protezione, con una ricaduta da adulti/e in termini di regolazione emotiva, fiducia in se stessi/e e interazioni sociali gratificanti.

Alla luce di tutto questo, se di tanto in tanto, ci si sente frustrati a causa della nuova situazione o sovraccarichi di incombenze, è importante sapere che non si è soli: a molti genitori succede la stessa cosa. Se i genitori sono aiutati dall’esterno, nella maggior parte dei casi il cambiamento risulta più̀ semplice. Se invece, a questo periodo di transizione così delicato, si aggiungono ulteriori disagi, come la malattia o un deficit del neonato o della neonata, le preoccupazioni di natura economica oppure un parto gemellare, spesso la fase del passaggio è maggiormente faticosa. Il modo più funzionale per accompagnare i neogenitori è renderli protagonisti consapevoli di un cambiamento, che inizia ad agire nella coppia già in fase di preconcepimento e che non smetterà di accompagnare, quotidianamente, le piccole e grandi conquiste che caratterizzano il diventare genitori. Aiutare a generare le loro verità equivale a riconoscere le loro competenze, lavorando sulle risorse e sulle nuove possibilità, accogliendo l’apertura verso il nuovo e ricordando a loro stessi il valore delle scelte. Perché non esistono ricette su come trasformarsi da diade felice a famiglia felice. Ogni coppia può trovare la propria strada per organizzare la nuova vita quotidiana, perchè genitori non si nasce ma diventa. Ogni giorno.

Cecilia Gioia, Phd

Psicologa esperta in perinatalità

Psicoterapeuta

U.O. Ostetricia e Ginecologia iGreco Ospedali Riuniti sede operativa Sacro Cuore, Cosenza

La Scala di Edimburgo per un’autovalutazione della depressione post partum.

Maternity-blues-ok-950x545È l’unico test di screening attualmente riconosciuto a livello internazionale. La sua applicazione può rivolgersi a popolazioni di origini etniche diverse. Il test non costituisce di per sé una diagnosi di dpp, ma può essere un punto sa cui partire. In generale si esegue si esegue dopo due settimane dalla nascita del bambino ed è necessario rispondere a tutte le domande e sommare il punteggio.

1) Negli ultimi 7 giorni sono stato capace di sorridere e vedere il lato divertente delle cose:

– Come sempre  = 0 punti
– Un po’ meno del solito = 1
– Decisamente meno del solito = 2
– Per niente = 3

2)  Negli ultimi 7 giorni guardavo alle cose imminenti con gioia:

– Come sempre  = 0 punti
– Un po’ meno del solito = 1
– Decisamente meno del solito = 2
– Per niente = 3

3) Negli ultimi 7 giorni mi rimproveravo senza motivo quando le cose andavano male:

– Sì, per la maggior parte delle volte = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

4) Negli ultimi 7 giorni sono stata ansiosa e preoccupata senza una ragione:

– No, per niente = 0 punti
– Molto raramente = 1
– Sì, qualche volta = 2
– Sì, molto spesso = 3

5) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita spaventata o terrorizzata senza una vera ragione:

– Sì, abbastanza = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

6) Negli ultimi 7 giorni le cose mi sovrastano:

– Sì, per la maggior parte del tempo non riesco a cavarmela affatto = 3 punti
– Sì, a volte non riesco a cavarmela come al solito = 2
– No, la maggior parte delle volte me la cavo abbastanza bene = 1
– No, me la sono cavata come sempre =0

7) Negli ultimi 7 giorni sono stata così infelice che da non riuscire a dormire:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non per molto = 1
– No, mai = 0

8) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita triste e abbattuta:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, abbastanza spesso= 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

9) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita così triste da mettermi a piangere:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, abbastanza spesso = 2
– Soltanto occasionalmente = 1
– No, mai = 0

10) Negli ultimi 7 giorni il pensiero di farmi del male mi è venuto in mente:

– Sì, abbastanza spesso = 3 punti
– Qualche volta = 2
– Quasi mai =1
– Mai = 0

In linea con la letteratura internazionale si può considerare un punteggio 9-11 come indicatore di medio rischio e ≥12 come indicatore di rischio elevato. Il solo punteggio non deve sostituire il giudizio clinico, è opportuno avvalersi di un colloquio clinico approfondito rispetto ai singoli item. L’importante è che non pensare di farcela da sola: la depressione è una malattia a tutti gli effetti e come tale va curata.

