Le differenze che nutrono.

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Educarmi alle differenze significa volermi bene.

Significa ascoltare i brontolii di pancia quando incontro l’altr* me, imparando ad andare oltre.

Significa attribuire significanti a significati, dando il giusto spazio alle persone e trovando con loro la giusta distanza, per conoscersi o riconoscersi.

Educarmi alle differenze rappresenta una delle mie più grandi conquiste da conquistare.

E’ un lavoro quotidiano e costante, ci si allena sempre per imparare a decodificare i segnali esterni, traducendoli in messaggi sostenibili.

E per rendere tutto questo concreto è necessario imparare a stare “dentro” gli incontri, anche quelli più scomodi, per coglierne le sfumature e favorire l’esplorazione.

E’ un lavoro coraggioso, implica grande curiosità e un buon dialogo interno con sé stess*.

E’ un lavoro raffinato, ci si sofferma sui dettagli alla continua ricerca di bellezza.

Perché c’è bellezza ovunque, basta allenare lo sguardo e la pelle*.

E la fiducia verso gli incontri che quotidianamente caratterizzano la nostra vita.

Perché si apprende sempre e ogni scenario che attraversiamo può trasformarsi in luoghi di apprendimento.

Gli sguardi poi approfondiscono, le emozioni consolidano, i contatti integrano.

Quante occasioni in ogni incontro, anche in quello meno atteso!

Educarmi alle differenze significa questo e molto altro, scoprirlo è il mio compito, ricordarlo a me stessa, la mia missione.

Cecilia Gioia

*La conduttanza cutanea misura un concetto spesso citato dalla psicologia, chiamato arousal ovvero una attivazione generale che ognuno di noi prova quando si trova di fronte ad una particolare situazione: ad esempio, una minaccia (sensazione di paura) oppure a una festa a sorpresa per il nostro compleanno (sensazione di sorpresa e gioia incontenibile).

Il dono: una storia zen.

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C’era una volta un anziano samurai che si dedicava a insegnare il buddismo zen a giovani allievi. Malgrado la sua età, correva la leggenda che fosse ancora capace di sconfiggere qualunque avversario.
Un pomeriggio si presentò un giovane guerriero conosciuto per la sua totale mancanza di scrupoli. Egli era famoso per l’uso della tecnica della provocazione: aspettava che l’avversario facesse la prima mossa e, dotato di una eccezionale intelligenza che gli permetteva di prevedere gli errori che avrebbe commesso l’avversario, contrattaccava con velocità fulminante. Questo giovane e impaziente guerriero non aveva mai perduto uno scontro. Conoscendo la reputazione del samurai, aveva deciso di sfidarlo, sconfiggerlo e accrescere così la propria fama.
Tutti gli allievi del vecchio samurai si dichiararono contrari all’idea, ma il maestro decise ugualmente di accettare la sfida lanciata dal giovane guerriero.
Si recarono tutti nella piazza della città: il giovane cominciò a insultare l’anziano maestro. Lanciò prima alcuni sassi nella sua direzione, gli sputò poi in faccia. Gli urlò tutti gli insulti che conosceva, offendendo addirittura i suoi antenati. Per lunghe ore fece di tutto per provocarlo, tuttavia il vecchio si mantenne impassibile.
Sul finire del pomeriggio, quando ormai si sentiva esausto e umiliato, l’impetuoso guerriero si ritirò.
Delusi dal fatto che il maestro avesse accettato tanti insulti e tante provocazioni senza reagire, gli allievi gli domandarono:
– “Come avete potuto sopportare tante indegnità? Perché non avete usato la vostra spada? Anche sapendo che avreste potuto perdere la lotta, avreste mostrato il vostro coraggio! La gente penserà che siete un codardo!”
L’anziano maestro samurai, allora domandò loro:
– “Se qualcuno vi si avvicina con un dono e voi non lo accettate, a chi appartiene il dono?”
– “Appartiene a chi ha tentato di regalarlo” – rispose uno dei ragazzi.
– “Lo stesso vale per l’invidia, la rabbia e gli insulti” – disse il maestro – “Quando invidia, rabbia e insulti non vengono accettati, continuano ad appartenere a chi li porta con sé”.

Lo Zen è una filosofia buddhista, un’arte del vivere e un modo d’essere. Secondo lo Zen questo processo si realizza attraverso la pratica, ovvero imparare a vivere con consapevolezza e agire in accordo con la propria natura: “Quando cammini cammina, quando sei seduto sii seduto, soprattutto non vacillare“.

