Croce e delizia di un immaginario collettivo dove è facile perdersi in fantasie catastrofiche dense di lacrime e di chiusura. Si, perché troppo spesso si immaginano in questi gruppi momenti di pianti e rimpianti, spazi dove è difficile so-stare perché troppo pieni di tristezza, incontri che non permettono l’ascolto dell’altro perché troppo impegnati ad avvolgersi nelle proprie lacrime. Dolore che genera dolore, luoghi del ricordo che è meglio dimenticare, perché parlare “fa male”, condividere “non serve a nulla” e sul dolore vissuto “è meglio farsene una ragione e non parlarne più”. Come se fosse davvero così facile staccarsi dalla propria storia, far finta di nulla indossando il vestito più bello, fatto di negazioni o evitamenti. Strategie squisitamente umane, che non ci permettono di centrarci sulle nostre emozioni, ma di spostarci su altro, perché l’altro si può ascoltare, le emozioni, soprattutto quelle tristi, no.
Ed ecco che l’incontro con un altro ME diventa rischioso, da evitare perché ricco di ricordi tristi. Meglio non parlarne più, tanto a che serve?
Invece serve, nutre, ascolta, tesse relazioni, dona riconoscimenti, rende visibile ciò che spesso la società tende a non riconoscere, dona suoni a voci troppo spesso inascoltate, vista ad occhi offuscati dalle lacrime e tatto a mani che per troppo tempo non si sono sfiorate.
I gruppi di automutuoaiuto sono una risorsa che genera trasformazioni, abbracci, emozioni che danno vita, legami solidi, promesse di sorrisi, risate di scoperte, in un esercizio costante e coraggioso, fatto di ascolto e accettazione. E generano cambiamento sociale, attraverso azioni collettive, dove si consolida un’identità di gruppo forte in cui quotidianamente “ci si mette la faccia” come atto di appartenenza a chi ha deciso di fluidificare il dolore, troppo spesso cristallizzato, in un’opportunità per se stesso e per gli altri.
Bisogna essere davvero coraggiosi per decidere di far parte di un gruppo di automutuoaiuto: perché significa riconoscere ad ogni incontro la propria storia accogliendo l’altro, creando spazio, imparando il dono dell’ascolto che non giudica. E a stare, consapevolmente, nel silenzio.
Quel silenzio che cura, lenisce, rimbomba, reclama, ricorda. Accoglie. Sorride.
I gruppi di automutuoaiuto donano tutto questo e tanto altro. Basta avvicinarsi e scoprire un mondo fatto di relazioni che si prendono cura. Basta non averne paura.
Cecilia Gioia