QM: il Quoziente Mammesco.

Come-la-gravidanza-potenzia-il-cervello-656x463

Foto dal web

Strana sigla il QM, di comprensione non immediata, ma per una che si occupa da tanti (sic!) anni di neuropsicologia, non nascondo di provare un misto di soddisfazione nel raccontare questa piacevole “scoperta”.

Bene, partendo da queste premesse, che cos’è il Quoziente Mammesco?

Nel linguaggio comune probabilmente è capitato di incontrare più volte il termine di Quoziente Intellettivo o QI, e allora procediamo con ordine e se vi va, provate a seguirmi.

In neuropsicologia parliamo di Quoziente Intellettivo (QI) come il punteggio che si ottiene attraverso un Test di Intelligenza, cioè un test standardizzato che misura l’efficienza intellettiva. E’ bene sottolineare che i test di intelligenza misurano delle abilità specifiche (intelligenza psicometrica) e non l’intelligenza “vera” che invece comprende una serie di aspetti e abilità. Infatti il QI è semplicemente un indice quantitativo: dimostra se lo sviluppo cognitivo procede in linea con il gruppo di riferimento, è un ottimo indicatore da utilizzare nella ricerca ma “perde” di quegli aspetti squisitamente individuali che tanto ci rendono umanamente interessanti ed unici. Due autori Horn e Cattell mi colpirono durante i miei studi, per il concetto di intelligenza cristallizzata, ovvero quelle capacità cognitive acquisite tramite la socializzazione e la cultura, basate quindi sul sapere e sull’esperienza e meno toccate dai processi di logoramento dovuti all’invecchiamento; e di intelligenza fluida, ovvero quelle capacità cognitive come il problem solving, il pensiero induttivo e la memoria associativa, che sono legate alla predisposizione fisica e quindi al buon funzionamento di specifiche strutture neurofisiologiche e che si riducono, con l’età. A tutto questo, mentre sorvoliamo anni e anni di studi sull’intelligenza, voglio aggiungere il concetto conosciuto e largamente usato di intelligenza emotiva di Goleman, che include “la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli altrui, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali”.

Bene, e allora perché non parlare di intelligenza materna, che racchiude alcuni aspetti delle intelligenze sopraelencate e che può essere facilmente identificata, e magari un giorno, “classificata” con il Quoziente Mammesco?

E qui le nostre competenze di mamme, tante, uniche riescono facilmente ad identificarsi, riconoscendosi in tutte queste abilità sopraelencate.

Iniziamo dalle strategie di problem solving, cavallo di battaglia di noi mamme, sollecitate sempre da situazioni spesso di “emergenza” che ci costringono a ragionare in tempi immediati e imprevedibili. Il pensiero induttivo, di aristotelica memoria, tanto caro a noi mamme, sempre alle prese con particolari premesse da cui partire per arrivare a conclusioni probabilmente vere, in termini di probabilità, assecondando i tempi ristretti a cui spesso è sottoposto il nostro pensiero. Un esempio di pensiero induttivo mammesco che ci farà sorridere un po’ ma in cui molte di noi si riconosceranno è “In classe di mio figlio, ho visto un bimbo raffreddato, un secondo bimbo raffreddato… allora probabilmente tutti i bimbi della classe sono raffreddati”.

Alzi la mano chi si riconosce in questo tipo di pensiero?

Ma continuiamo con la memoria associativa che sembra essere a forma più primitiva di memoria molto nutrita nelle mamme perché costantemente sollecitata da associazioni di informazioni e che permette a diversi ricordi di legarsi tra loro come anelli di una catena. Anche in questo caso noi mamme siamo speciali, riusciamo a partire da un piccolo ricordo per ricostruire anni e anni di informazioni acquisite, non tralasciando nulla, anzi arricchendo le di nuovi particolari digeriti nel corso del tempo.