Grazie agli insegnamenti zen possiamo quotidianamente imparare a mantenere il nostro equilibrio interiore nonostante le tante provocazioni che siamo costretti a “subire”.

Il racconto del vecchio Samurai ci insegna a come accogliere esperienze emotivamente tossiche senza lasciarsi inquinare psicologicamente e fisicamente. Imparare ad allontanare dalla propria vita ciò percepiamo come tossico, protegge il nostro equilibrio e le nostre energie. Alla luce di questo è necessario comprendere la differenza tra “reagire” e “rispondere” ad una provocazione. In genere reagiamo alle circostanze, come ad esempio, se qualcuno urla contro di noi, reagiamo allo stesso modo, urlando.

Aggrapparsi alla rabbia è come afferrare un carbone ardente con l’intento di gettarlo a qualcun altro; sei sempre e solo tu a rimanere bruciato”. Buddha

Ma possiamo imparare a rispondere, decidendo consapevolmente di avere il controllo. Vale a dire che se non accettiamo le provocazioni, i regali avvelenati, eviteremo di essere contagiati dalla loro tossicità.

“Siamo al mondo per convivere in armonia; coloro che ne sono consapevoli non lottano tra di loro” Buddha
In che modo?
  • Scopriamo cosa attiva in noi le risposte maladattive al punto di perdere il controllo. Questo ci permetterà di riconoscere i trigger che innescano in noi comportamenti di attacco/fuga da alcune situazioni per ripristinare la nostra sicurezza interna. Generalmente queste modalità sono apprese durante i nostri primi anni di vita.
  • Impariamo a lasciare il nostro passato alle spalle, trasformando le esperienze passate, anche quelle più dolorose, come insegnamenti. Riconoscere le proprie ferite e prendersene cura determina in noi un processo di guarigione interiore che ci rende più forti e ci fa sentire sicur*.
  • Guardiamo ai nostri stati emotivi come a delle nuvole transitorie che ora coprono il cielo, ma presto non ci saranno più. Se non ci lasciamo trasportare, è possibile non agire sulla rabbia e sulle provocazioni, imparando ad accettare o rifiutare quello che gli altri ti offrono.. E ricordiamo che è impossibile controllare tutte le nostre reazioni emotive, ma possiamo imparare a riconoscere e guidare in modo funzionale i nostri atteggiamenti e comportamenti.
Cecilia Gioia

 

 

 

Siamo tutti dei porcospini?

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“Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”. (Arthur Schopenhauer – ‘Parerga e Paralipomena’).

In questo breve racconto, il filosofo Arthur Schopenhauer ci fa riflettere sulla difficoltà del vivere in gruppo e mantenere la giusta distanza nelle relazioni interpersonali per non ferirsi l’un l’altro.

Nel dilemma del porcospino, l’unico modo per evitare di ferirsi e di pungersi è quello di restare vicini, ma non troppo vicini. In questo modo i protagonisti riescono a trovare riparo sia dagli aculei che rischiano di pungerli che dal freddo.

Ma siamo tutti dei porcospini quando parliamo di relazioni interpersonali?

Jon Maner e i suoi colleghi hanno voluto approfondire questa domanda con uno studio sperimentale che ha avuto come oggetto il modo in cui le persone rispondono al rifiuto sociale. Nell’ articolo “Does Social Exclusion Motivate Interpersonal Reconnection?Resolving the “Porcupine Problem” gli autori hanno dimostrato che in seguito a continui rifiuti le persone molto ansiose diventano meno socievoli. Le persone più ottimiste, invece, nonostante i rifiuti ricevuti, si impegnano molto per rafforzare le proprie relazioni con gli altri.

I ricercatori concludono « A questo punto va ricordata la risposta che Schopenhauer stesso suggeriva al dilemma del porcospino: infatti Schopenhauer asseriva che le persone cercano naturalmente una distanza di sicurezza dagli altri. “In questo modo” scriveva “il mutuo bisogno di calore viene soddisfatto solo in parte; ma le persone almeno non si feriscono”. (1851/1964, p. 226) Naturalmente Schopenhauer era noto anche per il suo carattere cupo e la sua filosofia era nota per il pessimismo.[5] ».

Alla luce di questo, possiamo davvero sentirci tutti dei porcospini? 

Ognuno di noi può chiederlo a se stess* e provare a rispondere.

