Chi è l’altr*?

unnamed

Foto dal web

Tema familiare per chi lavora quotidianamente nell’incontro dell’altr* e che apre inevitabilmente mille interrogativi.

Mai come in questo periodo risuona fortemente nella nostra coscienza individuale e collettiva il bisogno di ritrovare la radice che sta alla base della convivenza, ovvero la capacità di mantenere quotidianamente uno spazio intersoggettivo che favorisca la somma dell’io e del tu. In altre parole abbiamo bisogno di nutrirci di relazioni efficaci, incontrando l’altr*, imparando a stare in questo luogo per gustarne a pieno le differenze.

Entrare in questo “spazio intersoggettivo” significa imparare a so-stare nel paradosso dell’incontro:  l’altr* è colui che identifico fuori di me, separato, fuori dal mio campo personale, ed è nel suo essere fuori che può entrare dentro, in un’osmotico scambio di similitudini e differenze.

Spesso però, entriamo in relazione con gli altri non riconoscendo loro una propria identità. Questo si verifica quando non riusciamo a so-stare nel paradosso dell’incontro, considerando l’altr* un’estensione di noi stessi, una proiezione dei nostri valori attraverso cui rivivere esperienze passate o soddisfare i nostri bisogni.

Spesso questo accade e crea in noi l’illusione di possedere l’altro, alimentando e consolidando dinamiche di distruzione.  Ed è proprio in questo possedere che l’altr* viene percepito come oggetto, indipendentemente dalla relazione stabilita evidenziando un paradosso mai come in questi tempi attuale: chi alimenta il possesso è sol*, perché l’atto di possedere esclude la possibilità dell’incontrare.

Ecco perchè, in tempi così duri, abbiamo bisogno di stabilire relazioni con l’altr* per incontrare noi stessi. La relazione dunque si trasforma in uno specchio, non sempre comodo, che riflette immagini non sempre rassicuranti.

Ed è proprio nei riflessi scomodi che percepiamo il dolore dell’incontro, cercando disperatamente di allontarci da quel dolore, mettendo in atto, ahimè, strategie di evitamento e intolleranza. Odiamo l’altr*, lo percepiamo minaccios*, desideriamo che scompaia alla nostra vista, dimenticando che l’altr* è solo una delle mille variazioni di noi.

Perchè so-stare nell’incontro con l’altr* ci insegna a so-stare con noi stess*.

Perchè accogliere i riflessi scomodi dell’altr*, ci insegna ad accogliere e integrare tutte le nostre parti, tutti gli innumerevoli pezzetti che abbiamo sviluppato nella nostra esperienza di vita. Ed è in quell’unità individuale che è possibile aprirsi all’altr*, in modo autentico, scoprendo il gusto della diversità, come risorsa evolutiva per vivere.

Cecilia Gioia

 

Ottobre lieve.

10411914_638879272877930_7661753002199684609_n

Foto dal web

Eppure c’è ancora molto da fare.

Questo il mio pensiero del risveglio, dopo una notte densa di immagini e sogni.

Un fisiologico stare in questo periodo di attese e di emozioni.

Perché aspettare Ottobre ha un suo perché, come periodo ricco di eventi significativi, nella mia vita di apprendista bismamma di terra e trismamma di cielo.

Due nomi scorrono nella mia mente, la Settimana Mondiale dell’Allattamento Materno e il Babyloss ovvero la Giornata Internazionale per il Lutto Pre e Perinatale. Due date importanti, per me.

Due momenti che hanno trasformato la mia vita e le mie piccole e grandi certezze.

Dopo la loro scoperta, in me tutto è cambiato.

Ho promesso a me stessa, nel mio piccolo, di provare umilmente a stare accanto alle mamme e ai papà, un passo indietro, rispettando gli spazi. Ho promesso a tutti i neonati e neonate, i bambini e le bambine, di promuovere quotidianamente la cultura del rispetto e dell’accoglienza.

E grazie alla piccola ma significativa rete di sostegno creata con MammacheMamme, molti neogenitori alle prese con l’allattamento sono stati accompagnati gratuitamente verso una genitorialità consapevole e rispettosa dei bisogni del* bambin*.

Continuando ogni giorno a diffondere l’accoglienza e la buona nascita, come momento unico e irripetibile del* bambin* e dei genitori.

