Anatomia del senso di colpa.

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Se non fai i compiti, mi arrabbio!”.

Chissà quante volte, da bambini, abbiamo ascoltato questa frase dai nostri genitori. E chissà quante altre volte questa frase ha risuonato nella nostra vita adulta sotto forma di emozioni dense e spesso non semplici da nominare. Ed ecco che il senso di colpa inizia a strutturarsi in noi, aderendo come una seconda pelle e filtrando, inevitabilmente, il nostro modo di stare nel mondo.

Perché il senso di colpa è un vero e proprio meccanismo psicologico che si attiva quando facciamo qualcosa che va contro il nostro codice di comportamento acquisito, agendo da supervisor inflessibile e scarsamente accomodante. Si manifesta attraverso la rabbia verso noi stessi tormentandoci e condizionando la nostra vita fino a quando non facciamo qualcosa per riparare all’accaduto.

Ma torniamo agli albori di questo sentimento, a come si presenta a noi sin dalla primissima età consolidandosi in schemi cognitivi e comportamentali mal adattivi che influenzano la nostra vita adulta tanto da strutturare in noi vissuti di inadeguatezza e bassa autostima. Torniamo al nostro Io Bambin* desideros* di non deludere le aspettative genitoriali, sempre alla ricerca di quello sguardo amorevole e compiaciuto dei nostri genitori, sguardo che spesso si è vestito di delusione e frasi scomode, consolidando in noi la colpa, e il pensiero disfunzionale di aver commesso delle cose orribili.

Secondo uno studio condotto alla Washington University di St. Louis, la predisposizione a sentirsi colpevole potrebbe essere collegata ad un’alterazione del volume dell’insula, area cerebrale che regola la percezione, l’autoconsapevolezza e le emozioni e che sappiamo essere coinvolta in molti disturbi mentali. I ricercatori del Dipartimento di Psichiatria hanno misurato prima i livelli di senso di colpa e depressione in un gruppo di bambini reclutati in età prescolare, tra i 3 e i 5 anni. Costoro, raggiunta un’età compresa tra i 7 e i 13 anni, sono stati sottoposti a tre esami di risonanza magnetica funzionale, una ogni 18 mesi circa. Secondo i risultati dello studio, pubblicato su Jama Psichiatry, oltre la metà dei bambini depressi aveva anche un senso di colpa patologico; inoltre, i bambini non necessariamente depressi ma con un senso di colpa patologico mostravano delle dimensioni ridotte della parte anteriore dell’insula rispetto ai loro coetanei. L’individuazione del legame tra funzioni cerebrali e specifiche aree e reti di connessioni neurali è una delle più grandi sfide che le neuroscienze sta portando avanti attraverso un approccio integrato alla psicologia. A tal proposito ricercatori stanno indagando quali siano i modi più efficaci per aiutare i bambini a gestire i sensi di colpa appresi ed ecco che la psicologia assume ruolo predominante in un’ottica di prevenzione e promozione di salute psicologica sin dalla primissima età.

E da adulti? Come possiamo prenderci cura di noi stessi e di questo meccanismo psicologico che blocca il nostro sentirci liberi di mostrarci davvero per quello che siamo e non per quello che per anni abbiamo costruito come immagine ideale del nostro Sé? Iniziare a sperimentare che certi pensieri non producono nessun disastro irreversibile è un buon esercizio per riuscire a esprimere il nostro vero sentire e provare a rompere gli schemi rigidi e acquisiti che per anni hanno condizionato le nostre scelte, influenzando la qualità della vita. Tutto questo avvia un processo di riconoscimento di noi stessi e della autenticità delle nostre emozioni per stabilire delle relazioni interpersonali efficaci e sviluppare con loro una comunicazione rispettosa e funzionale.

M. Cecilia Gioia

 

Bibliografia

Belden AC, Barch DM2, Oakberg TJ1, April LM1, Harms MP1, Botteron KN3, Luby JL1. Anterior insula volume and guilt: neurobehavioral markers of recurrence after early childhood major depressive disorder. JAMA Psychiatry. 2015 Jan;72(1):40-8

La negazione e il controllo sul cambiamento.

 

negazione La negazione (differente dal diniego) e il controllo, sono meccanismi di difesa primari perché utilizzati in fasi di vita precoci dal bambino che coinvolgono tutti i livelli di personalità. Non bisogna pensare ad essi come qualcosa di patologico, bensì come adattamenti che ci permettono di autoregolarci e proteggerci da emozioni sgradevoli mantenendo l’autostima. Se alcuni meccanismi sono troppo invasivi, distorcono il nostro modo di vedere e vederci e possono alterare in modo significativo lo stare in relazione.

La negazione è un meccanismo utilizzato spesso per rendere la vita meno sgradevole.  In situazioni di grave crisi o di emergenza, la capacità di negare emotivamente che la propria esistenza è a rischio, ci può effettivamente proteggere o non essere invasi dall’angoscia, permettendoci di gestirla meglio e fare cose che in circostanze diverse non faremo mai. Chi agisce in questo modo impara il meccanismo della negazione sin da quando è piccolo e lo impara talmente bene  da interiorizzarlo e generalizzarlo da adulto.

Il meccanismo successivo alla negazione è quello del controllo, ovvero la necessità di dover influenzare l’ambiente circostante o le relazioni, elemento importante per la nostra autostima e senso di continuità esistenziale. Anche per questo meccanismo, come per tutti gli altri, se diventa “eccessivo”, può diventare invalidante e pericoloso. Chi agisce così sente di avere in pugno la situazione e di poter gestire la sua realtà.

L’accettazione è l’antitesi della negazione e del controllo. E’ la disponibilità a riconoscere la realtà per quello che è, e a permetterle di esistere come è, senza sentire il bisogno di cambiarla.