Forse molt* di noi provano paura nell’avvicinarsi agli altre o alle altre a causa di alcuni eventi dolorosi del nostro passato. Forse fatichiamo a sperimentare il valore del contatto come occasione di nutrimento, ma non dovremmo mai rinunciare alla nostra vita sociale. Non dovremmo mai evitare di entrare nella relazione con l’altr*, perchè è vero, i rapporti con gli altri e con le altre sono sempre una scommessa, ma è proprio questo che li rende unici e preziosi. E il nostro quotidiano impegno a mantenerli in equilibrio un esercizio per conoscerci e conoscere. E crescere.

Cecilia Gioia

Per fortuna che c’è la Musica.

62168169_2365868236992522_1386178043126480896_nAbbiamo bisogno di bellezza e quindi di Arte in tutte le sue sfumature.

Abbiamo bisogno di perderci nel suo nutrimento, per ritrovarci e riconoscerci.

In tempi duri come questi, bisogna allearsi alla bellezza come bussola efficace per non perderci.  Proprio come ieri, in cui ho pensato fortemente: “Per fortuna che c’è la Musica“. Ieri pomeriggio più come mai ne ho assaporato il valore universale e fluido, mentre il coro di voci bianche accompagnava i miei pensieri affaticati. Ed è proprio in quell’istante in cui tempo si sospende, che riesco a ritrovarmi mentre decodifico suoni e melodie, armonizzandomi alla voce di mio figlio Manuel, e dei suoi compagni e compagne del coro. E’ incredibile sentirsi parte di un corpo unico, che emette suoni ordinati per ritmo e altezza a formare una melodia che vibra nell’anima.

Per fortuna che c’è la musica“, quando Esteban in orchestra siede al piano e suona, insieme. Ed è proprio lì che strumenti diversi si riconoscono e si fondono, rimanendo unici. Potere universale della musica, che produce bellezza e armonia.

Quanta bellezza ieri! Meravigliosa infanzia e adolescenza che si mescola nella magia del teatro e ci nutre di grande bellezza! E di speranza.

Bisogna davvero essere grate/i alle/agli insegnanti, che coltivano Arte quotidianamente e ne raccontano la bellezza ai nostri figli e alle nostre figlie.

Bisogna osservarli con ammirazione e profonda gratitudine, perchè in un mondo così duro, loro non hanno smesso di sognare e ricordare a noi di farlo, ogni giorno.

Bisogna proteggerli come un dono per noi e per le generazioni future.

Bisogna quotidianamente imparare a cercare bellezza, arte e rispetto, per ricordare a noi stesse/i di restare umane/i.

Cecilia Gioia

 

Il diritto alla compassione.

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Oggi, 10 dicembre 2018, nella Giornata Mondiale dei Diritti Umani, celebro la consapevolezza di quanta strada c’è ancora da fare. Oggi, come settanta anni fa, rivendico il diritto dei diritti, quello della vita. Oggi come ogni anno, voglio celebrare i diritti alla dignità, libertà, uguaglianza, fratellanza e sorellanza, attraverso la cultura del fare.

Perchè è necessario cambiare le menti, fare spazio per seminare semi di consapevolezza e rispetto, le teorie poi, le lascio ad altr*.

Mai come in questi tempi l’umanità ha bisogno di abbracciarsi di più, di stare insieme e di fare insieme. Un fare condiviso che genera piccoli ma duraturi cambiamenti.

Stare insieme per prendersi cura, per dare dignità ad un dolore spesso non riconosciuto, per consolarsi e far germogliare fiori di compassione ed empatia.

Oggi, più di ieri, l’umanità ha bisogno di cura e accoglienza. E di contatto rispettoso attraverso spazi che diventano contenitori e contenuti di emozioni.

Oggi, più di ieri, abbiamo bisogno di emozionarci, di raccontare e viverci emozioni libere, lasciando andare maschere che creano barriere.

Oggi, in questa giornata così densa di significato, voglio celebrare il diritto al rispetto del proprio lutto, in particolare quello perinatale. E voglio farlo con gli strumenti che più amo, la condivisione, il sostegno alla pari e il fare condiviso. Voglio farlo insieme alle famiglie, ai bambini e alle bambine, per creare, anche se per poche ore, quel famoso villaggio che si prende cura dei singoli.

Perchè fare comunità attiva significa promuovere salute, in una città che necessita di ponti e cambia-menti. Perché il diritto al rispetto del lutto perinatale sia un obiettivo da portare avanti ogni giorno, promuovendo la cultura della compassione e dell’accoglienza. Perché oggi, tutti insieme, siamo il cambiamento.

