Diventare mamma, un atto davvero creativo.

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Diventare mamma rappresenta l’atto creativo per eccellenza. La donna apprende, attraverso un percorso di consapevolezza, a fare spazio per accogliere le trasformazioni che il suo corpo e la sua mente vivranno durante i mesi di endogestazione. E sin dai primi attimi di vita intrauterina, mamma e figlia/o sperimenteranno la consapevolezza di vivere, come protagonisti assoluti, un vero e proprio miracolo creativo, una scintilla di pensiero che racchiude in sé tutto il senso del mondo. Mettere al mondo un figlio è concepire nuove parti sè, come donna consapevole di camminare sul mondo, esprimendo liberamente se stessa e il suo essere madre. Ed è attraverso questo atto creativo che la coppia sperimenta le sue risorse endogene, spesso inconsapevoli, attraverso le piccole e grandi conquiste che caratterizzano il diventare genitori.

Il dono più bello che un genitore possa fare ai figli è l’ottimismo, indispensabile per crescere sereni. Secondo Seligman l’ottimismo è il risultato del nostro stile di attribuzione, vale a dire di come interpretiamo gli eventi che ci riguardano. Crescendo, il bambino si crea un’immagine causale delle cose che gli accadono, sviluppa cioè delle teorie sui motivi per cui determinate cose accadono e del perché egli fallisce o ha successo. Come genitori possiamo quotidianamente migliorare l’ottimismo dei nostri figli attraverso una serie di azioni “creative” che sollecitano nel bambino il bisogno di far leva sulle sue risorse interne, quali

  • proporre loro attività che migliorano la loro padronanza del mondo circostante come scegliere i vestiti da mettersi ogni giorno, le cose da acquistare al supermercato, i cibi da mangiare, i giochi. Questo approccio comporta anche lasciare che i nostri figli provino a risolvere da soli le proprie difficoltà, senza criticarli in caso di insuccessi. Sostituirsi a loro, anche se a volte è più rapido, criticarli o lodarli senza un motivo impedisce ai nostri figli di sviluppare le capacità necessarie per affrontare la vita, e riduce la loro fiducia in se stessi, perché trasmettiamo il messaggio che sono incapaci di cavarsela da soli.
  • stimolare nei propri figli la creazione di nuove strategie per relazionarsi meglio con gli altri come fare amicizia con altri bambini, negoziare in caso di disaccordi, rivolgersi a persone adulte.
  • spiegare i loro (e i nostri) insuccessi e successi con commenti che promuovono uno stile ottimista, cioè descrivere l’evento negativo come di importanza limitata, temporaneo, circoscritto a un solo un aspetto della loro persona, e dovuto a cause esterne o a un loro comportamento modificabile.

Numerosi studi si sono concentrati sul mettere in evidenza le basi cerebrali del pensiero creativo. Già negli anni Settanta è stata promossa, su basi scientifiche, la teoria che la creatività fosse associata ad una maggiore attivazione da parte dell’emisfero destro del nostro cervello: tale zona, infatti, sembrerebbe avere un ruolo predominante a livello di percezione e produzione musicale, nella creazione delle arti visive e nella produzione di immagini mentali (Martingale, 1981; Seamon – Gazzaniga, 1973, cit. in Sternberg 1999). Secondo Gardner (1994) la persona creativa è colei che regolarmente risolve dei problemi, elabora dei prodotti o formula interrogativi nuovi in un modo che inizialmente viene considerato originale ma che finisce per venir accettato in un particolare ambiente culturale. La persona creativa non è creativa una tantum. È in grado di comportarsi creativamente sempre: l’atto creativo non è un evento unico, ma la creatività è piuttosto di uno stile di vita. Uno dei primi compiti dei genitori è quello di offrire al bambino, fin da piccolissimo, delle opportunità per esprimere le proprie potenzialità. Può essere utile far possedere un luogo segreto, in cui il bambino può pensare e sognare; offrire, se possibile, vari materiali come album da disegno e strumenti musicali; ritagliare degli spazi temporali e fisici in cui creare; incoraggiare il bambino a disegnare e valorizzare le “produzioni artistiche”; portare i bambini ai musei e far ascoltare loro la musica; non reprimere la creatività dei propri figli con suggerimenti; far comprendere ai bambini l’importanza di “partecipare” anche se il proprio contributo sarà secondo o terzo; stabilire un clima allegro e utilizzare l’ironia quando si lavora a qualcosa di creativo e darsi il peso giusto e darlo ai propri figli, senza utilizzare frasi del tipo “sei un genio!” e varie.

L’educazione alla bellezza equivale a fornire ai nostri bambini la capacità di apprezzare la poesia del mondo, offrendo loro validi strumenti per fronteggiare gli imprevisti della vita.

Come genitori è fondamentale incoraggiare il potenziale del nostro bambino attraverso l’ascolto consapevole innanzitutto di noi stessi. L’ascolto delle nostre emozioni come genitori ci permette di riconoscere ed eventualmente esprimere una serie di emozioni, spesso poco piacevoli, che inevitabilmente tendiamo a nascondere e che trasmettono al bambino sentimenti di rabbia e impotenza. Tutto questo influenza negativamente la percezione che il bambino ha di sé condizionando lo sviluppo di una sana autostima e senso di efficacia, fondamenta necessarie per crescere. Un passo successivo è far leva sui suoi punti di forza, guardandolo negli occhi e parlando con tono di voce dolce e moderato, sottolineando due elementi fondamentali del nostro bambino, , quali l’energia e la sua creatività.

Alfie Kohn sostiene che uno dei bisogni fondamentali del bambino è di essere amato in maniera incondizionata e di essere accettato anche quando combina guai o fallisce. I sistemi educativi attualmente ancora in uso quali punizioni, castighi, premi e altre forme di controllo inducono invece i nostri figli a credere di essere amati solo se ci compiacciono o ci colpiscono in modo favorevole e che hanno come unico effetto quello di far sentire il bambino sbagliato come persona. L’obiettivo invece è porre il genitore a riflettere su quali sono i bisogni dei nostri figli e come possiamo soddisfare tali bisogni, base solida da cui partire in un clima di alleanza e cooperazione. Perché educare è l’atto creativo per eccellenza, è portare rispetto, amore, ricerca comune dei valori nei rapporti tra due persone. E’ far venire fuori da lui cio’ che e’ dentro di lui. In altri termini, vuol dire aiutare qualcuno ad esprimere se stesso, ad essere quello che e’, a comportarsi seguendo la sua personalita’. Educare alla creatività è un atto d’ amore e noi come genitori possiamo fare molto, perchè:

Tutti i bambini sono degli artisti nati; il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi. (P. Picasso)”.