In una relazione affettiva la negazione di alcuni aspetti non gratificanti può aiutare fino a un certo punto a vedere del buono lì dove non c’è e rendere più leggera la situazione. Robin Norwood in “Donne che amano troppo” ci ricorda la favola de La Bella e la Bestia. Nella bella favola, una ragazza si innamora di un orso-leone dalla voce d’uomo, un essere bruttissimo ma pur capace di affetti. Il significato centrale della favola è l’accettazione, dice la Norwood, reazione opposta a quella di negazione e controllo. L’accettazione consiste nel sapere accettare un individuo così com’è. Quando si vuole cambiare una persona si spera che riuscendo a cambiarla si sarà felici, così facendo però si pone la felicità nella mani di qualcun altro, negando le proprie capacità ed evitando la responsabilità di cambiare in meglio la propria vita. “Allora cosa dobbiamo fare? Niente, dice la Norwood, non dobbiamo fare niente, semplicemente smettere di dirigere e controllare di fare le mamme, le serve, le infermiere. Perché nessuno può controllare nessuno e cambiare nessuno”.Scegliendo  di cambiare se stessi ci si libera del peso di provare a cambiare una persona e ci si libera del senso di colpa se non si riesce a cambiarla. 

Perché “nella vita c’è molta sofferenza, e forse l’unica sofferenza che si può evitare è la sofferenza di cercare di evitare la sofferenza” (R. Laing).

M. Cecilia Gioia

 

Bibliografia.

R. Norwood “Donne che amano troppo”.  Edizioni Feltrinelli.

Quando la psicoterapia finisce.

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E’ un momento unico, denso di vuoti che riempiono e di silenzi che nutrono.

Perché quando una psicoterapia termina, la senti nell’aria e il setting rivela un passaggio evolutivo denso di significanti e significati. Noi psicoterapeuti questo momento lo conosciamo bene perché racconta una storia e una relazione costruita con passione. Perché di una relazione si tratta, di un appuntamento settimanale fatto di attesa, di riflessioni, di approfondimenti e di domande. Ogni Persona che ho accolto nel mio studio è una storia da ascoltare, una relazione da costruire, una fiducia da consolidare attraverso mille prove e mille ascolti. Noi psicoterapeuti siamo così, costruiamo relazioni terapeutiche attraverso l’ascolto attivo, l’empatia e l’accettazione dell’altro come un valore unico e promuoviamo il potere della Persona verso il cambiamento. Tutto questo richiede tempo, passione, consapevolezza e centratura costante del proprio Sè, strumenti che accompagnano quotidianamente il nostro lavoro ricordando a noi stessi il significato di una professione densa di emozioni. Perché quando emerge nella Persona che mi ha scelto un processo di cambiamento, so di aver stabilito con Lei un’alleanza terapeutica che protegge la relazione dalle innumerevoli resistenze che la psicoterapia può far emergere. E’ un percorso complesso e (im)prevedibile la psicoterapia: si può cadere e ci si può rialzare più volte. E ci si può scoprire sorprendentemente forti o incredibilmente fragili, perché è difficile scegliere di percorrere nuove strade. E’ un atto che richiede grande coraggio e FIDUCIA, verso sé stessi, verso il terapeuta scelto e la RELAZIONE.

La relazione che propone, protegge, nutre e accompagna la Persona verso un passaggio progressivo di autonomia evolutivamente sana e sostenibile. Ed è proprio lì che il percorso cambia forma, si consolida e si riempie di silenzi che raccontano una crescita consapevole attraverso una relazione che si prende cura e sostiene nuovi passi.

Galileo Galilei diceva: “Non puoi insegnare qualcosa ad un uomo. Puoi solo aiutarlo a scoprirla dentro di sè”. Ecco, quando si è raggiunto tutto questo, al momento del saluto, io dico sempre alla Persona che mi ha scelto come sua psicoterapeuta: “Abbiamo davvero fatto un buon lavoro, perché abbiamo scelto di farlo insieme”.

M. Cecilia Gioia

 

Quando si sceglie un* psicoterapeuta.

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La psicoterapia è una forma di terapia basata sulla parola. Lo strumento usato è il colloquio che guida il paziente attraverso un processo logico e comprensibile che chiunque può seguire. L* psicoterapeuta è laureat* in psicologia (corso universitario di 5 anni) e ha conseguito una specializzazione in psicoterapia frequentando un corso di almeno 4 anni successivo alla laurea. Scegliere un* psicoterapeuta è un processo complesso che avviene, spesso, in un momento di difficoltà emotiva. Se siete intenzionati ad intraprendere un percorso psicoterapeutico può essere utile considerare questi aspetti.

  1. La ricerca su Internet

Nei siti web del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi CNOP e degli Ordini Regionali sono visionabili le banche dati contenenti i nominativi di tutti gli Psicologi iscritti all’Albo di una data regione. E’ importante verificare l’iscrizione all’Albo degli Psicologi e se presente l’abilitazione all’esercizio della Psicoterapia. Per verificare bisogna inserire il Nome e Cognome o il n° di iscrizione nell’elenco dall’Albo degli Psicologi consultabile sul sito nazionale o sul sito regionale in cui è iscritto lo psicologo .

  1. Il passa parola

Anche nella ricerca di un terapeuta, una buona strategia è quella di chiedere alle persone di propria fiducia, che sono o sono state in psicoterapia, come si trovano o come si sono trovate con il proprio Psicoterapeuta.