Perché prendersi cura delle famiglie che hanno subito un lutto perinatale è un compito di tutti, della comunità che spesso spaventata o distratta, dimentica la sua innata capacità di curare. O ci prova, ma a singhiozzi, perché teme che avvicinarsi al lutto celebrando la memoria dei bambini e delle bambine nat* in silenzio, fa male.

Oggi, in questa data così densa di significati, in un freddo pomeriggio di dicembre, il villaggio c’è e si riconosce la responsabilità del prendersi cura.

Ci incontreremo alla Cittadella del Volontariato a Cosenza, dalle 15.30 davanti ad una tisana calda e proveremo a scaldarci il cuore, stringendoci di più, attraverso il fare e il sentire. Perché stare accanto al dolore, consapevolmente, prendendosi cura di chi resta, è un diritto per restare umani, davvero.

 

Cecilia Gioia

Il diritto di essere bambin*.

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Il 20 novembre è la Giornata mondiale per i diritti dell’infanzia, giorno in cui si celebra il 30° anniversario della approvazione della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, un importante strumento giuridico che elenca e tutela i diritti de* bambin*. Questo documento comprende ben 54 articoli che riguardano tutti i bambini e le bambine del mondo.

I principi fondamentali sono quattro:

1) Principio di non discriminazione (art. 2): i diritti sanciti dalla Convenzione devono essere assicurati a tutti i minori, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione, opinione del bambino/adolescente o dei genitori.

2) Superiore interesse del bambin* (art. 3): in ogni decisione o azione pubblica o privata, l’interesse del bambino o dell’adolescente deve avere la priorità.

3) Diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambin* (art. 6): gli Stati devono tutelare la vita e il sano sviluppo dei bambini e delle bambine.

4) Ascolto delle opinioni del minore (art. 12): prevede il diritto dei bambini e delle bambine a essere ascoltati in tutti i processi che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adult*, di tenerne in  considerazione le opinioni.

Mi chiedo se nel 201 noi adult* abbiamo davvero imparato a conoscere e rispettare questi diritti, o continuiamo a ricordarli in maniera superficiale e discontinua, tracciando (in)consapevolmente, sull’infanzia e l’adolescenza, segni indelebili e dolorosi.

Perchè è facile soffermarsi un giorno e celebrarlo, il difficile è riconoscere quotidianamente a* nostr* figl* il diritto di essere bambin*.

Il difficile è proteggere la grande bellezza dell’infanzia e dell’adolescenza, non negandone le sfumature, ma promuovendone le differenze. Il difficile sta, per noi adult*, di imparare ad ascoltare con il cuore. E rallentare con la mente, per accogliere la ricchezza interiore di ogni bambin* che sceglie di raccontarsi a noi.

Perchè i bambini e le bambine hanno bisogno di adulti consapevoli, rispettosi, compassionevoli e gentili. E perchè l’infanzia e l’adolescenza è un bene prezioso che necessita la cura di tutt*, ogni giorno, tutti i giorni.

Credo che le parole di Giorgio Gaber possano essere un buon punto di partenza, per celebrare in ogni momento della nostra vita adulta, la Giornata mondiale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza:

“Non insegnate ai bambini
non insegnate la vostra morale
è così stanca e malata
potrebbe far male
forse una grave imprudenza
è lasciarli in balia di una falsa coscienza.
[…]
Non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all’amore il resto è niente.

Giro giro tondo cambia il mondo.
Giro giro tondo cambia il mondo. ”

Cecilia Gioia

 

La tossicità psicologica.

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Ho deciso quindi di allontanarmi da ciò che intossica e opacizza.

E di porre attenzione ai momenti di contatto con elementi tossici che ci segnano e contaminano. Spesso però l’impegno di combatterli distoglie la nostra attenzione da ciò che è stato ritrovandoci già impregnat* di negativo e rabbia.

Rabbia cieca, senso di impotenza, frustrazione, sensazione di essere senza via di uscita, di esser cadut* nella trappola che elementi tossici abili e machiavellici hanno tessuto giorno dopo giorno. Una claustrofobica sensazione che attiva il nostro sistema di allerta aumentando il nostro livello di vigilanza.

I sensi si amplificano e fiutiamo nell’aria il pericolo che incombe e che lede alla nostra libertà.

Difficile stare in equilibrio quando la sensazione di pericolo persiste e la nostra amigdala si attiva. E ci avverte che il pericolo è vicino.

Perché spesso poi gli stimoli minacciosi si camuffano, si travestono in docili agnelli e provano a boicottare quella parte istintiva che per millenni ci ha protetto.