Cecilia Gioia

 

 

 

Le Crisi psicogene non Epilettiche (PNES)

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Immagine tratta dal web

Le crisi psicogene sono modificazioni episodiche del comportamento, caratterizzate dalla compromissione improvvisa e transitoria di funzioni motorie, sensitive, autonomiche, cognitive e/o emozionali, che mimano semeiologicamente una crisi epilettica ma che sono determinate da meccanismi psicologici e non da alterazioni dell’attività elettrica cerebrale (Lesser, 1996). Esse sono frequentemente osservate nei centri di epilessia, dove rappresentano approssimativamente il 20% dei pazienti giunti all’osservazione per crisi convulsive refrattarie alla terapia antiepilettica (Benbadis, 2000); un terzo dei pazienti presenta inoltre episodi prolungati ricorrenti che mimano uno stato epilettico (Reuber, 2003), associati ad aumento di morbilità e mortalità (Reuber, 2004), legati a inappropriati interventi di emergenza e al ricovero in terapia intensiva (Howell, 1989; Gunatilake, 1997). La prevalenza stimata nella popolazione generale è tra il 2 ed il 33/100000 individui, una frequenza pari a disturbi quali la sclerosi multipla e la nevralgia del trigemino (Benbadis, 2000). L’acronimo PNES (Psychogenic Non Epileptic Seizures) è usato in letteratura per descrivere queste manifestazioni parossistiche, che tipicamente insorgono nella seconda o terza decade di vita e colpiscono le donne da 3 a 4 volte di più rispetto agli uomini (Lesser, 1996). Tuttavia esistono casi di PNES con esordio prima della pubertà (Bathia, 2005) e sopra i 70 anni (Duncan, 2006), nei quali non sono riscontrate differenze di sesso.

Diagnosi

La diagnosi di PNES può essere sospettata con buon valore predittivo in base alla storia clinica e alle caratteristiche semeiologiche degli episodi, ma deve essere confermata successivamente attraverso una registrazione video-elettroencefalografica (V-EEG) prolungata, che rappresenta il gold standard per l’identificazione di questo tipo di crisi (Schachter, 2010). La resistenza ai farmaci antiepilettici, un’alta frequenza di eventi, la ricorrenza di episodi prolungati per oltre trenta minuti, il manifestarsi delle crisi in particolari circostanze (ad esempio in presenza del medico o in sala d’attesa), una storia di sintomi fisici inspiegati quali fibromialgia o dolore cronico (Benbadis, 2005), di trattamenti psichiatrici oppure di abuso fisico e sessuale sono tutti elementi anamnestici clinicamente utili per sollevare il sospetto di crisi psicogene piuttosto che epilettiche (Reuber, 2003). Sebbene nessuna caratteristica considerata singolarmente può essere ritenuta patognomonica di PNES, alcuni elementi semeiologici altamente sospetti sono: l’esordio graduale, la durata superiore a due minuti, l’assenza di confusione postcritica, un’attività motoria irregolare o asincrona comprendente movimenti laterali della testa, posture opistotoniche (Meierkord, 1991; O’Sullivan, 2007), movimenti pelvici ritmici (Geyer, 2000), il farfugliamento (Vossler, 2004) ed il pianto (Bergen, 1993). La chiusura degli occhi, soprattutto quando prolungata e resistente a tentativi di apertura forzata da parte dell’esaminatore, è un segno specifico di PNES (Chung, 2006); al contrario l’incontinenza urinaria e la morsicatura della lingua si verificano tanto nelle crisi epilettiche quanto nelle PNES, pertanto non sono discriminanti (de Timary, 2002). Il monitoraggio v-EEG nella maggior parte dei casi consente di dimostrare l’assenza di alterazioni epilettiformi durante l’evento clinico e quindi di definire con certezza la diagnosi di PNES. Tale esame può risultare negativo anche nelle crisi epilettiche parziali semplici ed in alcune crisi parziali complesse, in particolare quelle che hanno origine nel lobo frontale (Bathia, 1997), o può non essere interpretabile a causa di eccessivi artefatti da movimento (Schachter, 2010). In questi casi, la presenza di suggestione testimoniata dalla positività al test d’induzione (un’iniezione di soluzione salina o l’apposizione di batuffoli imbevuti di alcool sulla regione cervicale per provocare la crisi) (Bazil, 1994) può slatentizzare l’etiologia psicogena dell’episodio. Un altro test per valutare una crisi psicogena anche se con una bassa sensibilità e specificità è il dosaggio sierico postictale di prolattina, infatti i livelli dell’ormone misurati a 20 minuti dall’episodio sospetto risultano aumentati nelle crisi generalizzate tonico-cloniche e nelle crisi parziali complesse; ciò però non si verifica nelle crisi del lobo frontale e nello stato di male epilettico (Bauer, 1996). Tuttavia, nonostante l’attenzione rivolta negli anni recenti, la distinzione delle PNES dalle crisi epilettiche resta un quesito di difficile soluzione nella pratica clinica come testimoniato dal tempo di latenza media tra la prima manifestazione e la diagnosi che è di circa 8 anni e dal fatto che la quasi totalità dei pazienti è trattata inizialmente con antiepilettici (Reuber, 2002), nonostante la coesistenza delle due patologie sia riportata solo nel 10% dei casi (Benbadis, 2001). La presenza di alterazioni intercritiche dell’EEG riscontrata nei pazienti con PNES può contribuire al ritardo diagnostico ed ad una diagnosi errata (Reuber, 2002); tali alterazioni se isolate non devono essere considerate supportive di una diagnosi di epilessia.