  1. L’approccio teorico.

Esistono numerose approcci teorici alla psicoterapia fondati su basi epistemologiche differenti. Ecco perché diversi approcci di psicoterapia agiscono su aspetti diversi dell’essere umano.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è una delle più diffuse psicoterapie per la terapia di diversi disturbi psicopatologici in particolare dei disturbi dell’ansia e dell’umore. Si tratta di una disciplina scientificamente fondata, la cui validità è suffragata da centinaia di studi. La psicoterapia cognitivo-comportamentale, come suggerisce il termine, combina due forme di terapia estremamente efficaci. La psicoterapia cognitiva aiuta ad individuare certi pensieri ricorrenti, certi schemi fissi di ragionamento e di interpretazione della realtà, che sono concomitanti alle forti e persistenti emozioni negative che vengono percepite come sintomi e ne sono la causa, a correggerli, ad arricchirli, ad integrarli con altri pensieri più oggettivi, o comunque più funzionali al benessere della persona. La psicoterapia comportamentale: aiuta a modificare la relazione fra le situazioni che creano difficoltà e le abituali reazioni emotive e comportamentali che la persona ha in tali circostanze, mediante l’apprendimento di nuove modalità di reazione. Aiuta inoltre a rilassare mente e corpo, così da sentirsi meglio e poter riflettere e prendere decisioni in maniera più lucida.

  1. Diverse modalità di psicoterapie.
  • la psicoterapia individuale,
  • la psicoterapia di coppia,
  • la psicoterapia familiare,
  • la psicoterapia di gruppo,
  • la psicoterapia di comunità.

 

È bene sapere, infatti, che la ricerca ha ormai chiarito che chi si rivolge alla psicoterapia a fronte di problemi personali riesce a stare meglio dell’80% di chi non lo fa e che i cambiamenti ottenuti sono durevoli (Lambert e altri, 2002).

Cecilia Gioia

 

Lambert M J, Vermeersch D A, 2002. Effectiveness of Psychotherapy. In Elsevier Encyclopedia of Psychotherapy, 709-714, Elsevier Science, USA.

La comunicazione umana.

Tutti sappiamo che la comunicazione è lo strumento elettivo che permette all’individuo di stabilire e mantenere relazioni con i suoi simili, ma pochi considerano la comunicazione un’ abilità che può essere migliorata, allenata ed eventualmente modificata. Se accettiamo che il comunicare rappresenta non solo “inviare messaggi”, ma anche un’occasione per costruire relazioni efficaci, allora possiamo decidere di lavorare su noi stessi attraverso l’accrescimento e lo sviluppo delle abilità comunicative.

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Nonostante questo bisogno emerga in maniera evidente dai disagi riscontrati nei servizi, tale carenza diventa ancora più significativa in quegli ambiti professionali in cui la relazione, e quindi la comunicazione, occupano uno spazio predominante. Per esempio, un insegnante molto colto, esperto della sua materia, che non sa però comunicare il suo sapere agli studenti, non è in grado di fornire un servizio di “formazione” adeguato. E’ necessario allora la creazione di nuovi strumenti e metodologie per gli operatori i cui ambiti professionali si basano sulla comunicazione interpersonale. Scopo di questo capitolo è di introdurre il lettore al concetto di comunicazione descrivendo gli elementi teorici di base che ne fanno parte, per poi fornire una breve panoramica sulle varie modalità comunicative e le tecniche di riferimento.

 1.1 Il modello lineare della comunicazione

L’atto comunicativo è implicito nella natura umana, fa parte della sua essenza ed è lo strumento che collega i suoi bisogni alla capacità di esprimerli.

Comunic-azione deriva dal latino cum = con e munire = legare, costruire e dal latino communico = mettere in comune, far partecipe e vuol dire letteralmente azione in comune. Nella sua accezione più ampia la comunicazione viene definita come lo scambio di informazioni, idee e di influenzamento reciproco, tra persone o gruppi, in un determinato contesto.  A partire dagli anni Quaranta sono stati sviluppati numerosi modelli per descrivere il processo comunicativo. In particolare, un vero e proprio punto di svolta è costituito dall’opera di due importanti scienziati: Claude Shannon e Warren Weaver (1949). Nei loro scritti, gli autori, forniscono per la prima volta una definizione generale della comunicazione come trasferimento di informazioni mediante segnali da una fonte a un destinatario. L’informazione viene codificata e trasmessa mediante segnali ad un destinatario, che deve decodificarla attribuendo significati a quest’ultimi. Il messaggio ricevuto non è identico a quello inviato, perché vi sono interferenze determinate dal canale, dal rumore e dalla decodifica del ricevente. In particolare, il rumore, un’ interferenze che può danneggiare il segnale, rappresenta un elemento di ostacolo al buon fine del processo comunicativo.

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Figura 1 – Lo schema della comunicazione di Shannon e Weaver (1949)

1.2 La struttura della comunicazione

Grazie alla sua semplicità, lo schema di Shannon e Weaver ha avuto una enorme fortuna nelle varie discipline che si occupano di comunicazione. Tuttavia, in ragione della sua origine “matematica”, esso non permette di rappresentare in maniera esauriente i processi comunicativi in cui sono implicati gli esseri umani. Il suo limite, in particolare, è quello di occuparsi solo della sintattica e non della semantica del messaggio; in altre parole, si preoccupa più che il messaggio arrivi al destinatario che della effettiva comprensione del messaggio stesso. Tenendo conto della complessità della comunicazione umana, ed in particolare della comunicazione linguistica, Roman Jakobson (1966) ha proposto una rielaborazione dello schema comunicativo che ha avuto grande influenza su molti modelli adottati negli studi sulle comunicazioni di massa. L’autore scompone il processo della comunicazione in sei elementi principali:

  • il mittente che opera la codificazione del messaggio, lo trasmette ed è il responsabile della comunicazione;
  • il destinatario, colui che interpreta il messaggio attraverso una operazione di decodificazione;
  • il messaggio che è un’informazione o un quantum di informazioni trasmesse e strutturate secondo regole definite;
  • il codice, ovvero il linguaggio, cioè il sistema di segni con cui il mittente formula il messaggio che invia al destinatario (deve essere comune al mittente e al destinatario);
  • il contatto, il mezzo attraverso il quale il messaggio passa dal mittente al destinatario. Può essere fisico e psicologico e consente di stabilire e mantenere la comunicazione.