E quindi è facile distrarsi e non cogliere tutti i segnali.

Capita, a volte capita. E questo ci fa sentire vulnerabili e piccol*, mentre percepiamo chi ci minaccia, grande e invincibile.

Noi troppo piccol* e i chi ci intossica psicologicamente troppo grande.

Che fatica ritrovare l’equilibrio e riportare tutto in una relazione simmetrica!

E soprattutto richiamare dentro di noi la parte adulta e consapevole perché sa, con l’esperienza, che chi minaccia e aggredisce, in realtà, ha più paura di noi.

Chi tesse reti machiavelliche, chi rema contro il lavoro altrui, in una parola chi vìola la libertà, valore da difendere sempre, è spaventat*. E tanto.

Ed ecco che la nostra percezione cambia, non siamo più noi ad esser piccol*, ma chi continua a minacciarci.

Loro piccol*, noi di nuovo adult*.

Loro che utilizzano linguaggi altri per far rumore e condizionarci, noi che finalmente possiamo guardare negli occhi le loro fragilità.

Loro che pensano di avere il potere, noi che sorridiamo a noi stess* perché il vero potere è la libertà di non lasciarsi contaminare da emozioni e contatti tossici.

Loro e noi, in una osmotica lotta per differenziarsi e riconoscerci integri.

E se qualche ferita c’è stata, sorridiamo.

Le cicatrici se curate e celebrate raccontano atti di eroico coraggio e di vita.

La nostra.

Cecilia Gioia

La nascita silenziosa

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Mi dispiace, non c’è battito– segna un confine tra quello che è stato e quello che poteva essere, ma non è.

Perché si è trasformato in altro, rimbombando nella mente e nel cuore di chi è costretto ad ascoltare questa frase.

Anche l’aria si sospende, mentre un non tempo accoglie genitori in fuga da una realtà che squarcia e urla dolore.

Ed è proprio quel momento che determina, negli operatori, la consapevolezza del “sentire” e del “fare”. In ostetricia, non sempre fare molto significa fare meglio, ecco perché prima di qualsiasi azione è necessario ascoltarsi e ascoltare.

E capire come entrare in contatto con genitori smarriti in un vuoto troppo grande, senza avvicinarsi troppo, ricordando a noi stessi le ustioni profonde generate da quella frase pronunciata appena due minuti fa: –Mi dispiace, non c’è battito-.

Bisogna sospendersi per sostare in un qui ed ora da cui si vorrebbe sfuggire. Bisogna fermarsi e fermare pensieri interferenti che provano a distoglierci dall’immobilità e dal silenzio.

Bisogna entrare in contatto con la paura e l’impotenza che ci assale e accoglierla per accogliere.

Come operatori che lavoriamo in un punto nascita capita di provare tutto questo ed altro ancora, mentre cerchiamo le giuste parole per spiegare ai genitori cosa è possibile fare.

Perchè dopo la diagnosi noi operatori conosciamo le procedure da avviare, ripetiamo a mente le sequenze, i luoghi che visiteremo insieme ai genitori per accogliere la nascita del loro bambino o della loro bambina, ma in quel momento esatto disconosciamo il suono della nostra voce. E iniziamo a comuni-care, con lentezza, cercando di rimanere in quel qui ed ora silenziosamente rumoroso.

Spieghiamo lentamente, e accompagniamo i genitori verso il tempo indefinito di una nascita silenziosa.

Il ricovero, in ginecologia, gli esami, la revisione della cavità uterina o l’induzione del parto, a seconda dell’età del bambino o della bambina, il travaglio, la dissociazione nei genitori, il luogo scelto per il travaglio, l’attesa, il tempo che distilla ricordi ed emozioni, la disperazione, la paura, la forza e infine la nascita, silenziosa quanto assordante.

Ho imparato negli anni che si può stare in quel silenzio, onorando e rispettando la nascita come momento sacro dove la “presenza” consapevole e l’accoglienza delle emozioni fanno la differenza. E favoriscono i ricordi, mentre il tempo si ferma, tace e le emozioni urlano in silenzio.

Perché quando una mamma, e un papà, mettono al mondo il loro bambino o la loro bambina nat* mort*, ci sentiamo, come operatori, travolti da emozioni contrastanti. Perché è davvero troppo contenerle tutte. E allora, negli anni, ho imparato a farmi attraversare, restando immobile, mentre fluiscono lentamente segnando solchi di esperienza e ricordi che ogni nascita silenziosa ha deciso di donarmi.