Promuovendo salute e condividendo informazioni corrette, in un rituale quotidiano che conferma il valore del “dare” come occasione di arricchimento personale e comunitario.

Lo ammetto, alcune volte sono rumorosa e scomoda, perché donna di pancia e di cuore, ma sto imparando a contenere i miei frequenti brontolii provando a trasformare questa energia in azioni funzionali.

Ottobre per me è un mese che profuma di latte materno e di cielo.

Di battiti d’ali di figli portati in pancia e abbracciati ogni giorno nel cuore.

Ottobre per me ha il sapore metallico della solitudine e del dolore assordante, della mia pancia vuota e dell’etichetta di donna poliabortiva.

Ottobre, grazie a CiaoLapo è diventato per me, il mese della rinascita.

Ed ecco che le etichette, le diagnosi appena sussurrate, la pancia troppe volte vuota si trasformano in azioni a sostegno di tutti i genitori di bambini e bambini nati in silenzio. Lo ammetto, questa attesa del Babyloss, mi emoziona ogni giorno di più. Sei anni di lavoro di ascolto e sostegno alle famiglie calabresi, cinque Babyloss a Cosenza, tre incontri di Formazione per operatori e genitori in una Calabria che sta imparando, con fatica, a conoscere il lutto pre e perinatale. Questo grazie al lavoro persistente e resiliente del Gruppo di Automutuoaiuto Parole in ConTatto, ai genitori volontari e ai nostri cuccioli e cucciole silenzios* che quando si uniscono riescono a fare davvero rumore, in questa terra spesso troppo distratta.

E il quotidiano viversi si impreziosisce di doni e di piccole e grandi difficoltà.

Ma aspetto e spero,

desidero e sogno,

respiro e amo.

Ottobre per me è ri-nascita come donna, mamma di cielo e di terra e professionista, in uno spirito di sorellanza che unisce e svela.

Cecilia Gioia 

Le donne cambieranno il mondo.

1017749_671851549530118_1119567088258984779_n

Foto dal web

Noi donne abbiamo l’opportunità di cambiare il mondo. Ecco perchè quotidianamente incoraggio noi donne a ritrovarci nei cerchi per risvegliare il potere personale della trasformazione.

Ogni cerchio di donne ha una componente spirituale perchè ci connette l’una con l’altra, influenzando il mondo. Tutto questo avviene naturalmente, ascoltando i problemi, le ansie e le paure di altre donne e condividendo le proprie si acquisisce forza. E coraggio e fiducia.

E ritorniamo sagge, intuitive, in ascolto del nostro corpo e consapevoli del nostro baricentro.

Ecco perchè abbiamo bisogno di abbracciarci e riconoscerci, per sospendere il giudizio allenando la mente e il cuore a stare nelle differenze, ricordando un’alleanza antica che si nutre di contatti e trasmissione di saperi.

Di seguito troverete le regole delle donne sagge, tratte dal libro Le streghe non si lamentano” di Jean Shinoda, tredici spunti per riflettere e crescere:

1. le donne sagge non vivono lamentandosi, creano cambiamenti;

2. le donne sagge sono coraggiose;

3. le donne sagge hanno il pollice verde con le piante;

4. le donne sagge si fidano del proprio intuito e rispettano quello delle altre;

5. le donne sagge meditano ogni giorno e sono in comunicazione con la propria interiorità;

6. le donne sagge difendono con fermezza ciò che ritengono importante;

7. le donne sagge scelgono il proprio cammino anche con il cuore;

8. le donne sagge dicono la verità con compassione;

9. le donne sagge ascoltano il proprio corpo;

10. le donne sagge improvvisano e giocano;

11. le donne sagge non implorano con dipendenza;

12. le donne sagge ridono insieme;

13. le donne sagge apprezzano il positivo della vita e lo condividono con semplicità.

“Abbandona l’idea di diventare qualcuna, perché sei già un capolavoro. Non puoi essere migliorata. Devi solo arrivarci, comprenderlo, realizzarlo.” Osho

Cecilia Gioia

Quello che c’è.

Arricchisciti-Essere-Ottimisti-Quando-Conviene-Usare-Lottimismo-E-Quando-Invece-E-Controproducente

Foto del web

Da un pò di tempo sto allenando la mia mente e il mio sguardo sulla ricerca quotidiana di quello che c’è.

