Diventare madre nell’assenza.

Chiaroscuri

Foto dal web

Tredici anni ho scoperto la maternità attraverso una linea che si colorava e confermava un desiderio.

Ho gustato il sapere della conferma e dopo tre mesi il dolore dell’assenza. Esattamente 13 anni fa ho conosciuto il dolce e l’amaro del diventare madre. Ma ho scelto di starci dentro, provando a navigarci, spesso perdendomi e scoprendo nuove destinazioni, in un processo che continua e mi trasforma.

Nel 2006 ho accolto la carezza della presenza di una maternità cercata e il pugno violento e improvviso dell’assenza. L’ho conosciuto e mi ha completato, perché parte di me e della mia storia di maternità. Lo riconosco ogni giorno, perchè vissuto altre volte e perché così doloroso e crudo da lasciarti senza fiato. E senza fiducia in te stessa e verso un corpo osservato, studiato, analizzato. Addolorato.

Tredici anni fa abitavo il mondo da donna, figlia e moglie. Poi ho scoperto il significato di diventare madre. Mi correggo, ho sperimentato l’illusione di averlo compreso, perché in realtà continuo a ricercare significati e significanti, che svelino un senso compiuto e squisitamente personale, alla mia storia di maternità. E alle migliaia di storie di donne e madri che ho incontrato, ascoltato, ripensato. Risognato.

Abitare il mondo attraverso le mille sfumature della maternità.

Ma cosa significa?

Davvero questa società così rumorosa e distratta può coglierne le innumerevoli declinazioni fatte di sguardi, sospiri e fatica quotidiana per restare a galla e non perdersi?

Si, perché noi mamme possiamo perderci in una routine del fare e del sentire che ci assorbe, ci risucchia in un vortice di aspettative e di stereotipi, condizionando quel meraviglioso fluire di scoperte e di chiaroscuri che la maternità sa donare, se rispettata nei suoi tempi e nei suoi bisogni.

Io so riconoscere lo sguardo affannato di una madre, quando prova a navigare la sua maternità, sommersa dai DEVO e timida nei VOGLIO, mentre cerca sguardi accoglienti a cui aggrapparsi per restare a galla e non perdersi.

Io lo conosco quello sguardo, perché lo riconosco in me e in tutte le donne e madri che ho il privilegio di incontrare.

Credo che per promuovere la cultura del rispetto della maternità e delle sue innumerevoli declinazioni, bisogna partire dalla base, ovvero l’ascolto e l’attenzione verso l’altr* me.

Forse è proprio nello sguardo di una madre che potrebbe racchiudersi l’essenza della maternità, un processo così intimo, personale ed unico che non può vivere nei confronti, nei modelli e nei consigli che la società elargisce generosamente.

Forse se imparassimo ad accogliere quello sguardo, a starci dentro, riusciremmo a collegarci al nostro nucleo, alla nostra matrice.

Perché noi tutt* abbiamo abitato nostra madre, assaporato le sue emozioni attraverso un liquido amniotico che rivela e protegge, e questo ci accomuna, nella nostra incredibile unicità.

Ecco perché possiamo provare a cogliere quello sguardo, rispettandolo e riconoscendo dignità alla donna e madre che incontriamo, attraverso la sospensione del giudizio e il rispetto della sua fatica.

Perché ascoltare una donna e madre, accogliendo il suo sguardo e la sua quotidiana navigazione nei mari profondi della maternità, significa onorare la nostra matrice. Significa proteggere le nostre radici e la nostra libertà. Significa provare tenerezza verso l’altr* me. E in questi tempi duri, ne abbiamo bisogno. Davvero.

Cecilia Gioia

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