E poi il contatto con il bambino o la bambina, la vicinanza, l’abbraccio, il ricongiungersi, il respiro sospeso dei genitori, lo sguardo, l’amore assoluto che ci travolge e ogni volta, ci stupisce per la sua immensa dignità. La cura verso quella nascita, i vestiti scelti durante l’attesa mentre mani sapienti e rispettose delle ostetriche vestono un amore così grande. E poi le carezze, i nostri sguardi di operatori, verso tanta dolcezza. Perché i bambini e le bambine nat* mort* sono un amore senza fine, e hanno bisogno di tenerezza, rispetto e cura. Come i loro genitori, che se sostenuti adeguatamente dal personale, possono stare in contatto con la loro creatura. Abbracciarla, baciarla, esplorare le manine e cercare in quei tratti somiglianze. Ecco, in quel momento esatto, in noi operatori, il battito rallenta, il respiro è più lento, il tempo può tornare a scorrere, le immagini si integrano, mentre una famiglia si riconosce il diritto del suo tempo, sfidando anche la morte. E rendendoci tutti più consapevoli.

Perché sin dal momento della diagnosi, noi operatori possiamo contribuire ad avviare quel processo lento, doloroso per attraversare il lutto in gravidanza e dopo la nascita.

E fare la differenza.

Cecilia Gioia

 

 

 

 

 

Il grande segreto.

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Negli anni la pratica clinica ha affinato i miei sensi rendendoli più sensibili e recettivi verso le storie che ascolto. Come nel caso di chi decide di abitare per un determinato periodo di vita il mio setting psicoterapeutico portando dietro di sé un grande segreto.

Quando questo arriva, lo sento nell’aria, tutto si sospende ed è in attesa, regalando tempi e pause ormai conosciute. E allora respiro, mi ascolto e aspetto, come chi sa che sta per assistere al grande miracolo dell’apertura del vero Sé.

E la persona lentamente si rivela, (ri)scoprendo parti di Sé per troppo tempo inibite dalle varie strategie di evitamento che hanno come un unico scopo di impedire l’accesso a un ricordo percepito come pericoloso per la coscienza.

Ma cos’è un grande segreto?

Potrebbe riguardare un episodio specifico (un trauma), oppure una condizione generale (es: i ricordi di come ci si sentiva annullati dalle critiche dei genitori). Ricordi e temi di vita dolorosi possono nascondersi oltre la coscienza e stimoli del presente possono farli rivivere richiamando parti di Sé dimenticate ma bisognose di essere (ri)conosciute e integrate.

Un esempio può essere rappresentato da chi, a ogni presa in giro del proprio capo, rischia di provare lo stesso senso di umiliazione ricevuto ad opera di un insegnante alle elementari. A questo punto la coscienza potrebbe apparentemente trarre vantaggio dall’inibire l’accesso di questi ricordi a sé stessa. E quindi cristallizza e protegge negli anni il grande segreto innescando una serie di meccanismi di difesa che generano sistemi disfunzionali e patologie che probabilmente non sarebbero comparse altrimenti. E’ fondamentale, per noi clinici, mantenere un approccio integrato e per questo inserire protocolli mirati alla cura del trauma, per accompagnare la persona che ha scelto di condividere con noi un percorso di psicoterapia, a svelare a se stess* il grande segreto.

Ci vuole davvero grande coraggio e fiducia per decidere di attraversare insieme quel confine, per conoscere cosa vi si nasconde, abitandolo per comprendere che non può distruggerci, ma renderci più forti e consapevoli. E tanta consapevolezza clinica e profondo rispetto verso i passaggi evolutivi di chi ha scelto di donarci la sua storia di vita e il suo grande segreto.

Cecilia Gioia

Storia di una mamma.

Quando incontri una storia speciale, te ne accorgi subito. L’aria si sospende, il battito rallenta, lo sguarda prova ad andare oltre e si sincronizza anche il respiro. La storia di una donna e una mamma in rinascita, un dono per me e per chi vorrà leggere con il cuore.