Questi passaggi non avrebbero nessun significato se colui che invia il messaggio non valutasse il contesto sociale in cui opera, al fine di trovare un contatto reale, scegliendo il codice comunicativo più idoneo. Ad esempio, per insegnare una melodia ad un gruppo di bambini di circa sei anni bisognerà parlare con un linguaggio a loro comprensibile, mentre nel caso di un gruppo di adulti si sceglierà di utilizzare un canale più adatto ai riceventi della comunicazione.

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Figura 2 – Lo schema della comunicazione di Jakobson (1966)

1.3 La direzione della comunicazione interpersonale

Per una comunicazione veramente efficace è importante saper cogliere il feedback inviato dall’interlocutore sia verbalmente che non. Il feedback è la risposta che si ottiene dopo aver inviato un messaggio e che produce, a sua volta, un altro feedback e così via. Può essere considerato un fattore di controllo della comunicazione, perchè consente di verificare l’effetto che i nostri messaggi producono sull’altro, offrendo notevoli profitti alla relazione tra i due comunicanti. Nonostante la sua importanza, il suo utilizzo non è indispensabile in ogni atto comunicativo; l’attinenza dipende dal tipo di comunicazione che scegliamo di utilizzare. Partendo da questi presupposti ci accorgiamo che la comunicazione può presentare due direzioni, a una via o a due vie.

La comunicazione a una via è caratterizzata da un messaggio molto semplice, un obiettivo chiaro e può essere rivolta ad un numero di riceventi molto alto. La credibilità del messaggio è fortemente influenzata dalla legittimazione del trasmittente e le componenti emotive del messaggio sono trascurate; inoltre il messaggio è efficace soprattutto se si basa su una conferma dell’esperienza passata.

Al contrario, nella comunicazione a due vie il messaggio può essere complesso, l’obiettivo molto chiaro e il tempo a disposizione relativamente ampio. Una caratteristica fondamentale è il numero dei riceventi, che deve essere relativamente basso e la presenza di componenti emotive nel messaggio. Inoltre, tutti gli interessati alla comunicazione sono responsabili della sua organizzazione e del suo successo, soprattutto quando si punta ad una modifica dell’esperienza stessa.

1.4 Funzioni ed obiettivi della comunicazione

A ogni forma di comunicazione, corrispondono varie funzioni ed obiettivi. A seconda dell’obiettivo su cui la comunicazione si basa, essa svolge una funzione prevalente.

  • Funzione strumentale: usare la comunicazione per ottenere qualcosa;
  • Funzione di controllo: prevedere delle sanzioni, in caso di disubbidienza;
  • Funzione informativa: fornire informazioni, spiegazioni;
  • Funzione espressiva: esprimere i propri sentimenti e capire quelli degli altri;
  • Funzione valutativa: valutare gli altri e farsi valutare;
  • Funzione di contatto sociale: instaurare rapporti con estranei;
  • Funzione di alleviamento dell’ansia: comunicare al fine di attenuare la propria ansia;
  • Funzione di stimolo: sollecitare altri ad entrare nel rapporto comunicativo;
  • Funzione di ruolo: inviare messaggi tipici del ruolo che si occupa.

E’ importante sottolineare che queste funzioni non sono mai presenti allo stato puro in un messaggio: infatti, non esiste un messaggio che sia esclusivamente espressivo, o esclusivamente di ruolo. Al contrario, sono presenti tutte le funzioni. Tuttavia in ciascun messaggio si identifica sempre una funzione prevalente rispetto alle altre, ed essa determina il carattere funzionale della comunicazione.

1.5 La comunicazione umana: presupposti teorici

Lo studio della comunicazione umana si realizza all’interno delle seguenti aree d’indagine:

  • lo studio della sintassi, che ha a che fare con la trasmissione dell’informazione, ovvero con la codifica sintattica dei messaggi, dei canali, della capacità, della ridondanza ed altre proprietà statistiche del linguaggio, a prescindere dal loro significato;
  • lo studio della semantica, che si occupa appunto dell’analisi del significato dei simboli che vengono trasmessi da un individuo all’altro nell’interazione comunicativa, presupponendo l’esistenza di convenzioni semantiche che permettono la trasmissione delle informazioni;
  • lo studio della pragmatica, che si basa su due concetti molto semplici: la comunicazione influenza il comportamento e tutto il comportamento è comunicazione. I dati che vengono presi in esame saranno dunque: le parole, le loro configurazioni, i loro significati, tutto il non-verbale concomitante ad esse, il linguaggio del corpo e i segni di comunicazione inerenti al contesto della comunicazione.

Questi tre aspetti fondamentali sono fortemente collegati tra di loro, pur potendo essere studiati e analizzati separatamente.

1.6 Le proprieta’ della comunicazione

Una delle teorie che ha maggiormente influenzato gli studi sulla comunicazione è quella proposta da un gruppo di ricercatori di Palo Alto, Beavin, Jackson e Watzlawick (1971). Quest’ultimo utilizza il termine “comunicazione” per indicare un’unità di comportamento genericamente definita e “messaggio” per indicare una singola unità di comunicazione. Inoltre definisce “l’interazione” come una serie di messaggi scambiati tra persone. «E’ evidente che una volta accettato l’intero comportamento come comunicazione, non ci occuperemo dell’unità del messaggio monofonico, ma di un composto fluido e poliedrico di molti moduli comportamentali – verbali, posturali, contestuali, etc..- che qualificano tutti, il significato di tutti gli altri» (Watzlawick P., 1971). Il risultato più significativo di queste ricerche è stato l’identificazione di alcuni assiomi che ben definiscono le proprietà dell’atto comunicativo. L’autore elenca 5 assiomi principali per spiegare le caratteristiche della comunicazione.