Puoi prenotare un colloquio clinico al numero 388/3620740.

La nascita silenziosa

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Foto dal web

Mi dispiace, non c’è battito– segna un confine tra quello che è stato e quello che poteva essere, ma non è.

Perché si è trasformato in altro, rimbombando nella mente e nel cuore di chi è costretto ad ascoltare questa frase.

Anche l’aria si sospende, mentre un non tempo accoglie genitori in fuga da una realtà che squarcia e urla dolore.

Ed è proprio quel momento che determina, negli operatori, la consapevolezza del “sentire” e del “fare”. In ostetricia, non sempre fare molto significa fare meglio, ecco perché prima di qualsiasi azione è necessario ascoltarsi e ascoltare.

E capire come entrare in contatto con genitori smarriti in un vuoto troppo grande, senza avvicinarsi troppo, ricordando a noi stessi le ustioni profonde generate da quella frase pronunciata appena due minuti fa: –Mi dispiace, non c’è battito-.

Bisogna sospendersi per sostare in un qui ed ora da cui si vorrebbe sfuggire. Bisogna fermarsi e fermare pensieri interferenti che provano a distoglierci dall’immobilità e dal silenzio.

Bisogna entrare in contatto con la paura e l’impotenza che ci assale e accoglierla per accogliere.

Come operatori che lavoriamo in un punto nascita capita di provare tutto questo ed altro ancora, mentre cerchiamo le giuste parole per spiegare ai genitori cosa è possibile fare.

Perchè dopo la diagnosi noi operatori conosciamo le procedure da avviare, ripetiamo a mente le sequenze, i luoghi che visiteremo insieme ai genitori per accogliere la nascita del loro bambino o della loro bambina, ma in quel momento esatto disconosciamo il suono della nostra voce. E iniziamo a comuni-care, con lentezza, cercando di rimanere in quel qui ed ora silenziosamente rumoroso.

Spieghiamo lentamente, e accompagniamo i genitori verso il tempo indefinito di una nascita silenziosa.

Il ricovero, in ginecologia, gli esami, la revisione della cavità uterina o l’induzione del parto, a seconda dell’età del bambino o della bambina, il travaglio, la dissociazione nei genitori, il luogo scelto per il travaglio, l’attesa, il tempo che distilla ricordi ed emozioni, la disperazione, la paura, la forza e infine la nascita, silenziosa quanto assordante.

Ho imparato negli anni che si può stare in quel silenzio, onorando e rispettando la nascita come momento sacro dove la “presenza” consapevole e l’accoglienza delle emozioni fanno la differenza. E favoriscono i ricordi, mentre il tempo si ferma, tace e le emozioni urlano in silenzio.

Perché quando una mamma, e un papà, mettono al mondo il loro bambino o la loro bambina nat* mort*, ci sentiamo, come operatori, travolti da emozioni contrastanti. Perché è davvero troppo contenerle tutte. E allora, negli anni, ho imparato a farmi attraversare, restando immobile, mentre fluiscono lentamente segnando solchi di esperienza e ricordi che ogni nascita silenziosa ha deciso di donarmi.