Aspetti Psichiatrici e Neuropsicologici                                                     

Una diagnosi non corretta, oltre ad aumentare i costi sanitari e sociali, ha serie ripercussioni sulla qualità della vita dei pazienti, che sono esposti a danni iatrogeni dovuti all’uso di farmaci non necessari (effetti collaterali ma anche teratogeni, non irrilevanti se si considera che la maggioranza dei pazienti con PNES sono donne in età fertile), a difficoltà di occupazione, restrizioni di guida ed a ritardi nella valutazione e nel trattamento della psicopatologia sottostante e/o associata, con conseguente peggioramento della prognosi (Chung, 2006; Szaflarski, 2003). I pazienti con crisi psicogene, infatti, mostrano una maggiore prevalenza di deficit neuropsicologici (perdita di memoria a breve termine e di capacità attentive) e patologie psichiatriche superiori rispetto alla popolazione generale. Tra le patologie psichiatriche più evidenti sono stati riportati disturbi depressivi, d’ansia (soprattutto disturbo post-traumatico da stress) e di personalità (in particolare borderline), il cui mancato riconoscimento e trattamento contribuisce alla persistenza delle PNES dopo la diagnosi ed al peggioramento della qualità della vita. La discussione circa la caratterizzazione delle crisi psicogene come un disturbo primariamente somatoforme o dissociativo è dibattuta e ben esemplificata dalla discordanza classificativa nei due maggiori sistemi nosografici psichiatrici, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV-TR) e la Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-10), che collocano le PNES in capitoli distinti. Il DSM-IV-TR include le crisi psicogene nei disturbi da conversione (American Psychiatric Association, 2000), nell’ambito dei disturbi somatoformi, forme cliniche nelle quali un disordine mentale è espresso in modo esclusivo e/o prevalente attraverso sintomi fisici. Nella conversione i sintomi neurologici non sono dovuti a una lesione organica cerebrale ma vengono prodotti inconsciamente dal paziente e scatenati o esacerbati da particolari fattori stressanti; essi costituiscono la rappresentazione concreta di pulsioni ed istinti rimossi e resi inconsci perché incompatibili con la coscienza dell’individuo. Attraverso la somatizzazione il soggetto si libera dal conflitto ed allo stesso tempo lo soddisfa metaforicamente trasferendolo sul corpo (Invernizzi, 2006). Nei pazienti con PNES l’entità della somatizzazione risulta correlata alla severità delle crisi ed alla prognosi (Reuber, 2003). Al contrario l’ICD 10 classifica le PNES nell’ambito dei disturbi dissociativi (Who, 1992), riprendendo il concetto di dissociazione proposto da Janet per indicare l’isolamento dalla coscienza di una serie di idee come meccanismo difensivo nei confronti di eventi traumatici reali, quali per esempio abusi sessuali o maltrattamenti, soprattutto nell’infanzia (Invernizzi, 2006), che in effetti sono dati anamnestici spesso presenti nella storia di questi pazienti con una frequenza superiore a quella rilevata nella popolazione generale (Duncan, 2008). Ovviamente, data la produzione inconscia dei sintomi alla base sia della somatizzazione sia della dissociazione, le crisi psicogene devono essere distinte tanto dai disturbi fittizi quanto da quelli di simulazione. Nei primi, il soggetto produce intenzionalmente i sintomi per il bisogno psicologico di assumere il ruolo del malato, come nella sindrome di Munchausen che ne costituisce la variante più grave; nei secondi, che diversamente non costituiscono un disordine psichiatrico, i sintomi sono prodotti volontariamente per ottenere un vantaggio materiale, per esempio l’acquisizione di droghe o un risarcimento per invalidità. (Schachter, 2010).

Le basi Neurobiologiche/Neurofisiologiche                                                         

Nonostante l’attenzione rivolta principalmente a fattori psicologici quali base fisiopatologica delle PNES, l’ipotesi di un possibile contributo organico allo sviluppo delle crisi psicogene e di altri sintomi somatoformi è ipotizzata da alcuni anni se non dallo stesso Charcot oltre cento anni fa. Alcuni studi hanno dimostrato una prevalenza inaspettatamente alta di alterazioni elettroencefalografiche, deficit neuropsicologici (Schachter, 2010) ed anormalità cerebrali (Reuber, 2002) nei pazienti con PNES. Inoltre le PNES possono manifestarsi dopo interventi neurochirurgici, in genere entro un mese, effettuati anche per indicazioni diverse dal controllo di crisi epilettiche refrattarie alla terapia medica; il rischio è più alto nei pazienti con storia di problemi psichiatrici precedenti l’intervento e con maggiori complicazioni chirurgiche (Reuber, 2002). Molti pazienti con PNES riportano in anamnesi un trauma cranico antecedente lo sviluppo delle crisi; questi casi sono spesso diagnosticati erroneamente come epilessia post-traumatica; tuttavia le PNES post-traumatiche hanno caratteristiche che ne permettono una differenziazione, infatti il trauma cranico è generalmente di lieve entità, la maggioranza dei soggetti sono donne, la semeiologia è tipo crisi parziali complesse e sono più frequenti gli episodi di stato di male psicogeno (Barry, 1998). Attualmente, il contributo di tecniche di neuroimaging funzionale ha messo in discussione l’origine psicologica e psicodinamica dei disturbi conversivi fornendo dati preliminari circa un possibile coinvolgimento delle regioni limbiche e della corteccia sensori-motoria e ponendo le basi per l’ipotesi di un modello patogenetico di tipo neurobiologico (Montoya, 2006). In particolare, studi di neuroimaging hanno rivelato riduzioni selettive nell’attività dei circuiti frontali e subcorticali coinvolti nel controllo motorio durante paralisi conversiva, della corteccia somatosensitiva nell’anestesia e della corteccia visiva nella cecità di origine psicogena (Vuilleumier, 2005). Nella paralisi di origine psicogena la modulazione dell’attività dei gangli della base e del sistema talamocorticale responsabile dell’inibizione motoria potrebbe essere provocata da diversi fattori stressanti attraverso gli input limbici dall’amigdala e dalla corteccia orbito frontale, che mostrano un’iperattivazione; inoltre sia il talamo sia i gangli della base risultano implicati nell’integrazione sensoriale e nell’elaborazione del dolore (Vuilleumier, 2001). Tuttavia questi studi sono inficiati sia dalla grande eterogeneità del campione esaminato, sia dall’attenzione rivolta prevalentemente a sintomi negativi, quali la paralisi e l’anestesia. Sulla base di queste conoscenze ed essendo le crisi psicogene assimilabili ai disturbi da conversione lo scopo del nostro studio sperimentale è stato quello di verificare l’esistenza di anormalità cerebrali nei pazienti con crisi psicogene, combinando due distinte tecniche di risonanza magnetica cerebrale avanzate quali la Voxel-Based-Morphometry (VBM) e la misurazione dello spessore corticale. Il nostro obiettivo era quella di trovare risultati sovrapponibili attraverso due tecniche diverse in modo da rafforzare il nostro risultato. La VBM è una tecnica di RM completamente automatizzata e sensibile in grado di identificare differenze minime di densità della sostanza grigia e bianca del cervello, non altrimenti rilevabili con metodiche convenzionali, in gruppi di soggetti attraverso il confronto con individui normali senza nessuna ipotesi aprioristica, contrariamente alle metodiche precedenti che restringono l’analisi a specifiche regioni di interesse (Ashburner, 2000). L’analisi dello spessore corticale, metodica validata su studi post-mortem in pazienti affetti da Corea di Huntington, fornisce un ulteriore strumento per quantificare la riduzione dello spessore di aree di corteccia che risultano atrofiche (Fischl, 2000). La dimostrazione di specifici correlati neuroanatomici nei pazienti con PNES, oltre a fare luce nella comprensione di un disturbo tanto complesso, potrebbe contribuire a migliorare sia la diagnosi che la terapia delle crisi psicogene.