Un’esercizio semplice, ma che richiede grande impegno e determinazione. Almeno per me e per la mia tendenza a distrarmi e cercare altrove.

E invece sto, osservo, alcune volte provo a sfuggire ma poi ritorno.

Mi soffermo e alleno la mia mente, mi dedico ai dettagli, a tutte quelle piccole sfumature che spesso sfuggono ad uno sguardo frettoloso e abituato, piuttosto, a cercare quello che manca.

Invece sosto, alcune volte con fatica, su quello che c’è.

E quando riesco, trovo equilibrio e pace, perchè finalmente “vedo” con gli occhi e con il cuore. E sento che quello che c’è è davvero molto, quasi da scoppiarmi il cuore, perchè mi sento “piena” e “centrata” nella vita che abito. E nelle relazioni che incontro.

Da quando mi alleno a sostare in quello che c’è ho imparato a stare negli imprevisti, a gustarne l’imprevedibilità e l’effetto che hanno su di me, senza giudicarmi.

Da quando mi soffermo in questa quotidiana ricerca ho scoperto che le relazioni interpersonali possono terminare, semplicemente perchè si è concluso un ciclo. Senza cercare colpe, senza attribuirmi ulteriori carichi emotivi che non mi spettano. Semplicemente lascio andare e sposto il mio sguardo altrove, su quello che c’è.

Da quando, mi riconosco il diritto di volermi bene, mi nutro di quello che ho.

E questo mi piace. Davvero.

Cecilia Gioia

 

Diventare madre nell’assenza.

Chiaroscuri

Foto dal web

Tredici anni ho scoperto la maternità attraverso una linea che si colorava e confermava un desiderio.

Ho gustato il sapere della conferma e dopo tre mesi il dolore dell’assenza. Esattamente 13 anni fa ho conosciuto il dolce e l’amaro del diventare madre. Ma ho scelto di starci dentro, provando a navigarci, spesso perdendomi e scoprendo nuove destinazioni, in un processo che continua e mi trasforma.

Nel 2006 ho accolto la carezza della presenza di una maternità cercata e il pugno violento e improvviso dell’assenza. L’ho conosciuto e mi ha completato, perché parte di me e della mia storia di maternità. Lo riconosco ogni giorno, perchè vissuto altre volte e perché così doloroso e crudo da lasciarti senza fiato. E senza fiducia in te stessa e verso un corpo osservato, studiato, analizzato. Addolorato.

Tredici anni fa abitavo il mondo da donna, figlia e moglie. Poi ho scoperto il significato di diventare madre. Mi correggo, ho sperimentato l’illusione di averlo compreso, perché in realtà continuo a ricercare significati e significanti, che svelino un senso compiuto e squisitamente personale, alla mia storia di maternità. E alle migliaia di storie di donne e madri che ho incontrato, ascoltato, ripensato. Risognato.

Abitare il mondo attraverso le mille sfumature della maternità.

Ma cosa significa?

Davvero questa società così rumorosa e distratta può coglierne le innumerevoli declinazioni fatte di sguardi, sospiri e fatica quotidiana per restare a galla e non perdersi?

Si, perché noi mamme possiamo perderci in una routine del fare e del sentire che ci assorbe, ci risucchia in un vortice di aspettative e di stereotipi, condizionando quel meraviglioso fluire di scoperte e di chiaroscuri che la maternità sa donare, se rispettata nei suoi tempi e nei suoi bisogni.

Io so riconoscere lo sguardo affannato di una madre, quando prova a navigare la sua maternità, sommersa dai DEVO e timida nei VOGLIO, mentre cerca sguardi accoglienti a cui aggrapparsi per restare a galla e non perdersi.

Io lo conosco quello sguardo, perché lo riconosco in me e in tutte le donne e madri che ho il privilegio di incontrare.

Credo che per promuovere la cultura del rispetto della maternità e delle sue innumerevoli declinazioni, bisogna partire dalla base, ovvero l’ascolto e l’attenzione verso l’altr* me.

Forse è proprio nello sguardo di una madre che potrebbe racchiudersi l’essenza della maternità, un processo così intimo, personale ed unico che non può vivere nei confronti, nei modelli e nei consigli che la società elargisce generosamente.