Disegni di Michal Rovner. Tratto dal libro L’abbraccio di Grossman D., edito da Mondadori, 2010

Sono diventata mamma per la prima volta nel 2012, dopo un anno di tentativi falliti e altrettanti pianti silenziosi all’arrivo di ogni ciclo. Un anno difficile, contrassegnato dalla solitudine: marito lontano per lavoro e lavoro sfrenato in ufficio per compensare i vuoti. Immaginavo l’arrivo di un figlio come un momento magico, capace di spazzare via la tristezza e rigenerare un rapporto vissuto a distanza. Nel dormiveglia immaginavo di stringere forte il mio piccolo e di allattarlo. Era il mio ultimo pensiero ogni sera prima di addormentarmi. Rimasi incinta quando ormai avevo perso la speranza ed ero pronta a preparare la domanda per l’adozione, quando smisi di fare calcoli sui giorni fertili, quando un ginecologo mi disse che avrei dovuto fare accertamenti a causa dei miei follicoli troppo grossi ed iniziare una cura ormonale. Il primo mese di gravidanza fu bellissimo, mi sembrava di camminare sospesa da terra, era tutto perfetto come avevo immaginato nel buio della mia camera da letto. Il sogno fu bruscamente interrotto da una macchia di sangue che si trasformò in un flusso vero e proprio nel giro di pochi minuti. Ricordo ancora come se fosse oggi la disperazione durante la corsa in ospedale, con la certezza di aver perso quel bimbo tanto desiderato. Distesa su un lettino freddo, con le lacrime che mi offuscavano la vista,  un medico poco cortese mi disse di smettere di piangere perché il bimbo stava bene, di fare punture e stare a letto finché le perdite di sangue non si fossero fermate. Di colpo mi ritrovai a vivere h24 tra letto e divano, con la paura che anche un piccolo movimento avrebbe potuto far male al miracolo che stava crescendo dentro di me. Piano piano cominciai a spegnermi. Il sollievo di essere ancora incinta lasciò presto spazio al nervosismo e alla tristezza. Cominciai a piangere senza sapere bene quale fosse il motivo. Mi sentivo sola e incompresa ma non lo davo a vedere, nascondendomi tutti i giorni dietro un sorriso di circostanza per amici e parenti. Passai quasi tutta la gravidanza a letto, con l’ansia perenne che qualcosa potesse andare storto. Il giorno tanto atteso arrivò nonostante tutto. Dopo tre giorni di travaglio ed un parto tremendo,l’angelo dagli occhi color caffè che tante volte avevo immaginato fece ingresso nella mia vita. Sembrava tutto perfetto, forse troppo. Faceva tanto caldo in quei giorni, troppo caldo per un bimbo di pochi giorni digiuno. Il piccolo ciucciava con tutte le sue forze ma la montata lattea tardava ad arrivare. La mia inesperienza e la presenza attorno a me di persone inesperte non mi permisero di capire che qualcosa non andava e il mio angelo svenne in auto mentre stavamo andando in ospedale per un controllo, dopo aver trovato tracce rosse nel pannolino. In quei 10 interminabili minuti pensai che fosse morto. Si svegliò all’arrivo in tin dove lo portai attraversando di corsa lunghi corridoi, senza neanche sentire il dolore degli innumerevoli punti del parto e la stanchezza di quei lunghi giorni senza sonno. In quei 10 minuti il terrore si impadronì della mia mente e non fui lucida neanche con i medici che all’inizio non capirono, scambiandomi per una neonamma ansiosa. Mi chiesero scusa goffamente dopo molte ore, dicendomi che in effetti il bimbo aveva avuto un calo glicemico che aveva causato lo svenimento. Tornai a casa distrutta e arrabbiata. Arrabbiata con i medici e con me stessa per non aver capito che il mio bimbo non stava bene. Il giorno dopo arrivò il latte ma dopo le prime poppate cominciai a sentirmi stanca, eccessivamente stanca. Nel pomeriggio cominciai ad avere la sensazione che il mio corpo stesse cedendo, non avevo la forza di muovermi, mi sentivo paralizzata. Arrivò a casa il 118 che mi portò in ospedale. Ero lucida ma non riuscivo a muovermi. Ad un certo punto le forze mi abbandonarono quasi del tutto, il mio corpo non rispondeva più. Dissi a mio marito che stavo per morire, lo salutai, raccomandandogli di prendersi cura del nostro cucciolo e mi addormentai o forse svenni. Dopo tante ore mi dissero che avevo l’emoglobina bassa e mi parcheggiarono in una barella nel corridoio di un pronto soccorso affollato. Durante la notte cominciarono a comparire dei termori in tutto il corpo. Arrivarono in tre per tenermi ferma e mi spararono in bocca una siringa con gocce di valium. Mi dissero che