M. Cecilia Gioia, Phd

 

*Tratto dalla mia tesi di Dottorato in Psicologia della Programmazione e Intelligenza Artificiale dal titolo: Correlati neuroanatomici in pazienti affetti da Crisi Psicogene non Epilettiche: uno studio di neuroimaging strutturale.

Il disturbo bipolare.

disturbo-bipolare-oltre-la-fase-criticaIl disturbo bipolare. Che cos’è?

È un disordine che può interferire con il lavoro e le relazioni interpersonali in modo rilevante ed è caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore, con alternarsi di episodi maniacali e depressivi e spesso si traduce in uno stravolgimento della vita quotidiana. Rientra nei disturbi dell’umore e si caratterizza per gravi alterazioni delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti.

Secondo il DSM 5 il disturbo bipolare può essere distinto in:

Disturbo bipolare I – La caratteristica principale è la presenza di almeno un episodio di Mania o Misto e di un episodio Depressivo. La durata dei singoli episodi si mantiene costante mentre diminuisce quella tra uno e l’altro nel tempo.

Disturbo bipolare II –È caratterizzato da Episodi Ipomaniacali e mancata interferenza con la vita quotidiana a livello di funzionamento sociale o lavorativo. Sono assenti l’ospedalizzazione e i sintomi psicotici.

Disturbo ciclotimico – È caratterizzato da un alto grado di malfunzionamento sociale e lavorativo per via del continuo alternarsi di periodi Ipomaniacali e sintomi Depressivi.

Come si manifesta?

Questo disturbo è caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore, delle emozioni e dei comportamenti, il tutto con una durata piuttosto variabile. Questi sbalzi d’umore sono caratterizzati dall’alternarsi di Episodi Maniacali/Ipomaniacali ed Episodi Depressivi, motivo per cui questa patologia è definita Bipolare.

Quali sono le cause?

Il primo episodio maniacale – depressivo di solito si verifica in età adolescenziale o nella prima età adulta. Molto spesso, i soggetti che soffrono di bipolarismo hanno avuto episodi simili in famiglia (fattori genetici). I geni però non sono l’unica causa. Il cervello dei pazienti colpiti mostrano mutamenti fisici nel loro cervello (dati emersi da studi di brain imaging) oppure squilibri nei neurotrasmettitori, nel funzionamento della tiroide e nei ritmi circadiani. In particolare, sono emersi livelli molto alti di cortisolo, quello che viene chiamato ormone dello stress (fattori biochimici). Anche i fattori ambientali e psicologici sono certamente coinvolti nello sviluppo del disturbo. Questi fattori vengono chiamati triggers e possono peggiorare sintomi preesistenti o scatenare nuovi episodi di mania o depressione (fattori psicologici e ambientali).

Quali i fattori di rischio se ci sono?

Distinguiamo tra i fattori di rischio gli eventi di vita stressanti. Questi eventi tipicamente comprendono cambiamenti improvvisi positivi o negativi come il matrimonio, l’allontanarsi da casa per lavoro o studio, rotture sentimentali, licenziamenti possono scatenare un disturbo bipolare in alcune persone con vulnerabilità genetica. Seguono l’abuso di sostanze che può scatenare un episodio in chi ne è già affetto o peggiorare il decorso della patologia. Droghe come la cocaina, l’ecstasy e le amfetamine possono causare episodi di mania, mentre l’alcool e i tranquillanti episodi di depressione. Anche i farmaci, in particolare gli antidepressivi possono scatenare episodi di mania. Sono potenzialmente pericolosi anche i soppressori della fame, la caffeina, i corticosteroidi e i farmaci tiroidei. Spesso gli episodi di mania o depressione si verificano in concomitanza con i cambiamenti stagionali. Gli episodi di mania sono tipici durante l’estate, mentre gli episodi depressivi durante l’autunno, l’inverno e la primavera. Infine la deprivazione di sonno, anche se minima come perdere qualche ora di sonno, può scatenare un episodio di mania.

Come si cura?

Vivere con una depressione bipolare non trattata può condizionare in maniera significativa in tutti i settori della vita, dal lavoro, alle relazioni, alla salute. E’ fondamentale avere una diagnosi precoce del problema e intraprendere il trattamento più efficace. Il disturbo bipolare è una patologia complessa, ecco perché la diagnosi può non essere così immediata e il trattamento è a lungo termine. Per ragioni di sicurezza l’assunzione dei farmaci deve essere costantemente monitorata da professionisti competenti. Un trattamento che combini insieme farmacoterapia e il trattamento psicoterapeutico è ottimale per il controllo e la stabilizzazione del disturbo nel tempo. Il trattamento psicoterapico nasce, in particolare, per affrontare i problemi di mancanza di collaborazione del paziente e migliorare la compliance.

Chi è affetto da questo disturbo può essere pericoloso per se e per gli altri?

Come abbiamo già detto il disturbo bipolare è caratterizzato dall’alternanza di uno stato depressivo e di uno maniacale (o ipomaniacale); quando c’è una compresenza di sintomi depressivi e sintomi maniacali, con il predominio di irritabilità, ansia e irrequietezza, si può presentare invece, lo stato misto. Non bisogna, però, confondere quelli che comunemente sono definiti “up e down” dell’umore, che ognuno di noi può avere nel corso della propria vita quotidiana, con le manifestazioni severe del disturbo bipolare, che possono, invece, rovinare i rapporti interpersonali, causare la perdita del lavoro e, in casi estremi, esitare in comportamenti suicidari. E’ importante ricordare che avere un disturbo bipolare non è di per sé più o meno grave che soffrire di altre patologie croniche, come l’asma o il diabete e che nella maggior parte dei casi il disturbo può essere trattato in maniera efficace grazie ad una terapia combinata adeguata.