Forse se imparassimo ad accogliere quello sguardo, a starci dentro, riusciremmo a collegarci al nostro nucleo, alla nostra matrice.

Perché noi tutt* abbiamo abitato nostra madre, assaporato le sue emozioni attraverso un liquido amniotico che rivela e protegge, e questo ci accomuna, nella nostra incredibile unicità.

Ecco perché possiamo provare a cogliere quello sguardo, rispettandolo e riconoscendo dignità alla donna e madre che incontriamo, attraverso la sospensione del giudizio e il rispetto della sua fatica.

Perché ascoltare una donna e madre, accogliendo il suo sguardo e la sua quotidiana navigazione nei mari profondi della maternità, significa onorare la nostra matrice. Significa proteggere le nostre radici e la nostra libertà. Significa provare tenerezza verso l’altr* me. E in questi tempi duri, ne abbiamo bisogno. Davvero.

Cecilia Gioia

Quando muore una madre, moriamo tutte.

lutto_1

Foto dal web

Quando muore una madre, moriamo tutte.

 

E come in un terremoto, ci frantumiamo in mille parti di noi, perchè è davvero troppo, da scoppiare il cuore. Perchè quella madre siamo tutte, donne che quotidianamente generano idee, nutrono relazioni e danno alla luce figli e figlie. E che non pensano che diventare madre oggi può significare morire.

No, non possiamo crederlo, non nel 2019, non in Italia.

O forse si.

Forse da oggi, dobbiamo fare spazio a questo ossimoro che coniuga la vita e la morte, le intreccia in un abbraccio impossibile da sciogliersi, un primo abbraccio di una madre verso il suo bambino venuto al mondo. Un ultimo abbraccio prima di andare via, per sempre. Ed è quel “per sempre” che ci trascina in un vortice di domande e rabbia su quanto valore oggi, ha l’evento nascita, in una gestione sanitaria decadente che uccide e lascia orfani. E ci lascia orfane incredule di quanto è successo.

Quando muore una madre, moriamo tutte. E nulla sarà come prima.

Perchè il sacrificio di una madre urla giustizia e perchè solo la consapevolezza (vera) e il cambiamento, potrà dare un senso a questo dolore immenso che si unisce al dolore corale di una regione, quotidianamente stuprata e che fatica a rialzarsi. E a proteggere i suoi figli e le sue figlie.

Abbiamo bisogno di dare un senso, mentre moriamo tutte insieme a Tina.

Abbiamo bisogno di alleanza e coraggio affinchè l’evento nascita sia un momento rispettato e sicuro, abbiamo bisogno di voce e consapevolezza, perchè ogni donna e madre possa sentirsi tutelata nei suoi bisogni e quelli del suo bambino o della sua bambina. Abbiamo bisogno di braccia forti per sostenere i padri e le famiglie.

Abbiamo bisogno di una sanità che ci rassicura.

Perchè quando muore una madre, moriamo tutte, donne e madri di una Calabria assolata, stuprata e abbandonata, che urla giustizia e cambiamento.

Scusaci Tina, se non abbiamo saputo proteggere te e la tua famiglia.

Cecilia Gioia

Associazione di Volontariato MammacheMamme

 

 

 

QM: il Quoziente Mammesco.

Come-la-gravidanza-potenzia-il-cervello-656x463

Foto dal web

Strana sigla il QM, di comprensione non immediata, ma per una che si occupa da tanti (sic!) anni di neuropsicologia, non nascondo di provare un misto di soddisfazione nel raccontare questa piacevole “scoperta”.

Bene, partendo da queste premesse, che cos’è il Quoziente Mammesco?

Nel linguaggio comune probabilmente è capitato di incontrare più volte il termine di Quoziente Intellettivo o QI, e allora procediamo con ordine e se vi va, provate a seguirmi.