non avrei dovuto allattare per almeno un giorno e mi mandarono a casa con un foglietto su cui c’era scritto depressione post partum. Fu quello l’inizio di un lungo periodo difficile. Cominciai ad essere confusa, ad avere paure di tutti i tipi, a non essere più lucida. Dicevo e facevo cose strane. Non riuscivo ad accudire il mio piccolo e svuotavo il latte tirato nel lavandino perché il medico a cui i miei familiari si rivolsero cominciò a prescrivermi psicofarmaci che resero il latte un veleno per il mio cucciolo. Trascorsi un paio di settimane a casa e oltre un mese in un reparto di psichiatria. Fu un periodo strano. Da una parte mi mancava mio figlio e dall’altra ero contenta di essermi allontanata da lui e da tutti per ricomporre la mia mente in frantumi. In quel periodo emerse il meglio e il peggio di me, mischiati in un unico pentolone che ribolliva giorno e notte, senza darmi un attimo di tregua. Tornai a casa quando il mio bimbo aveva quasi due mesi. Aveva un odore che non riconoscevo, beveva un latte che non era il mio, piangeva quando lo tenevo in braccio e si calmava soltanto tra le braccia della nonna. Non sapevo cullarlo, non sapevo consolarlo, non sapevo essere la sua mamma. Gli volevo bene, tanto bene, ma la naturalezza del nostro rapporto aveva lasciato posto ad una voragine che mi sembrava incolmabile. Ci vollero mesi di duro lavoro per ritrovarci. Dopo quattro mesi smisi di prendere psicofarmaci e piano piano cominciammo lentamente ad annusarci, a coccolarci, a conoscerci. Dopo altri cinque mesi rimanemmo finalmente soli. Senza il papà che tornava soltano per il weekend e senza le nonne che tornarono a vivere nelle proprie case dopo mesi di convivenza forzata sotto le stesso tetto. Mi cominciai a sentire finalmente madre ma con la sensazione costante di dover dimostrare al mondo di poterlo essere. Non era scontato, non era facile. Inghiottivo ogni giorno dolore per trasformarlo in grinta, inventando  modi sempre diversi per farmi amare dal mio cucciolo. Lentamente cominciai a non pensare più a quel periodo tanto difficile e ritornai ad essere la persona che ero ma con una sensibilità più accentuata. Passarono gli anni e dopo quattro io e mio marito decidemmo di avere un altro figlio che arrivò al secondo tentativo. Sentii la sua presenza dentro di me da quando vidi la seconda linea rossa sul test di gravidanza. Quel puntino dentro di me era già il mio secondo amore prima ancora che il suo cuore cominciasse a battere. Decisi subito di cambiare ginecologo e struttura ospedaliera, di azzerare il passato per costruire un nuovo futuro. La fortuna mi portò a bussare alla porta di un medico speciale che si accorse al primo sguardo che qualcosa andava ancora risolta prima di partorire il secondo figlio. Mi suggerì subito di rivolgermi ad uno psicologo e la mia prima reazione fu un mix di incredulità e rabbia. Che ne sapeva lui di me, della mia storia,  della mia forza? Tornai a casa infastidita ma le sue parole aprirono un varco nelle mie insicurezze. Mi resi conto in pochi giorni che in quattro anni ero riuscita a tappare un buco nero con un velo di forza ma che il buco c’era ancora e che il velo era troppo sottile. Decisi di frantumare il velo e di tuffarmi nel buco nero con l’aiuto di un salvagente: una psicologa dagli occhi gentili e pieni di umanità. La perlustrazione del buco nero durò per tutta la gravidanza e anche per qualche mese dopo la nascita del mio secondo angelo dagli occhi color caffè. La mia bimba adesso ha quasi 8 mesi, vissuti in buona parte cuore a cuore dentro una fascia rosa o attaccata al mio seno da cui non esce più veleno ma amore. Il suo arrivo è stato un balsamo sulle ferite che avevano sanguinato senza sosta per 4 lunghi anni. Grazie a lei e con lei ho seminato fiori nel buco nero che adesso si è trasformato in un pozzo di esperienze, di emozioni, di vita. Ed è ancora grazie a lei che mi sono riappropriata della naturalezza del rapporto con il mio primo figlio, cominciando a coccolarlo e accudirlo con un trasporto nuovo, carico di  tenerezza. Adesso non piango più pensando a quanto ho perso, perché ormai quasi tutto è stato recuperato. Non potrò più recupare la donna che ero prima del crollo: una donna che metteva al primo posto il lavoro, che non si guardava mai indietro, che faceva della razionalità il suo punto di forza. Quella donna ha lasciato posto a me: una persona imperfetta, una mamma felice, una donna forte.