E poi c’è l’intelligenza emotiva, un misto di empatia, motivazione, autocontrollo, logica, capacità di adattamento e di gestione delle proprie emozioni, utile per utilizzare i lati positivi di ogni situazione cui si va incontro. Per Goleman l’intelligenza emotiva racchiude due competenze a cui attribuisce delle caratteristiche specifiche:

  1. Competenza personale, ovvero il modo in cui controlliamo noi stessi e che comprende
  • la consapevolezza di sé, utile per riconoscere le proprie emozioni e le proprie risorse;
  • la padronanza di sé che racchiude l’abilità ad adattarsi e una buona resilienza
  • e la motivazione, spinta energetica che guida l’individuo verso nuovi obiettivi da raggiungere.
  1. Competenza sociale, ossia la modalità con cui gestiamo le relazioni con l’Altro che comprende:

– l’empatia, ovvero la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui, individuare e promuovere le opportunità offerte dall’incontro con altre persone e il saper interagire all’interno di un gruppo.

– le abilità sociali,  che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili e favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo che consenta di lavorare per obiettivi comuni.

Alla luce di tutto questo, alzi la mano chi come donna e mamma, non esercita quotidianamente questo tipo di intelligenza?

Immagino che ognuna di noi, nei suoi tempi diversi di maternità, possa riconoscersi in queste caratteristiche e provare a guardare a sè stessa con gratitudine per l’enorme lavoro cognitivo ed emotivo che porta avanti.

E allora diciamolo a gran voce, il Quoziente Mammesco esiste davvero perché racchiude tutto questo e altro ancora e noi mamme spesso, non ne siamo davvero consapevoli.

Ecco perchè è importante parlarne e risvegliare in noi le nostre coscienze spesso sopite che dimenticano di riconoscersi il nostro immenso valore. Ed è per questo che come donna e madre di cielo e di terra rivendico, con orgoglio, il mio Quoziente Mammesco come risorsa inesauribile che genera crescita e cambia-Menti fuori e dentro di me.

E tu, conosci il tuo Quoziente Mammesco?

Cecilia Gioia

 

 

 

 

 

Quando le pance brontolano (e si raccontano).

Mafalda-assemblea1a

Foto dal web

Il titolo può far pensare ad una risposta fisiologica da risveglio in attesa di una abbondante colazione, in realtà ben si riferisce ad un brontolio psicologico, persistente e rumoroso che spesso fatichiamo a riconoscere.

Si, perchè la nostra psiche parla, racconta e brontola.
La mia poi, ultimamente (sarà l’età?) va spesso in sciopero, riconoscendosi il diritto di esprimere la sua perchè attivata dalle innumerevoli sollecitazioni che la vita quotidiana ci regala. Ed ecco che il brontolio aumenta, linkando ad episodi scomodi, tessendo una rete densa e spesso difficile da mollare.
Essere consapevole di questo movimento psichico permette a noi stessi di entrare in contatto con le emozioni più rumorose per ascoltarle e fare spazio alle loro innumerevoli sfaccettature.
Essere in ascolto di noi ci fa connettere con le nostre parti che spesso dimentichiamo o proviamo a rendere afone. Strategia davvero inutile e dispendiosa, perchè scarsamente funzionale e irrispettosa dei nostri bisogni.
Ecco perchè ho imparato negli anni a fare spazio al mio brontolio psichico regalando alla sua narrazione uno spazio confortevole e legittimo. Mi piace pensarmi eternamente in ascolto, un ascolto attivo e curioso mentre tutte le mie parti si riuniscono e fanno assemblea raccontandosi giornate dal retrogusto un pò amaro, mostrando piccole e grandi ferite da battaglia e imparando strategicamente a prendersene cura. Le immagino davvero così, piccole parti di un IO unitario e ribelle, che spesso faticano a convivere ma che con gli anni hanno imparato a sperimentare un equilibrio flessibile e trasformabile.
Perchè in fondo siamo davvero così, contenitori e contenuti densi di significati e significanti, in attesa di narrarsi storie e briciole, in attesa di scoprirci uniche/i mentre la pancia brontola compiaciuta, noi impariamo ad amarci.
Cecilia Gioia