  1. Non si può non comunicare. Qualsiasi comportamento, le parole, così come i silenzi, l’attività o l’inattività hanno tutti valore comunicativo e influenzano gli altri interlocutori che non possono non rispondere a queste comunicazioni. Se definiamo il messaggio come l’insieme di comportamenti messi in atto in una situazione di interazione, ci rendiamo conto che non possiamo sottrarci alla comunicazione. Parlando in termini più generali, tutte le volte che qualcuno cerca di evitare una comunicazione attraverso tentativi di non-comunicare (ad es. il rifiuto o la squalificazione della stessa) finisce per generare un’interazione paradossale. Prendiamo ad esempio due soggetti che siedono in posti adiacenti su un aereo. Non possono spostarsi e non possono non-comunicare. Quali sono le possibili soluzioni a questa condizione?

Si può scegliere di rifiutare la comunicazione, ovvero un passeggero fa capire all’altro che non vuole conversare; oppure si può decidere di accettare la comunicazione e quindi un passeggero cede alla conversazione dell’altro e cominciano a comunicare. Si può squalificare la comunicazione (il passeggero che non voleva comunicare si abbandona ad una sorta di comunicazione inconcludente nel tentativo di invalidare l’atto comunicativo); oppure si può scegliere di utilizzare un sintomo come comunicazione (un passeggero manifesta un sintomo come far finta di dormire, mal di testa, dietro il quale nasconde la propria volontà di non impegnarsi in una comunicazione).

  1. Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione, di modo che il secondo classifica il primo, ed è quindi metacomunicazione (ovvero quando la comunicazione di un soggetto ha per oggetto un’altra comunicazione).

Questo significa che il contenuto di un messaggio va interpretato alla luce della relazione esistente tra i soggetti che interagiscono. Infatti, ogni atto comunicativo non soltanto trasmette informazioni, ma al tempo stesso impone un comportamento: esiste la notizia, il contenuto dell’informazione e il comando che si riferisce al modo in cui deve essere assunto quel preciso messaggio, diverso a seconda della relazione esistente tra le due persone. Watzlawick utilizza l’analogia del calcolatore: per operare, la macchina ha bisogno non solo di dati (informazione), ma anche di dati sui dati, ovvero del codice che dica alla macchina come trattare i dati (metainformazione). Portando l’analogia nel mondo della comunicazione interpersonale, possiamo identificare l’aspetto di notizia del messaggio come comunicazione e l’aspetto di comando come metacomunicazione Nella vita quotidiana spesso diciamo qualcosa verbalmente mentre lo commentiamo in modo non verbale (metacomunicazione). Ad esempio, un individuo che proferisce un’affermazione del tipo: «Fai attenzione» esprime, oltre al contenuto (la volontà che l’ascoltatore compia una determinata azione), anche la relazione che intercorre tra chi comunica e chi è oggetto della comunicazione. Ad esempio se questa affermazione è detta dalla maestra allo studente può essere una richiesta o un ordine, se detta invece da una madre ad un figlio può essere una raccomandazione. Spesso accade che il motivo scatenante di una discussione consista in un disaccordo a livello di relazione (metacomunicazione), mentre la discussione rimane centrata a livello di contenuto. Questa confusione tra l’aspetto di contenuto e quello di relazione scaturisce dalla difficoltà di parlare sulla relazione, e lascia i protagonisti della comunicazione a litigare su aspetti su cui spesso sono già d’accordo (il contenuto), mentre l’aspetto relazionale resta fuori. Il disaccordo permette di identificare questi livelli che sono strettamente legati e non modificabili; qualsiasi variazione sull’uno influenza irrimediabilmente anche l’altro. Per la pragmatica della comunicazione, il disaccordo a livello di metacomunicazione è più importante, per le sue implicazioni, di quello a livello di contenuto.

  1. La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti.

Ciò significa che i nostri scambi comunicativi non sono casuali ma sono legati da una sequenza ininterrotta, organizzati proprio come se seguissero una punteggiatura. Osservando la conversazione tra due comunicanti, si può identificare la sequenza di chi parla e di chi risponde, si può definire ciò che è la causa di un comportamento e ciò che è l’effetto. La scuola sistemico-relazionale di Palo Alto, sostiene che all’interno della comunicazione il feedback riveste un’enorme importanza, poiché il processo di comunicazione non va più inteso come un processo unidirezionale e lineare, (per cui l’emittente A invia un messaggio al ricevente B, e B risponde indipendentemente dal segnale ricevuto) bensì come una funzione ricorsiva, in cui il segnale inviato da A influenza in maniera determinante la risposta di B ed il nuovo segnale inviato da B, a sua volta, condiziona la risposta di A e così all’infinito.

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Figura 3- Il feedback nella comunicazione.

Per quanto riguarda le manifestazioni patologiche collegate alla distorsione di questo concetto, i problemi insorgono, quando si presentano delle discrepanze relative alla punteggiatura (ovvero delle visioni diverse della realtà), determinate dal fatto che i protagonisti della comunicazione non possiedono lo stesso grado d’informazione senza tuttavia saperlo o che, dalla stessa informazione, traggano conclusioni diverse; in questi casi si creano una sorta di malintesi che inevitabilmente portano a circoli viziosi che incidono pesantemente sulla natura della relazione. L’unica maniera per risolvere questo tipo di situazione è fare sì che i comunicanti riescano ad uscire da una visione univoca della realtà e accettino la possibilità che l’altro possa interpretare quest’ultima in maniera differente; in una parola, è necessario che i comunicanti riescano a metacomunicare.

4.Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico.