E poi il contatto con il bambino o la bambina, la vicinanza, l’abbraccio, il ricongiungersi, il respiro sospeso dei genitori, lo sguardo, l’amore assoluto che ci travolge e ogni volta, ci stupisce per la sua immensa dignità. La cura verso quella nascita, i vestiti scelti durante l’attesa mentre mani sapienti e rispettose delle ostetriche vestono un amore così grande. E poi le carezze, i nostri sguardi di operatori, verso tanta dolcezza. Perché i bambini e le bambine nat* mort* sono un amore senza fine, e hanno bisogno di tenerezza, rispetto e cura. Come i loro genitori, che se sostenuti adeguatamente dal personale, possono stare in contatto con la loro creatura. Abbracciarla, baciarla, esplorare le manine e cercare in quei tratti somiglianze. Ecco, in quel momento esatto, in noi operatori, il battito rallenta, il respiro è più lento, il tempo può tornare a scorrere, le immagini si integrano, mentre una famiglia si riconosce il diritto del suo tempo, sfidando anche la morte. E rendendoci tutti più consapevoli.

Perché sin dal momento della diagnosi, noi operatori possiamo contribuire ad avviare quel processo lento, doloroso per attraversare il lutto in gravidanza e dopo la nascita.

E fare la differenza.

Cecilia Gioia

 

 

 

 

 

Il corpo delle mamme non si “deve” vedere?

Uno scritto di 5 anni fa, ahimè sempre attuale.

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Foto dal web

Ho aspettato un po’ prima di utilizzare la scrittura come mezzo elettivo per condividere emozioni di “pancia” e pensieri di “testa”, ma adesso credo che sia maturato in me il bisogno di esprimermi. Ho assistito, in questi giorni, a reazioni inaspettate, manifestate da donne (spesso anche mamme) e uomini (spesso anche papà) verso immagini che mostravano l’evento nascita. Eh si, avete capito bene, l’evento nascita proprio come avviene dalla notte dei tempi, non un bimbo sotto il cavolo o una cicogna svolazzante, ma una mamma che mette al mondo il suo bambino, in un momento che si ripete da sempre e che ha permesso di non estinguerci. Un corpo che si apre al mondo, che dona senza remore il frutto del suo amore, un corpo che è meglio non vedere, perché evoca, a quanto pare, reazioni e imbarazzi soprattutto tra noi donne. Ecco, l’ho detto.

Adesso prometto di fare un bel respiro per accogliere le mie emozioni rumorose rispetto a tutto questo e abbracciare le nostre innumerevoli diversità di ognuno. Ma sono sincera, come sempre, a me leggere quei commenti, ha fatto male. E non solo come donna che conosce il suo corpo e che rimane incantata, ogni volta, dell’incredibile bellezza del femminile, ma come mamma che considera l’evento nascita un vero miracolo che si manifesta gratuitamente a tutti noi. Mi chiedo cosa risuona nelle pance di ognuno, l’immagine della vita che nasce. Mi chiedo anche quanto spesso ci lasciamo sopraffare dalla generalizzazione, senza soffermarci sul significato unico e irripetibile che ogni nascita porta con sé. E poi mi soffermo a pensare alla nascita di ognuno di noi, di cui non abbiamo un ricordo consapevole ma che appartiene a una memoria viscerale che si risveglia sollecitata dall’immagine di una donna che partorisce. Alle emozioni che inconsapevolmente evoca, che ci sintonizza alla nostra nascita, un passaggio obbligato dall’utero caldo e accogliente di nostra madre alle luci, le voci, i suoni estranei che ci hanno travolto, segnandoci per sempre. “Non si potrà mai cambiare la società se non si cambia il modo di mettere al mondo i propri figli” dice di Michel Odent. E questa affermazione ben si lega per noi donne e mamme, all’esperienza della gravidanza e ai nostri parti.

Naturali, indotti, vaginali, cesarei, sognati, delusi, ricordati, rimossi, odiati, amati.

Una carrellata di eventi che segnano la nostra vita di donna e di mamma con cicatrici non sono solo fisiche, ma psicologiche e spesso ancora dolorose. E tutto questo bagaglio che quotidianamente ci portiamo dietro che inizia dalla nostra nascita fino il parto dei nostri figli è un’eredità non sempre comoda di cui spesso siamo scarsamente consapevoli. E intanto la nostra pancia e la nostra vista si turba profondamente davanti a scene naturali, fisiologiche e spesso vissute, percependole come non idonee, o meglio eccessivamente imbarazzanti e “inguardabili”.