UBUNTU: “Le persone diventano persone grazie ad altre persone”

FilosofiaUbuntu-e1505252901610

Foto dal web

In Africa esiste un concetto noto come Ubuntu, il senso profondo dell’essere umani solo attraverso l’umanità degli altri; se concluderemo qualcosa al mondo sarà grazie al lavoro e alla realizzazione degli altri“( Nelson Mandela, novembre 2008)

Ubuntu è un’espressione in lingua bantu, è una regola di vita, basata sulla compassione, il rispetto dell’altr*. L’ubuntu ci esorta a sostenerci e aiutarci reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei nostri diritti, ma anche dei nostri doveri, poiché è un desiderio di pace verso l’umanità intera.

Una frase  che sintetizza questa filosofia è umuntu ngumuntu ngabantu, ovvero io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo. 

Quanta consapevolezza dentro queste parole!

Ma cosa significa praticare l’Ubuntu?

Ubuntu si declina come una presa di coscienza dei propri diritti e doveri il cui rispetto porta verso la pace fra tutti gli uomini e le donne.

In quest’ottica, il rito del saluto assume un significato fondamentale: l’ espressione SAWU BONA (che equivale ad un nostro ciao),  significa TI VEDO, e la risposta di chi riceve il saluto è SIKHONA, SONO QUI.

Lo scambio dei saluti è fondamentale perchè finchè l’altro non mi vede io non esisto.

Riconoscersi un’identità nel momento in cui l’altr* ci vede , ci rispetta e ci riconosce come persona significa entrare in relazione  ( ti vedo / sono qui ) ed essere disponibili ad accogliere le reciproche differenze. E dà valore all’incontro con l’altr* come occasione di crescita per l’umanità intera.

Quanta saggezza ci dona la Madre Africa, ricordando a noi, uomini e donne di questo tempo, così distratt* e centrat* su un individualismo sterile, l’importanza di saper stare in relazione.

Per me Ubuntu è un inno alla forza creatrice che genera sentimenti di compassione e gratitudine verso l’altr* me.

Ubuntu è dunque un occasione per cogliere la relazionalità della vita: qualunque persona dipende da altre persone e nessuno è totalmente indipendente e inutile.

Perchè la vita è un dono e va celebrata ogni giorno con gratitudine, per trsmettere poi alle generazioni future, il significato profondo dell’ Ubuntu come occasione quotidiana per stabilire relazioni che nutrono e generano.

Perchè fare il bene genera forza vitale e, in chi riceve, un riconoscimento di chi dona e una responsabilità nei suoi confronti. L’atto di riconoscere e rispondere è fare il bene. A partire da questa reciprocità, la generosità può davvero tradursi in solidarietà. E mai come in questo periodo storico così buio, l’Umanità necessita di ricordare a se stessa il valore dell’Ubuntu, per imparare a vivere coltivando valori orientati ad accrescere tanto la propria vita quanto quella degli altri, in un’osmotico scambio che genera cambia-Menti e rinascita.

Cecilia Gioia

 

Sei un* stupid*! Riflessioni sulla violenza verbale.

violenza-bambini

Foto dal web

Come genitori abbiamo il dovere di conoscere il significato delle parole che comunichiamo ai nostri figli e alle nostre figlie.
Perchè le parole possono creare ponti e opportunità o pregiudizi e barriere.
Perchè chiamare i nostri bambini e le nostre bambine cattiv*, stupid*, furbett*, incapac*, brutt* è una forma di VIOLENZA.
Spesso noi genitori non ci rendiamo conto di come interagiamo negativamente con loro giudicando “normale” il nostro comportamento.
Ma cosa c’è di normale nel sottoporli a continue critiche, esprimendo giudizi negativi sulla loro personalità, sul loro aspetto fisico e sulla loro intelligenza?
La violenza verbale, perchè di violenza si tratta,  è un attacco al sentimento di valore della persona che lo subisce. Violentare un bambino o una bambina attraverso le parole significa violentare la sua psiche, significa lasciare un segno indelebile su di lui o su di lei durante la sua infanzia,un momento molto critico della fase evolutiva di una persona, in cui il sistema nervoso e il cervello sono molto vulnerabili a qualsiasi stimolo esterno.