In altre parole se ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, il primo sarà trasmesso essenzialmente con un modulo numerico e il secondo attraverso un modulo analogico. Il linguaggio numerico corrisponde alle parole e segni arbitrari dovuti ad una convenzione sul significato ad esse attribuito. Comprende una sintassi logica complessa estremamente efficace ed è lo strumento privilegiato per trasmettere dei contenuti; manca però di una serie di significati importanti per il settore della relazione. Il linguaggio analogico si esprime attraverso la comunicazione non verbale che serve soprattutto a trasmettere gli aspetti che riguardano la relazione tra i partecipanti. L’attività di comunicare comporta quindi la capacità di coniugare questi due linguaggi. Possiamo commettere errori nel processo di traduzione dal modulo analogico a quello numerico (e viceversa). E’ importante sottolineare che tutti i messaggi analogici sono proposte di relazione: spetta poi a noi attribuire il corretto significato (ovvero il significato inteso dall’emittente) positivo o negativo alle suddette proposte.

5. Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza.

L’interazione simmetrica è basata sull’uguaglianza ed è caratterizzata da un piano di partenza paritario dove il comportamento di un membro tende a rispecchiare quello dell’altro. La relazione complementare è invece caratterizzata dalla differenza di posizione (superiore e inferiore) assunta dalle persone tra le quali avviene lo scambio comunicativo; i diversi comportamenti dei partecipanti si richiamano e si riforzano a vicenda, dando vita ad una relazione di interdipendenza in cui i rispettivi ruoli sono stati accettati da entrambi (ad es. le relazioni madre-figlio, medico-paziente, insegnante-studente). Possiamo definire una relazione equilibrata quando simmetria e complementarietà si alternano. Quando invece si irrigidisce una delle due modalità, si producono fallimenti comunicativi difficili da recuperare. Tra le potenziali patologie dell’interazione simmetrica e complementare distinguiamo l’escalation simmetrica e la complementarietà rigida. La prima è caratterizzata da uno stato di guerra più o meno aperta all’interno della quale i due comunicanti tentano di avere l’ultima parola sul contenuto della comunicazione, rifiutandosi reciprocamente e rivendicando il diritto di definire la relazione. Le patologie possibili nelle relazioni complementari equivalgono ad una negazione e ad un non riconoscimento dell’altro come emittente del messaggio.

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Tratto da Gioia M.C. “La comunicazione”. In “Formazione ed educazione. Esclusione o democrazia?” Burza V. (a cura di), Cosenza: Periferia, 2008 pp. 151-166.

Bibliografia

  1. Jacobson R., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 1966.
  2. Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1971
  3. Shannon, C.E. e Weaver, W., The Mathematical Theory of Communication, University of Illinois Press, Urbana 1949
  4. Hall Edward T. The Hidden Dimension. New York: Doubleday & Co 1966.
  5. Nichols M. P. L’arte perduta di ascoltare. Verona, Positive Press 1997.
  6. Scilligo P.. Io e tu: ascoltare, rispondere e cambiare (vol. II). Roma: IFREP. 1999.
  7. Mauri A. e Tinti C. Formare alla comunicazione. Edizioni Erickson 2006.

Amigdala Studio di Psicoterapia © Riproduzione riservata 

 

L’orgoglio come resistenza al cambiamento.

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Il termine orgoglio si riferisce ad un forte senso di autostima e fiducia nelle proprie capacità, unito all’incapacità di ricevere umiliazioni e alla gratificazione conseguente all’affermazione di sé, o di una persona, un evento, un oggetto o un gruppo con cui ci si identifica (Wikipedia).

In poche parole “è avere un’alta opinione di sé senza tener conto degli altri”.

Noi psicologi consideriamo l’orgoglio un’emozione autoriflessiva, non innata, ma che si svilupperebbe nel bambino successivamente attraverso la capacità di autovalutazione dei propri comportamenti rispetto alla famiglia e alla cultura di riferimento.

Alcune teorie considerano l’orgoglio strettamente associato al narcisismo inteso come tratto di personalità che può sostenere un senso di sé e del proprio valore oppure un’insicurezza di base che non tollera la minima critica.

Oltre ad essere riconosciuto come un tratto di personalità, l’orgoglio può anche essere definito un’emozione espressa da chi si sente fiero di sé, del suo lavoro, della sua famiglia.

Alla luce di questo possiamo definire l’orgoglio un sentimento fortemente ambivalente che spesso condiziona nelle relazioni allontanandoci dagli altri e dalla capacità di accogliere gli altrui bisogni.

La persona orgogliosa è poco empatica e scarsamente compassionevole, spesso compete con gli altri, per conquistarsi la posizione gerarchica che desidera dimenticando l’empatia e l’ascolto dell’altro. E costruendo barriere.

Quante volte l’orgoglio ha condizionato la nostra vita “costringendoci” a rimanere su posizioni scarsamente funzionali pur di confermare a noi stessi di essere nel “giusto?”.

Tante, molte volte, deteriorando relazioni o rivelando la vera natura di noi.

Perché è semplice definirci “empatici” nelle situazioni comode, la vera sfida è rimanere coerenti su ciò che predichiamo anche quando la vita non va secondo i nostri piani.

Ed ecco che l’orgoglio si trasforma in una vera e propria resistenza al cambiamento diventando un baluardo difficile da abbattere perché legato alle nostre insicurezze.

Proviamo a pensare all’ultima volta in cui l’orgoglio ci ha abitato e a tutto quello che è derivato dalla sua ingombrante presenza “dentro” di noi. Proviamo a rievocare le sensazioni, spesso spiacevoli, legate alla solitudine di viversi circondati da barriere.  Lasciamo andare l’orgoglio provando ad ascoltarci nei nostri “veri” bisogni, accogliendo consapevolmente il cambiamento, nutrimento necessario per viversi.

Ogni giorno.

Cecilia Gioia

 

La sindrome rancorosa del beneficato.