In neuropsicologia parliamo di Quoziente Intellettivo (QI) come il punteggio che si ottiene attraverso un Test di Intelligenza, cioè un test standardizzato che misura l’efficienza intellettiva. E’ bene sottolineare che i test di intelligenza misurano delle abilità specifiche (intelligenza psicometrica) e non l’intelligenza “vera” che invece comprende una serie di aspetti e abilità. Infatti il QI è semplicemente un indice quantitativo: dimostra se lo sviluppo cognitivo procede in linea con il gruppo di riferimento, è un ottimo indicatore da utilizzare nella ricerca ma “perde” di quegli aspetti squisitamente individuali che tanto ci rendono umanamente interessanti ed unici. Due autori Horn e Cattell mi colpirono durante i miei studi, per il concetto di intelligenza cristallizzata, ovvero quelle capacità cognitive acquisite tramite la socializzazione e la cultura, basate quindi sul sapere e sull’esperienza e meno toccate dai processi di logoramento dovuti all’invecchiamento; e di intelligenza fluida, ovvero quelle capacità cognitive come il problem solving, il pensiero induttivo e la memoria associativa, che sono legate alla predisposizione fisica e quindi al buon funzionamento di specifiche strutture neurofisiologiche e che si riducono, con l’età. A tutto questo, mentre sorvoliamo anni e anni di studi sull’intelligenza, voglio aggiungere il concetto conosciuto e largamente usato di intelligenza emotiva di Goleman, che include “la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli altrui, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali”.

Bene, e allora perché non parlare di intelligenza materna, che racchiude alcuni aspetti delle intelligenze sopraelencate e che può essere facilmente identificata, e magari un giorno, “classificata” con il Quoziente Mammesco?

E qui le nostre competenze di mamme, tante, uniche riescono facilmente ad identificarsi, riconoscendosi in tutte queste abilità sopraelencate.

Iniziamo dalle strategie di problem solving, cavallo di battaglia di noi mamme, sollecitate sempre da situazioni spesso di “emergenza” che ci costringono a ragionare in tempi immediati e imprevedibili. Il pensiero induttivo, di aristotelica memoria, tanto caro a noi mamme, sempre alle prese con particolari premesse da cui partire per arrivare a conclusioni probabilmente vere, in termini di probabilità, assecondando i tempi ristretti a cui spesso è sottoposto il nostro pensiero. Un esempio di pensiero induttivo mammesco che ci farà sorridere un po’ ma in cui molte di noi si riconosceranno è “In classe di mio figlio, ho visto un bimbo raffreddato, un secondo bimbo raffreddato… allora probabilmente tutti i bimbi della classe sono raffreddati”.

Alzi la mano chi si riconosce in questo tipo di pensiero?

Ma continuiamo con la memoria associativa che sembra essere a forma più primitiva di memoria molto nutrita nelle mamme perché costantemente sollecitata da associazioni di informazioni e che permette a diversi ricordi di legarsi tra loro come anelli di una catena. Anche in questo caso noi mamme siamo speciali, riusciamo a partire da un piccolo ricordo per ricostruire anni e anni di informazioni acquisite, non tralasciando nulla, anzi arricchendo le di nuovi particolari digeriti nel corso del tempo.

E poi c’è l’intelligenza emotiva, un misto di empatia, motivazione, autocontrollo, logica, capacità di adattamento e di gestione delle proprie emozioni, utile per utilizzare i lati positivi di ogni situazione cui si va incontro. Per Goleman l’intelligenza emotiva racchiude due competenze a cui attribuisce delle caratteristiche specifiche:

  1. Competenza personale, ovvero il modo in cui controlliamo noi stessi e che comprende
  • la consapevolezza di sé, utile per riconoscere le proprie emozioni e le proprie risorse;
  • la padronanza di sé che racchiude l’abilità ad adattarsi e una buona resilienza
  • e la motivazione, spinta energetica che guida l’individuo verso nuovi obiettivi da raggiungere.
  1. Competenza sociale, ossia la modalità con cui gestiamo le relazioni con l’Altro che comprende:

– l’empatia, ovvero la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui, individuare e promuovere le opportunità offerte dall’incontro con altre persone e il saper interagire all’interno di un gruppo.

– le abilità sociali,  che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili e favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo che consenta di lavorare per obiettivi comuni.

Alla luce di tutto questo, alzi la mano chi come donna e mamma, non esercita quotidianamente questo tipo di intelligenza?

Immagino che ognuna di noi, nei suoi tempi diversi di maternità, possa riconoscersi in queste caratteristiche e provare a guardare a sè stessa con gratitudine per l’enorme lavoro cognitivo ed emotivo che porta avanti.

E allora diciamolo a gran voce, il Quoziente Mammesco esiste davvero perché racchiude tutto questo e altro ancora e noi mamme spesso, non ne siamo davvero consapevoli.