Uno studio del 2017 ha dimostrato che la violenza verbale può provocare disturbi dell’attenzione e della memoria, difficoltà di linguaggio e sviluppo intellettivo, insuccesso scolastico.

Secondo i dati della National Child Traumatic Stress Network (NCTSN), di fatto, la violenza psicologica è la forma più frequente di abuso. Alla luce di tutto questo è molto importante, in quanto genitori, fare attenzione alla comunicazione verso i nostri figli e le nostre figlie. È fondamentale verificare quotidianamente come e cosa comunichiamo, imparando a concentrare le nostre attenzioni su quello che c’è e non su quello che manca.
Ecco perchè come figlia, madre e psicoterapeuta RIVENDICO IL DIRITTO delle bambine e dei bambini di NON RICEVERE etichette e giudizi che inflluenzano negativamente sulla loro autostima e contribuiscono a sviluppare una concezione negativa di sé.
Perchè la relazione con i nostri figli e le nostre figlie non si nutre di oggetti, ma di parole rispettose, di tocchi gentili e di sguardi che rassicurano.
Perchè non possiamo insegnare loro il valore del rispetto se noi come genitori non sappiamo rispettarli.
Perchè i figli e le figlie sono un Inno alla Vita ed è nostro dovere nutrirli di amore e di fiducia, ogni giorno.
Questa riflessione perchè  sul web ho letto l’ennesimo post che ridicolizzava un bambino utilizzando etichette dispregiative e presentando tutto questo come la norma per un genitore (dalla serie “Il figlio è mio e posto ciò che mi piace”). La vista di quella foto mi ha colpita, è stato come ricevere un pugno nello stomaco, perchè ho visto negli occhi di quel bambino la delusione di essere stato dato in pasto al web dal genitore, senza alcun rispetto.
Cecilia Gioia

Le differenze che nutrono.

educare-alle-differenze-di-genee

Foto dal web

Educarmi alle differenze significa volermi bene.

Significa ascoltare i brontolii di pancia quando incontro l’altr* me, imparando ad andare oltre.

Significa attribuire significanti a significati, dando il giusto spazio alle persone e trovando con loro la giusta distanza, per conoscersi o riconoscersi.

Educarmi alle differenze rappresenta una delle mie più grandi conquiste da conquistare.

E’ un lavoro quotidiano e costante, ci si allena sempre per imparare a decodificare i segnali esterni, traducendoli in messaggi sostenibili.

E per rendere tutto questo concreto è necessario imparare a stare “dentro” gli incontri, anche quelli più scomodi, per coglierne le sfumature e favorire l’esplorazione.

E’ un lavoro coraggioso, implica grande curiosità e un buon dialogo interno con sé stess*.

E’ un lavoro raffinato, ci si sofferma sui dettagli alla continua ricerca di bellezza.

Perché c’è bellezza ovunque, basta allenare lo sguardo e la pelle*.

E la fiducia verso gli incontri che quotidianamente caratterizzano la nostra vita.

Perché si apprende sempre e ogni scenario che attraversiamo può trasformarsi in luoghi di apprendimento.

Gli sguardi poi approfondiscono, le emozioni consolidano, i contatti integrano.

Quante occasioni in ogni incontro, anche in quello meno atteso!

Educarmi alle differenze significa questo e molto altro, scoprirlo è il mio compito, ricordarlo a me stessa, la mia missione.

Cecilia Gioia

*La conduttanza cutanea misura un concetto spesso citato dalla psicologia, chiamato arousal ovvero una attivazione generale che ognuno di noi prova quando si trova di fronte ad una particolare situazione: ad esempio, una minaccia (sensazione di paura) oppure a una festa a sorpresa per il nostro compleanno (sensazione di sorpresa e gioia incontenibile).