Come comportarsi con chi ne soffre.

Aiutare chi ne soffre, soprattutto se si tratta di un familiare o di una persona cara, non è sempre facile e richiede molta pazienza. Questi suggerimenti derivano dalla esperienza diretta con questi pazienti, sia da quella dei loro familiari. E’estremamente utile:

  • Aumentare la propria conoscenza del disturbo bipolare
  • Incoraggiare nel seguire le cure secondo le prescrizioni
  • Aiutare a mantenere uno stile di vita regolare
  • Prevenire le ricadute
  • Favorire il rapporto con lo psichiatra e lo psicoterapeuta

 

M. Cecilia Gioia Phd, psicologa, psicoterapeuta

 

 

I pensieri di una psicoterapeuta.

4Credo fermamente che il miglior modo di onorare una notte d’estate dall’aria rarefatta e sospesa, sia scrivere pensieri ribelli dall’ apnea densa e faticosa. E allora scrivo. E accolgo pensieri. Scrivo di storie di donne e di uomini che quotidianamente ascolto grazie al mio lavoro, raccolgo emozioni di vite vissute, sostengo fatiche di un quotidiano viversi, riunisco parti di Sé in frammenti. In una parola ASCOLTO (dentro), lasciando scorrere tutto questo attraverso un sistema osmotico di pieni e vuoti che solo anni di pratica clinica insegnano e consolidano in un quotidiano ripetersi di rituali per accogliere ed accogliersi.

Perché è facile entrare nella relazione d’aiuto, ci gratifica sollecitando parti di un Sé affamato di riconoscimento, il difficile è rimanerci imparando a staccarsi, in un quotidiano arrivederci, mentre la terapia scorre, accoglie, raccoglie e guarisce storie quotidiane di un faticoso viversi.

Il difficile è accettare quella traccia che ogni paziente lascia in noi ogni giorno, tracce spesso doloroso, silenziosi segni che incidono la nostra psiche e la nostra storia. Il difficile è lasciarsi andare, mescolarsi, accettare senza perdersi, senza perdere mai di vista l’unico obiettivo della relazione terapeutica: la guarigione psichica della Persona che ci ha scelto. Ogni incontro è un movimento rotatorio, spesso veloce, altre volte lento, dove due sostanze diverse si mescolano per alcuni momenti ritornando ognuna al proprio posto, quando la forza terapeutica del setting smette di “centrifugare” emozioni e storie. Un pò come l’acqua e l’olio, sostanze dalla natura diversa, ma capaci di convivere nello stesso spazio che contiene differenze e confini, formando per pochi attimi una miscela empatica per poi dividersi in due strati separati ma complici. Ecco, io immagino ogni incontro terapeutico così, raccogliendo a fine giornata tutto questo, integrandolo nella mia storia di donna, di madre e di psicoterapeuta, imparando da ogni incontro l’importanza di sentirsi amati e accuditi, sin dal preconcepimento.

E parto proprio da lì, dal racconto del loro parto, perché è dentro l’utero materno che noi psicoterapeuti riusciamo ad iniziare la Persona alla narrazione di sé. Perché nel modo di venire al mondo c’è una fonte inesauribile di storie, vissuti, letture, schemi che si ripetono nel quotidiano viversi in una coazione spesso dolorosa, dai significati misteriosi che aspetta solo di essere ascoltata e restituita in una rilettura che libera da meccanismi disfunzionali e affaticati. Perché accettare di lavorare su memorie remote, significa mescolarsi, sentirsi, riconoscersi e distaccarsi, riportando la narrazione in un qui ed ora denso di sintomi e di sofferenza psichica. Significa viaggiare nel tempo, senza mai disorientarsi, raccogliendo i rischi dell’ignoto, mentre la Persona svela parti di Sé mai raccontate. Significa accettare, anche le parti scomode, quelle che non avremmo mai voluto sentire ma che appartengono alla Persona che ci ha scelto. Significa accompagnare, lenire, asciugare lacrime e guarire da una sofferenza psichica la/il protagonista della storia ascoltata. Significa lasciarla/o andare in un addio che sugella un patto indissolubile, fatto di rispetto e di confini.

Ecco cosa significa per me, ogni giorno, il mio lavoro.

Si chiama Psicoterapia, si pronuncia Passione.

Cecilia Gioia

 

L’ignoranza emotiva.

lignoranzaTroppo spesso leggiamo articoli o libri che presentano l’intelligenza emotiva come la chiave di adattamento funzionale alla vita e ai suoi imprevisti. Una fitta rete di parole che descrive questo tipo di intelligenza, evidenziando le competenze individuali e sociali affinché ci sia equilibrio tra cuore e il cervello. Un paradosso solo apparente che invece sottolinea quanto sia necessario favorire l’espressione di tale intelligenza considerandola una funzione adattiva e protettiva della Persona. Essere emotivamente competenti significa conoscere consapevolmente le proprie emozioni, la loro intensità e l’effetto che provocano in se stess* e sugli altri.

Al contrario ahimè, il guardarmi intorno mi evidenzia quotidianamente un fenomeno sempre più evidente che coinvolge davvero tutt* e che si identifica come ignoranza emotiva. A livello semantico la parola lascia ben poco spazio all’immaginazione, perché ben chiara e definita. Simbolicamente parlando immagino l’ignoranza emotiva come una vera e propria lacuna della psiche dove è difficile sintonizzarsi e riconoscersi nelle proprie emozioni e in quelle altrui e dove è facile perdersi in un Io poco nutrito della linfa vitale emotiva, necessaria per la nostra sopravvivenza.

Ma come si promuove l’ignoranza emotiva?

Le emozioni sono una serie di cambiamenti che si registrano nel nostro corpo, nei nostri pensieri e nei nostri comportamenti che la Persona utilizza in risposta ad un evento. Possiamo definire le emozioni come un’esperienza intensa e passeggera che ci permette di entrare in contatto con gli altri, favorendo o ostacolando l’apprendimento. Alcune sono innate e definite primarie, altre nascono dalla combinazione delle emozioni primarie sviluppandosi grazie alla crescita della Persona e alle sue interazioni con l’ambiente. A dirla tutta le emozioni sono la nostra bussola, elemento fondamentale per orientarci nel mondo delle relazioni e degli eventi. Ma ritorniamo all’ignoranza emotiva e al suo dilagare incessante in un mondo sempre più distratto.