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L’ingratitudine è un comportamento umano che riflette sentimenti negativi nei confronti del nostro prossimo. Ed è proprio l’ingratitudine e il rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente) che coglie chi ha ricevuto un beneficio, visto che tale condizione lo pone in “debito di riconoscenza” nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli “dovrebbe” riconoscere ma che non riesce ad accettare di aver ricevuto, al punto di arrivare a penalizzare e calunniare il suo benefattore.

Di tutt’altra matrice la gratitudine, l’emozione che ci permette di poter apprezzare la vita nel qui ed ora e di vivere liberamente i doni che l’altro sceglie di donarci. Proviamo a pensare a quante volte pronunciamo la parola “Grazie” nella nostra giornata e se la risposta tarda ad arrivare iniziamo a pensare alla gratitudine come ad una qualità da coltivare quotidianamente per essere felici.

Ma torniamo alla comprensione di questa sindrome non dimenticando il ruolo fondamentale di entrambi i protagonisti di questa dinamica, il beneficiato e il benefattore nell’espressione di questo comportamento. Ed ecco che la domanda: “Che struttura di personalità presentano il benefattore ed il beneficato?“ci permette di andare oltre la superficie comportamentale per scoprire le aspettative e le emozioni legate a questa relazione di reciprocità non sempre espresse e riconosciute.

Esistono in letteratura,  varie tipologie di benefattore come quello:

  • OCCASIONALE
  • INCALLITO
  • PER FEDE O IDEOLOGIA
  • IN OMBRA
  • ILLUSO-DISILLUSO
  • D’AMORE

e varie tipologie di beneficato:

  • INSAZIABILE
  • STITICO
  • DISTRATTO
  • SILENZIOSO
  • TRADITORE
  • D’AMORE

Proviamo a pensare a quale di queste tipologie ci sentiamo di appartenere, cercando di ricordare l’ultimo episodio di vita che ci ha coinvolto in questa dinamica.

E mi rivolgo a te che stai leggendo ora, sei stato più benefattore o beneficato?

Cecilia Gioia

 

Bibliografia:

  • Maria Rita Parsi, Ingrati, ed. Oscar Mondadori

Resilienza: questa sconosciuta.

Jennifer Clutterbuck

Jennifer Clutterbuck

Capita, durante il viaggio della vita, di avere delle battute di arresto. Pause, alcune volte forzate che ci “costringono” a sostare su un momento alcune volte scomodo.

Capita poi che facciamo fatica a “stare” e le innumerevoli resistenze che manifestiamo raccontano le nostre difficoltà ad accogliere l’imprevisto. Perché spesso di imprevisti si parla, di pause improvvise, di spazi vuoti di domande, di step che alcune volte trasformiamo in stop.

Piccole e grandi prove per la nostra poco allenata resilienza, eventi che ricamano la nostra vita rendendola squisitamente imprevedibile e avventurosa.

Re·si·lièn·za, capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità (Wikipedia).

Ottima definizione, ma come si fa?

Proviamo a chiudere gli occhi e a ricordare uno dei tanti momenti della nostra vita dove abbiamo incontrato un imprevisto. E se abbiamo rievocato l’immagine, proviamo a concentrarci sulle emozioni che abbiamo vissuto in quel momento, a come ci siamo sentiti e ai pensieri associati a quella situazione. Ecco, se provo a ricordare un episodio recente, la mia pancia brontola e le emozioni sono decisamente scomode e rumorose. I miei pensieri, poco positivi, sono legati ad un unico concetto: “Perché è successo proprio a me?” oppure “Cosa significa tutto questo?”. Domande da cui non è possibile sfuggire, dove risulta necessario stare, smettendo di cercare risposte scarsamente esaustive che possano giustificare il momento di difficoltà che si sta attraversando.

Ed ecco che lo step può ripiegarsi in stop oppure trasformarsi in start, attraverso la nostra resilienza. Significa cercare il buono anche in un’esperienza scomoda, provando ad attribuire nuovi significati agli eventi. Significa ripristinare un equilibrio emotivo compromesso dalle avversità, trasformandole in risorse da cui attingere e ripartire.

Allenare la nostra resilienza vuol dire quotidianamente imparare ad accettare il cambiamento accogliendolo come un’opportunità della vita. Vuol dire stabilire relazioni interpersonali sane, basate sull’accettazione dell’altro diverso da me, come esercizio quotidiano di salute psichica.

Significa imparare a porsi obiettivi realistici che aumentano la nostra autostima e nutrono atteggiamenti resilienti. E imparare a cambiare prospettiva, per avere una visione più ampia che permette al nostro Io di respirare pensieri ossigenanti.

In una parola significa prendersi cura di sé, accogliendosi quotidianamente come promessa di amore verso noi stessi.

Basta volerlo, ogni giorno.

E adesso proviamo a ricordarci l’ultima volta in cui ci siamo abbracciati e se il ricordo tarda ad arrivare, poco male. Facciamolo adesso.

Cecilia Gioia

I gruppi di automutuoaiuto.

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Croce e delizia di un immaginario collettivo dove è facile perdersi in fantasie catastrofiche dense di lacrime e di chiusura. Si, perché troppo spesso si immaginano in questi gruppi momenti di pianti e rimpianti, spazi dove è difficile so-stare perché troppo pieni di tristezza, incontri che non permettono l’ascolto dell’altro perché troppo impegnati ad avvolgersi nelle proprie lacrime. Dolore che genera dolore, luoghi del ricordo che è meglio dimenticare, perché parlare “fa male”, condividere “non serve a nulla” e sul dolore vissuto “è meglio farsene una ragione e non parlarne più”. Come se fosse davvero così facile staccarsi dalla propria storia, far finta di nulla indossando il vestito più bello, fatto di negazioni o evitamenti. Strategie squisitamente umane, che non ci permettono di centrarci sulle nostre emozioni, ma di spostarci su altro, perché l’altro si può ascoltare, le emozioni, soprattutto quelle tristi, no.