Cosa sta succedendo?

Tempo fa mio figlio Esteban (6 anni) mi ha chiesto stupito perché una donna semi-nuda era affissa su un cartellone pubblicitario di una nota marca di abbigliamento. Ma non mi ha mai fatto domande davanti ad una mamma con il seno scoperto mentre allatta il suo bambino o davanti a delle foto che rappresentano la nascita.

Ecco, questo a me fa riflettere e molto.

E adesso silenzio, facciamo parlare le nostre pance e il nostro cuore.

In una parola, ascoltiamoci.

Cecilia Gioia.

 

 

La psicologia perinatale riguarda tutti.

13620995_653876371426362_6052513415105741111_n.jpgLa psicologia perinatale riguarda tutti. Lo penso davvero e lo vivo ogni giorno nel reparto di Ostetricia e Ginecologia dove lavoro e incontro neogenitori e cuccioli appena nati. Si, perché stare accanto alla mamma e al papà in un setting privilegiato come la sala parto o la sala operatoria mi conferma quotidianamente quanto sia nutriente l’accoglienza e il SAPER STARE un passo indietro per non intralciare il naturale processo della genitorialità, o il SAPER SOSTENERE, qualora ce ne fosse bisogno, attraverso la maieutica, le competenze genitoriali, patrimonio di cui spesso siamo portatori sani ma inconsapevoli.

La psicologia perinatale è anche delle mamme che conoscono la depressione postpartum. Perché amo e sostengo la fisiologia, ma come psicoterapeuta che lavora con le donne e le mamme, incontro quotidianamente luci ed ombre di una maternità non sempre “comoda” e provo umilmente a prendermene cura, attraverso atti terapeutici specifici.

La psicologia perinatale è dei genitori di bimbi nati morti, perché può sostenere e accompagnare un percorso “in cui l’amore per il bambino perduto e il dolore per la perdita si intrecciano al vissuto dei genitori e lo segnano, modificandone il decorso e entrando a fare parte della loro biografia” (cit. C. Ravaldi). E la presenza in un reparto di Ostetricia e Ginecologia di una psicoterapeuta formata al sostegno e al trattamento del lutto perinatale dal momento della diagnosi, durante il parto e il rientro a casa, può facilitare lo sviluppo delle competenze necessarie all’elaborazione del lutto.

La psicologia perinatale è dei neogenitori o delle nonne preoccupate per un allattamento in salita, dove adeguate competenze e formazione di noi operatori, possono sostenere e accompagnare l’espressione di una consapevolezza antica, inficiata, spesso, da interferenze rumorose e disturbanti.

La psicologia perinatale è in sala parto o in sala operatoria, è con la mamma e il papà che immaginavano un parto diverso, è nella cicatrice di un cesareo non voluto, è nella sorpresa di un parto prematuro, è nella scoperta di una diagnosi inaspettata.

La psicologia perinatale è patrimonio di tutti, e come tale va tutelato, protetto, nutrito e mai improvvisato. Ecco perché necessita per noi operatori, oltre alla formazione teorica l’esperienza pratica che permette di applicare la formazione in itinere (perché non smettiamo mai di formarci) al sostegno giornaliero, in un esercizio di “presenza” costante.

Si, la psicologia perinatale riguarda tutti ed io come donna, madre, psicoterapeuta ogni giorno godo della scoperta consapevole di quanto sia necessario sensibilizzare e coinvolgere tutti, operatori e non, per promuovere salute e benessere psicofisico, sin dal preconcepimento; un Bambino alla volta, un Genitore alla volta, una Persona alla volta, un Operatore alla volta, perché tutti noi ne siamo responsabili.

Cecilia Gioia, Phd-Psicologa-Psicoterapeuta.