Troppe volte mi scontro con parole come CONTROLLO e GESTIONE, sostantivi claustrofobici che poco si sposano con tutto ciò che è fluido ed evolutivo.

Perché le emozioni non si gestiscono, né si controllano e ancor meno si combattono. Perché fare questo vuol dire rinnegarne il significato più profondo, dimenticando la via elettiva per sfruttare al meglio il loro valore nella nostra vita.

Perché le emozioni si accolgono, si ascoltano e si riconoscono, in un esercizio quotidiano e costante che genera adattamento e consapevolezza.

Perché ogni qualvolta snaturiamo l’essenza più profonda delle emozioni, diventiamo sempre più ignoranti emotivamente. Perché è difficile comprendere se non ascolto. E non riconosco.

Perché l’intelligenza emotiva è un’abilità, e come tale va esercitata, ogni giorno.

Perché è facile parlare di emozioni, ignorandone il loro vero significato.

Perché parlare (correttamente) di emozioni, sin dal preconcepimento, vuol dire promuovere salute psicologica. E come psicolog* noi sappiamo bene che le parole sono importanti.

Cecilia Gioia

 

Anatomia del setting psicoterapeutico.

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Luogo davvero intimo e prezioso, fatto di segni e di significati, il setting terapeutico si presenta agli occhi della Persona che decide di intraprendere un percorso di psicoterapia, con le sue caratteristiche squisitamente individuali. Il termine setting deriva dal verbo inglese “to set” che significa delimitare, ma costituisce anche un sostantivo di per sé col significato essenzialmente di “cornice”. Una cornice davvero unica, dove possono liberamente esprimersi le storie terapeutiche, attraverso una narrazione costellata di simboli e ricordi. Un vero e proprio palcoscenico dove drammatizzare le proprie emozioni, dove sentirsi comod* di raccontarsi e prendersi cura del proprio dolore psichico. Un luogo dell’attesa, dove ogni elemento fisico e astratto racconta un significato, dove nessuna scelta è casuale ma funzionale, per “accogliere” e “contenere” e dove ogni psicoterapeuta racconta la sua esperienza come Persona. Che luogo incredibile, sembra quasi di “camminare dentro” le sfumature della personalità di chi accoglie e aspetta ora dopo ora le storie delle Persone, in una ciclicità di un tempo che ascolta e cura.

Perchè il setting terapeutico, il mio setting, è fatto di me e delle tracce che ogni Persona che ha scelto di “abitare” per un periodo questo spazio, ha lasciato. Piccole ma indelebili briciole che creano un continuum fatto di inizi, percorsi e saluti, dove ogni storia si è fatta spazio e a preso forma accomodandosi nella poltrona bianca.

Si inizia sempre così, timidamente ci si siede, provando ad esplorare con lo sguardo lembi di uno spazio sconosciuto. Quanto dolore negli occhi di chi si siede per la prima volta su quella poltrona e quanto stupore quando io mi siedo di fronte, eliminando quindi dal campo visivo, limiti o barriere fisiche o astratte. Si inizia sempre così, ci si scruta negli occhi, si prova a sostare negli angoli, in quegli angoli in cui per troppo tempo la psiche è stata costretta. La luce soffusa poi, la poltrona che avvolge e il non verbale che accoglie rende tutto più fluido. La schiena da rigida si appoggia allo schienale della poltrona, il tremolio della voce si riduce, le mani si aprono, lo sguardo si estende e la narrazione prende spazio. Uno spazio e un tempo rotondo che contiene, assimila, restituisce, respira. E cura, attraverso atti psicoterapeutici lavorando sulle risorse della Persona e sulla Relazione, ricucendo strappi di storia e rileggendo i ricordi, radici su cui fondiamo il nostro presente e il nostro futuro.

Il mio setting è fatto di me, di una scrivania che quotidianamente si arricchisce di tracce, di libri (tanti) e di appunti. Di penne che spesso faticano a scrivere, di post-it dai colori improbabili, di disegni dei figli e da una ciotola di caramelle spesso rifocillata anche dalle Persone che abitano settimanalmente il setting e che lasciano dolci tracce per le Persone che verranno nelle ore successive. Vedo in questo atto un gesto di grande alleanza e consapevolezza, di chi sa di coabitare questo spazio prendendosene cura per sé stess* e per le altre Persone; attraverso il gesto del lasciare non solo la sua storia e la sua sofferenza di vita, ma anche piccole dolcezze, l’essenza del dono prende forma, tra sconosciuti ignari ma consapevoli che un filo invisibile li lega, il desiderio di stare bene.

Sono grata al mio setting, ogni giorno e oggi, come sempre, voglio celebrarlo.

Cecilia Gioia

Quando Narciso si riflette.

Michelangelo_Merisi_da_Caravaggio_-_Narcissus_-_WGA04109Il narcisismo è un tratto di personalità presente in ognuno di noi e utilizzato come difesa del proprio sé. In psicologia evolutiva il narcisismo è inteso come avere una prospettiva centrata su di sé, strategia naturale che permette al bambino di esprimere dolore fisico e disagio emotivo, soprattutto quando non ha ancora acquisito l’utilizzo del linguaggio. La capacità di riconoscere ed esprimere i propri bisogni piangendo, gli permette di ottenere l’accudimento necessario per sopravvivere. Alla luce di questo il narcisismo sano permette lo sviluppo di un attaccamento sicuro, sostenuto da una capacità adattiva di entrare in relazione con gli altri mantenendo la giusta distanza.

Questo permette lo sviluppo di una serie di caratteristiche di personalità che ben si identificano in una persona assertiva, capace di raggiungere un certo livello di successi e riconoscimento dagli altri, con specifiche competenze empatiche che facilitano relazioni efficaci e soddisfacenti.

La differenza tra il narcisismo sano e quello patologico è evidenziata dalla completa mancanza di empatia e la tendenza a reagire difensivamente quando la persona sente di ricevere una potenziale ferita al proprio valore.

Questa modalità reattiva si caratterizza nel Sottotipo Overt da un senso di superiorità e disprezzo, attraverso il non riconoscimento delle proprie azioni, una elevata autostima, una bassa tolleranza alle critiche, ossessione per il successo, necessità di dominare o comandare, mancanza di empatia. Viceversa nel Sottotipo Covert è evidente l’evitamento del confronto con l’altro percepito come spaventante, introversione, vulnerabilità, alta sensibilità ai giudizi e alle critiche, svalutazione di sé e idealizzazione degli altri. I narcisisti overt sono grandiosi e arroganti per riuscire a nascondere l’insicurezza e la depressione. Al contrario i covert sono insicuri e timidi per nascondere il nucleo grandioso.