Ecco perchè è importante parlarne e risvegliare in noi le nostre coscienze spesso sopite che dimenticano di riconoscersi il nostro immenso valore. Ed è per questo che come donna e madre di cielo e di terra rivendico, con orgoglio, il mio Quoziente Mammesco come risorsa inesauribile che genera crescita e cambia-Menti fuori e dentro di me.

E tu, conosci il tuo Quoziente Mammesco?

Cecilia Gioia

 

 

 

 

 

Quando le pance brontolano (e si raccontano).

Mafalda-assemblea1a

Foto dal web

Il titolo può far pensare ad una risposta fisiologica da risveglio in attesa di una abbondante colazione, in realtà ben si riferisce ad un brontolio psicologico, persistente e rumoroso che spesso fatichiamo a riconoscere.

Si, perchè la nostra psiche parla, racconta e brontola.
La mia poi, ultimamente (sarà l’età?) va spesso in sciopero, riconoscendosi il diritto di esprimere la sua perchè attivata dalle innumerevoli sollecitazioni che la vita quotidiana ci regala. Ed ecco che il brontolio aumenta, linkando ad episodi scomodi, tessendo una rete densa e spesso difficile da mollare.
Essere consapevole di questo movimento psichico permette a noi stessi di entrare in contatto con le emozioni più rumorose per ascoltarle e fare spazio alle loro innumerevoli sfaccettature.
Essere in ascolto di noi ci fa connettere con le nostre parti che spesso dimentichiamo o proviamo a rendere afone. Strategia davvero inutile e dispendiosa, perchè scarsamente funzionale e irrispettosa dei nostri bisogni.
Ecco perchè ho imparato negli anni a fare spazio al mio brontolio psichico regalando alla sua narrazione uno spazio confortevole e legittimo. Mi piace pensarmi eternamente in ascolto, un ascolto attivo e curioso mentre tutte le mie parti si riuniscono e fanno assemblea raccontandosi giornate dal retrogusto un pò amaro, mostrando piccole e grandi ferite da battaglia e imparando strategicamente a prendersene cura. Le immagino davvero così, piccole parti di un IO unitario e ribelle, che spesso faticano a convivere ma che con gli anni hanno imparato a sperimentare un equilibrio flessibile e trasformabile.
Perchè in fondo siamo davvero così, contenitori e contenuti densi di significati e significanti, in attesa di narrarsi storie e briciole, in attesa di scoprirci uniche/i mentre la pancia brontola compiaciuta, noi impariamo ad amarci.
Cecilia Gioia

UBUNTU: “Le persone diventano persone grazie ad altre persone”

FilosofiaUbuntu-e1505252901610

Foto dal web

In Africa esiste un concetto noto come Ubuntu, il senso profondo dell’essere umani solo attraverso l’umanità degli altri; se concluderemo qualcosa al mondo sarà grazie al lavoro e alla realizzazione degli altri“( Nelson Mandela, novembre 2008)

Ubuntu è un’espressione in lingua bantu, è una regola di vita, basata sulla compassione, il rispetto dell’altr*. L’ubuntu ci esorta a sostenerci e aiutarci reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei nostri diritti, ma anche dei nostri doveri, poiché è un desiderio di pace verso l’umanità intera.

Una frase  che sintetizza questa filosofia è umuntu ngumuntu ngabantu, ovvero io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo. 

Quanta consapevolezza dentro queste parole!

Ma cosa significa praticare l’Ubuntu?

Ubuntu si declina come una presa di coscienza dei propri diritti e doveri il cui rispetto porta verso la pace fra tutti gli uomini e le donne.

In quest’ottica, il rito del saluto assume un significato fondamentale: l’ espressione SAWU BONA (che equivale ad un nostro ciao),  significa TI VEDO, e la risposta di chi riceve il saluto è SIKHONA, SONO QUI.

Lo scambio dei saluti è fondamentale perchè finchè l’altro non mi vede io non esisto.

Riconoscersi un’identità nel momento in cui l’altr* ci vede , ci rispetta e ci riconosce come persona significa entrare in relazione  ( ti vedo / sono qui ) ed essere disponibili ad accogliere le reciproche differenze. E dà valore all’incontro con l’altr* come occasione di crescita per l’umanità intera.