Ed ecco che l’incontro con un altro ME diventa rischioso, da evitare perché ricco di ricordi tristi. Meglio non parlarne più, tanto a che serve?

Invece serve, nutre, ascolta, tesse relazioni, dona riconoscimenti, rende visibile ciò che spesso la società tende a non riconoscere, dona suoni a voci troppo spesso inascoltate, vista ad occhi offuscati dalle lacrime e tatto a mani che per troppo tempo non si sono sfiorate.

I gruppi di automutuoaiuto sono una risorsa che genera trasformazioni, abbracci, emozioni che danno vita, legami solidi, promesse di sorrisi, risate di scoperte, in un esercizio costante e coraggioso, fatto di ascolto e accettazione. E generano cambiamento sociale, attraverso azioni collettive, dove si consolida un’identità di gruppo forte in cui quotidianamente “ci si mette la faccia” come atto di appartenenza a chi ha deciso di fluidificare il dolore, troppo spesso cristallizzato, in un’opportunità per se stesso e per gli altri.

Bisogna essere davvero coraggiosi per decidere di far parte di un gruppo di automutuoaiuto: perché significa riconoscere ad ogni incontro la propria storia accogliendo l’altro, creando spazio, imparando il dono dell’ascolto che non giudica. E a stare, consapevolmente, nel silenzio.

Quel silenzio che cura, lenisce, rimbomba, reclama, ricorda. Accoglie. Sorride.

I gruppi di automutuoaiuto donano tutto questo e tanto altro. Basta avvicinarsi e scoprire un mondo fatto di relazioni che si prendono cura. Basta non averne paura.

Cecilia Gioia

Quando hai deciso di cambiare davvero?

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Cam-bia-mén-to, parola complessa, distrattamente ripetuta e scarsamente interiorizzata, in un quotidiano denso di promesse e di piccole e grandi delusioni che  accompagnano il nostro vivere.

Proviamo insieme a ricordare l’ultima volta che abbiamo pronunciato la fatidica frase :“Basta, questa volta voglio cambiare davvero!” tentando di rievocare il ricordo che ha accompagnato questa promessa. E mentre proviamo a rievocare, scorrono immagini in cui il pensiero non è stato seguito dall’azione, bensì da una fase limbica e stagnante dove diventa scomodo so-stare in attesa di un cambiamento concreto. Cambiamento che avviene davvero quando scelgo consapevolmente di intraprendere un percorso di psicoterapia. Scelta complessa, impegnativa, che rivela una scintilla primordiale di cambiamento nel momento in cui decido di prendermi cura di alcuni aspetti di me, chiedendo aiuto. Perché cambiare è un processo dinamico che consiste nell’acquisire progressivamente consapevolezza di me stesso, sperimentando nuove strategie per superare delle difficoltà attraverso nuove scelte.

Chiedere aiuto ad uno psicoterapeuta significa darsi l’opportunità di incontrare i propri limiti, riconoscerli per sollecitare in noi stessi le risorse necessarie per attivare il cambiamento. Significa imparare a “stare” nelle innumerevoli contraddizioni che ci appartengono e che spesso non riusciamo a decodificare chiaramente.

Secondo la psicoterapia cognitivo-comportamentale ognuno di noi costruisce la propria idea di realtà e di mondo attraverso la costruzione di schemi mentali che sono alla base poi del modo con cui interpretiamo il mondo. Secondo questo modello esiste una stretta relazione tra pensieri, emozioni e comportamenti e che le difficoltà emotive con cui si manifesta il sintomo siano influenzate dai nostri pensieri e dalle nostre azioni. Poiché tutto ciò che noi viviamo è apprendimento, noi costruiamo la nostra realtà interna a a partire dalle esperienze che facciamo dal preconcepimento in poi.

In questa prospettiva anche il disagio psicologico, è conseguenza dell’apprendimento di schemi comportamentali, emotivi e di pensieri errati, derivanti dall’interpretazione disfunzionale dell’esperienza di vita della persona. Questo significa che la psicopatologia è la conseguenza della costruzione di convinzioni cognitive non adeguate da cui derivano comportamenti non funzionali ed emozioni dolorose, che influenzano notevolmente la qualità della vita.

L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la salute come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. Quando si parla di salute quindi non si può non avere in mente anche la salute mentale.

Con l’espressione “salute mentale” si fa riferimento ad uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale la persona è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni.

Ed è proprio in un’ottica di salutogenesi che il processo di cambiamento in psicoterapia ben si inserisce nella vita della persona promuovendo nuove risorse e strategie adattive che migliorano la capacità di relazione con se stessi e di azione nel mondo. La poesia di Portia Nelson descrive perfettamente il processo di cambiamento che avviene attraverso il percorso della psicoterapia: dal senso di impotenza data dall’idea di non avere scelta, alla consapevolezza che nuove opzioni sono possibili e alla possibilità di concretizzarle.

Cecilia Gioia

Autobiografia in 5 brevi capitoli
di Portia Nelson

I
Cammino per la strada.
C’è una profonda buca nel marciapiede.
Ci cado.
Sono persa.
Sono impotente.
Non è colpa mia.
Ci vorrà un’eternità per trovare come uscirne.

II
Cammino per la stessa strada.
C’è una profonda buca nel marciapiede.
Fingo di non vederla.
Ci ricado.
Non riesco a credere di essere nello stesso posto.
Non è colpa mia.
Ci vuole ancora molto tempo per uscirne.

III
Cammino per la strada.
C’è una profonda buca nel marciapiede.
Vedo che c’è.
Ci cado ancora… è un’abitudine.
I miei occhi sono aperti.
So dove sono.
E’ colpa mia.
Ne esco immediatamente.

IV
Cammino per la strada.
C’è una profonda buca nel marciapiede.
La aggiro.

V
Cammino per un’altra strada.