Spesso i due sottotipi coesistono, ma molti narcisisti mostrano in maniera più evidente uno dei due sottotipi.

Il DSM 5 (il testo di riferimento per gli psicologi e psichiatri di tutto il mondo) presenta il Disturbo Narcisistico di Personalità come un quadro pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:

1) ha un senso grandioso di importanza (per es., esagera risultati e talenti, si aspetta di essere notato come superiore senza una adeguata motivazione);

2) è assorbito da fantasie di illimitati successo, potere, fascino, bellezza, e di amore ideale;

3) crede di essere “speciale” e unico, e di dover frequentare e poter essere capito solo da altre persone (o istituzioni) speciali o di classe elevata;

4) richiede eccessiva ammirazione;

5) ha la sensazione che tutto gli sia dovuto,   cioè,   la   irragionevole   aspettativa   di   trattamenti   di   favore   o   di soddisfazione   immediata   delle   proprie   aspettative;

6)   sfruttamento interpersonale, cioè, si approfitta degli altri per i propri scopi;

7) manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri;

8) è spesso invidioso degli altri, o crede che gli altri lo invidino;

9) mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e presuntuosi.

Un ulteriore elemento diagnostico è l’abuso di sostanze (es. tabacco, alcol, cocaina), che rappresenta un tentativo disfunzionale di curare l’irrequietezza e il mal di vivere, tipici di questa patologia.

Solitamente il narcisista patologico nella prima infanzia non ha ricevuto un accudimento adeguato perché figlio di genitori anaffettivi o passivo aggressivi. Ecco perché ha sviluppato, come difesa da questa situazione, una percezione grandiosa di sé, organizzando la propria vita facendo a meno dell’amore degli altri e non richiedendo il loro sostegno. Non riconoscere i propri bisogni sviluppa nel narcisista un atteggiamento di distacco e di superiorità ma allo stesso tempo di continua lotta per ricevere attenzione e ammirazione dagli altri.

Spesso le persone con disturbo narcisistico di personalità intraprendono un trattamento di psicoterapia quando sviluppano stati depressivi generati dalla percezione di una profonda discrepanza tra le aspettative idealizzate e la realtà. Tale condizione produce un senso di disperazione, stati d’ansia, depressione, altri quadri sintomatologici o problematiche comportamentali che inducono il narcisista a richiedere un trattamento psicoterapeutico, eventualmente associato a terapia farmacologica. I sintomi di ansia e depressione e altri sintomi emotivi costituiscono il primo obiettivo del trattamento. In particolare, la terapia cognitivo comportamentale identifica le modalità di pensiero disfunzionali sostituendole con altre più adattive. Nello specifico si lavora sulla ristrutturazione cognitiva per limitare nella persona narcisista il “pensiero tutto o nulla” che consiste nel considerarsi o meravigliosamente superiori o completamente senza valore sostituendole con convinzioni alternative e realistiche. La terapia è generalmente a lungo termine date le difficoltà a modificare tratti così radicati e permette di aiutare i pazienti a entrare in contatto con i propri bisogni emotivi, insegnando loro modalità adattive per soddisfarli.

M. Cecilia Gioia

Bibliografia

  • American Psychiatric Association (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta editione. DSM-5. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Kernberg, O. F. (1998). Pathological narcissism and narcissistic personality disorder: Theoretical backgroundand diagnostic classification. In E. Ronningstam (Ed.), Disorders of narcissism: Diagnostic, clinical,and empirical implications (pp. 29−51). Washington DC: American Psychiatric Press
  • Wink, P. (1991). Two faces of narcissism. Journal of Personality and Social Psychology, 61, 590-597.

 

Copyrights – 2017 Amigdala Studio di Psicoterapia by M. Cecilia Gioia

 

Raccoglistorie.

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Quando incontri una storia speciale, te ne accorgi subito. L’aria si sospende, il battito rallenta, lo sguarda prova ad andare oltre e si sincronizza anche il respiro. Quando ascolto una storia di vita i miei sensi si amplificano, mentre contemplo un qui ed ora che raccoglie l’infinito dono dell’esserci davvero. E quindi annuso, raccolgo, accarezzo, studio parole che scorrono in uno spazio amniotico come il setting psicoterapeutico. Perchè in quell’incontro si racchiude tutto, la paura, il coraggio, le incertezze, la voglia di scappare mista ad uno sguardo che racconta un’unica domanda: “potrai prenderti cura della mia storia?“. E quindi aspetto, annuisco, invito, respiro e mi ascolto per ascoltare fino all’ultima briciola di una narrazione finalmente libera di raccontarsi. Fare psicoterapia significa quotidianamente accogliere doni per condividerli poi nel setting attraverso una rilettura che dona significati e significanti, mentre la vita scorre attraverso immagini che prendono forma e colore. Suoni ed emozioni.

Quasi come una storia fatta di silenzi, di respiri rumorosi, di braccia chiuse, di postura rigida e di sguardo perso nelle innumerevoli domande di una vita. O una storia rumorosa dove vomitare parole ed immagini sembra la via elettiva per raccontarsi e viversi, dove non ci sono pause, ma fiumi di suoni bulimicamente vissuti. O la storia intrecciata nei mille fili di dolore, dove la vita srotola dipendenza affettiva e ricerca di accettazione, mentre le mani narrano episodi e ferite. E violenza subite. C’è poi la storia dalla narrazione dissonante, dove le parole non si accordano alle emozioni mostrate, dove si sta un po’ scomodi, dove ci si prende un tempo per riflettere e decidere se accompagnarsi.

Storie di donne e uomini che decidono di raccontarsi, per dare vita ad un passato troppo spesso vissuto come spaventante, o ad un presente difficile da viversi.

Storie che quotidianamente ascolto e respiro, mentre la vita scorre e ride delle innumerevoli pieghe in cui è facile perdersi e difficile riconoscersi. Ed è proprio qui, in quello spazio che sospende il tempo, il setting, che si celebra la vita, onorandola di ascolto, accoglienza e cura, ogni giorno.

Dentro i giorni.

M. Cecilia Gioia

Copyrights – 2017 Amigdala Studio di Psicoterapia by M. Cecilia Gioia

L’arte di essere semplice.