Quanta saggezza ci dona la Madre Africa, ricordando a noi, uomini e donne di questo tempo, così distratt* e centrat* su un individualismo sterile, l’importanza di saper stare in relazione.

Per me Ubuntu è un inno alla forza creatrice che genera sentimenti di compassione e gratitudine verso l’altr* me.

Ubuntu è dunque un occasione per cogliere la relazionalità della vita: qualunque persona dipende da altre persone e nessuno è totalmente indipendente e inutile.

Perchè la vita è un dono e va celebrata ogni giorno con gratitudine, per trsmettere poi alle generazioni future, il significato profondo dell’ Ubuntu come occasione quotidiana per stabilire relazioni che nutrono e generano.

Perchè fare il bene genera forza vitale e, in chi riceve, un riconoscimento di chi dona e una responsabilità nei suoi confronti. L’atto di riconoscere e rispondere è fare il bene. A partire da questa reciprocità, la generosità può davvero tradursi in solidarietà. E mai come in questo periodo storico così buio, l’Umanità necessita di ricordare a se stessa il valore dell’Ubuntu, per imparare a vivere coltivando valori orientati ad accrescere tanto la propria vita quanto quella degli altri, in un’osmotico scambio che genera cambia-Menti e rinascita.

Cecilia Gioia

 

Sei un* stupid*! Riflessioni sulla violenza verbale.

violenza-bambini

Foto dal web

Come genitori abbiamo il dovere di conoscere il significato delle parole che comunichiamo ai nostri figli e alle nostre figlie.
Perchè le parole possono creare ponti e opportunità o pregiudizi e barriere.
Perchè chiamare i nostri bambini e le nostre bambine cattiv*, stupid*, furbett*, incapac*, brutt* è una forma di VIOLENZA.
Spesso noi genitori non ci rendiamo conto di come interagiamo negativamente con loro giudicando “normale” il nostro comportamento.
Ma cosa c’è di normale nel sottoporli a continue critiche, esprimendo giudizi negativi sulla loro personalità, sul loro aspetto fisico e sulla loro intelligenza?
La violenza verbale, perchè di violenza si tratta,  è un attacco al sentimento di valore della persona che lo subisce. Violentare un bambino o una bambina attraverso le parole significa violentare la sua psiche, significa lasciare un segno indelebile su di lui o su di lei durante la sua infanzia,un momento molto critico della fase evolutiva di una persona, in cui il sistema nervoso e il cervello sono molto vulnerabili a qualsiasi stimolo esterno.

Uno studio del 2017 ha dimostrato che la violenza verbale può provocare disturbi dell’attenzione e della memoria, difficoltà di linguaggio e sviluppo intellettivo, insuccesso scolastico.

Secondo i dati della National Child Traumatic Stress Network (NCTSN), di fatto, la violenza psicologica è la forma più frequente di abuso. Alla luce di tutto questo è molto importante, in quanto genitori, fare attenzione alla comunicazione verso i nostri figli e le nostre figlie. È fondamentale verificare quotidianamente come e cosa comunichiamo, imparando a concentrare le nostre attenzioni su quello che c’è e non su quello che manca.
Ecco perchè come figlia, madre e psicoterapeuta RIVENDICO IL DIRITTO delle bambine e dei bambini di NON RICEVERE etichette e giudizi che inflluenzano negativamente sulla loro autostima e contribuiscono a sviluppare una concezione negativa di sé.
Perchè la relazione con i nostri figli e le nostre figlie non si nutre di oggetti, ma di parole rispettose, di tocchi gentili e di sguardi che rassicurano.
Perchè non possiamo insegnare loro il valore del rispetto se noi come genitori non sappiamo rispettarli.
Perchè i figli e le figlie sono un Inno alla Vita ed è nostro dovere nutrirli di amore e di fiducia, ogni giorno.
Questa riflessione perchè  sul web ho letto l’ennesimo post che ridicolizzava un bambino utilizzando etichette dispregiative e presentando tutto questo come la norma per un genitore (dalla serie “Il figlio è mio e posto ciò che mi piace”). La vista di quella foto mi ha colpita, è stato come ricevere un pugno nello stomaco, perchè ho visto negli occhi di quel bambino la delusione di essere stato dato in pasto al web dal genitore, senza alcun rispetto.
Cecilia Gioia