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Immagine dal web

E’ dalle prime ore dell’alba che questo titolo ha iniziato a bussare nei miei pensieri e allora lo scrivo, lo riconosco e provo a dargli una forma, mentre sorrido alla mia tastiera attonita.

Partiamo dal significato della parola “semplice”, aggettivo troppo spesso utilizzato nel lessico comune dai connotati ampi e dalle riletture, spesso superficiali.

Cercando nel vocabolario emergono definizioni come non complicato, sincero, che è soltanto ciò che viene detto e null’altro, formato di un solo elemento, ma anche inesperto, ingenuo, che occupa un livello più basso di una gerarchia. Si passa quindi da un polo positivo ad uno negativo per spiegare etimologicamente questo aggettivo.

A me la parola “semplice” evoca “pulito”, “limpido”, “presente” e mi orienta verso emozioni positive e sensazioni corporee di benessere, insomma mi piace.

Perché in questo mondo stratificato dal bisogno di indossare maschere, la parola “semplice” diventa un piccolo faro che illumina e schiarisce le innumerevoli ruminazioni che spesso accompagnano la nostra vita.

Si, perchè “semplice” non fa rima con inutile, ridondante, giudicante, ruminante, ambivalente e come un panno morbido ripulisce, quotidianamente, concetti e cognizioni spesso rigide, rendendo tutto più accessibile. E accogliente.

Ma cosa significa “essere semplice”?

E soprattutto la semplicità è una qualità innata o si acquisisce?

Mi viene da pensare a tutte le volte in cui non ho preso in considerazione la possibilità di provare ad esserlo. E non parlo di una semplicità intesa come una modalità scarsamente profonda e meno intensa di viversi, parlo piuttosto di una abilità densa di “presenza”, “coerenza” e “autenticità” prima con sé stess* e poi con il resto dell’umanità che incontriamo nel nostro percorso di vita. Parlo di un’occasione per riconoscersi, accettarsi e amarsi senza filtri e remore, avviando un processo di autodeterminazione e consapevolezza, basi sicure per vivere.

E se ripenso a tutte quelle volte in cui non ho provato ad essere semplice, sento di essermi tradita, di non aver dato a me stessa l’opportunità di vivermi in pienezza, raccogliendo e amando tutte le parti di me.

Perché essere semplice è un’abilità che guarisce e che necessita impegno, esercizio e rimodellamento. Significa riconoscere i benefici psicofisici che immediatamente si manifestano godendo delle emozioni di saper stare dentro un qui ed ora, ricco di nutrienti.

Significa ascoltarsi, alleggerirsi e volersi bene, sugellando verso noi stess* una promessa di fedeltà, da rinnovare quotidianamente attraverso atti gentili e “semplici”.

Perché per me semplice va rima con vivere, ed io ne ho il diritto. Ogni giorno.

Cecilia Gioia

Copyrights – 2017 Amigdala Studio di Psicoterapia by M. Cecilia Gioia

 

Il (mio) significato della psicoterapia.

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Marc Chagall All’imbrunire, 1938-43

Credo fermamente che il miglior modo di onorare una notte d’estate dall’aria rarefatta e sospesa, sia scrivere pensieri ribelli dall’ apnea densa e faticosa.

E allora scrivo. E accolgo pensieri.

Scrivo di storie di donne e di uomini che quotidianamente ascolto grazie al mio lavoro, raccolgo emozioni di vite vissute, sostengo fatiche di un quotidiano viversi, riunisco parti di Sé in frammenti. In una parola ASCOLTO (dentro), lasciando scorrere tutto questo attraverso un sistema osmotico di pieni e vuoti che solo anni di pratica clinica insegnano e consolidano in un quotidiano ripetersi di rituali per accogliere ed accogliersi.

Perché è facile entrare nella relazione d’aiuto, ci gratifica sollecitando parti di un Sé affamato di riconoscimento, il difficile poi è rimanerci imparando a staccarsi, in un quotidiano arrivederci, mentre la terapia scorre, accoglie, raccoglie e guarisce storie quotidiane di un faticoso viversi.

Il difficile è accettare quella traccia che ogni paziente lascia in noi ogni giorno, tracce spesso dolorose, silenziosi segni che incidono la nostra psiche e la nostra storia. Il difficile è lasciarsi andare, mescolarsi, accettare senza perdersi, senza perdere mai di vista l’unico obiettivo della relazione terapeutica: la guarigione psichica della Persona che ci ha scelto. Ogni incontro è un movimento rotatorio, spesso veloce, altre volte lento, dove due sostanze diverse si mescolano per alcuni momenti ritornando ognuna al proprio posto, quando la forza terapeutica del setting smette di “centrifugare” emozioni e storie. Un pò come l’acqua e l’olio, sostanze dalla natura diversa, ma capaci di convivere nello stesso spazio che contiene differenze e confini, formando per pochi attimi una miscela empatica per poi dividersi in due strati separati ma complici. Ecco, io immagino ogni incontro terapeutico così, raccogliendo a fine giornata tutto questo, integrandolo nella mia storia di donna, di madre e di psicoterapeuta, imparando da ogni incontro l’importanza di sentirsi amati e accuditi, sin dal preconcepimento.

E parto proprio da lì, dal racconto del loro parto, perché è dentro l’utero materno che noi psicoterapeuti riusciamo ad iniziare la Persona alla narrazione di sé. Perché nel modo di venire al mondo c’è una fonte inesauribile di storie, vissuti, letture, schemi che si ripetono nel quotidiano viversi in una coazione spesso dolorosa, dai significati misteriosi che aspetta solo di essere ascoltata e restituita in una rilettura che libera da meccanismi disfunzionali e affaticati. Perché accettare di lavorare su memorie remote, significa mescolarsi, sentirsi, riconoscersi e distaccarsi, riportando la narrazione in un qui ed ora denso di sintomi e di sofferenza psichica. Significa viaggiare nel tempo, senza mai disorientarsi, raccogliendo i rischi dell’ignoto, mentre la Persona svela parti di Sé mai raccontate. Significa accettare, anche le parti scomode, quelle che non avremmo mai voluto sentire ma che appartengono alla Persona che ci ha scelto. Significa accompagnare, lenire, asciugare lacrime e guarire da una sofferenza psichica la/il protagonista della storia ascoltata. Significa lasciarla/o andare in un addio che sugella un patto indissolubile, fatto di rispetto e di confini.

Ecco cosa significa per me, ogni giorno, il mio lavoro.

Si chiama Psicoterapia, si pronuncia Passione.

Cecilia Gioia