Il dono: una storia zen.

equilibrio

Foto dal web

C’era una volta un anziano samurai che si dedicava a insegnare il buddismo zen a giovani allievi. Malgrado la sua età, correva la leggenda che fosse ancora capace di sconfiggere qualunque avversario.
Un pomeriggio si presentò un giovane guerriero conosciuto per la sua totale mancanza di scrupoli. Egli era famoso per l’uso della tecnica della provocazione: aspettava che l’avversario facesse la prima mossa e, dotato di una eccezionale intelligenza che gli permetteva di prevedere gli errori che avrebbe commesso l’avversario, contrattaccava con velocità fulminante. Questo giovane e impaziente guerriero non aveva mai perduto uno scontro. Conoscendo la reputazione del samurai, aveva deciso di sfidarlo, sconfiggerlo e accrescere così la propria fama.
Tutti gli allievi del vecchio samurai si dichiararono contrari all’idea, ma il maestro decise ugualmente di accettare la sfida lanciata dal giovane guerriero.
Si recarono tutti nella piazza della città: il giovane cominciò a insultare l’anziano maestro. Lanciò prima alcuni sassi nella sua direzione, gli sputò poi in faccia. Gli urlò tutti gli insulti che conosceva, offendendo addirittura i suoi antenati. Per lunghe ore fece di tutto per provocarlo, tuttavia il vecchio si mantenne impassibile.
Sul finire del pomeriggio, quando ormai si sentiva esausto e umiliato, l’impetuoso guerriero si ritirò.
Delusi dal fatto che il maestro avesse accettato tanti insulti e tante provocazioni senza reagire, gli allievi gli domandarono:
– “Come avete potuto sopportare tante indegnità? Perché non avete usato la vostra spada? Anche sapendo che avreste potuto perdere la lotta, avreste mostrato il vostro coraggio! La gente penserà che siete un codardo!”
L’anziano maestro samurai, allora domandò loro:
– “Se qualcuno vi si avvicina con un dono e voi non lo accettate, a chi appartiene il dono?”
– “Appartiene a chi ha tentato di regalarlo” – rispose uno dei ragazzi.
– “Lo stesso vale per l’invidia, la rabbia e gli insulti” – disse il maestro – “Quando invidia, rabbia e insulti non vengono accettati, continuano ad appartenere a chi li porta con sé”.

Lo Zen è una filosofia buddhista, un’arte del vivere e un modo d’essere. Secondo lo Zen questo processo si realizza attraverso la pratica, ovvero imparare a vivere con consapevolezza e agire in accordo con la propria natura: “Quando cammini cammina, quando sei seduto sii seduto, soprattutto non vacillare“.

Grazie agli insegnamenti zen possiamo quotidianamente imparare a mantenere il nostro equilibrio interiore nonostante le tante provocazioni che siamo costretti a “subire”.

Il racconto del vecchio Samurai ci insegna a come accogliere esperienze emotivamente tossiche senza lasciarsi inquinare psicologicamente e fisicamente. Imparare ad allontanare dalla propria vita ciò percepiamo come tossico, protegge il nostro equilibrio e le nostre energie. Alla luce di questo è necessario comprendere la differenza tra “reagire” e “rispondere” ad una provocazione. In genere reagiamo alle circostanze, come ad esempio, se qualcuno urla contro di noi, reagiamo allo stesso modo, urlando.

Aggrapparsi alla rabbia è come afferrare un carbone ardente con l’intento di gettarlo a qualcun altro; sei sempre e solo tu a rimanere bruciato”. Buddha

Ma possiamo imparare a rispondere, decidendo consapevolmente di avere il controllo. Vale a dire che se non accettiamo le provocazioni, i regali avvelenati, eviteremo di essere contagiati dalla loro tossicità.

“Siamo al mondo per convivere in armonia; coloro che ne sono consapevoli non lottano tra di loro” Buddha
In che modo?
  • Scopriamo cosa attiva in noi le risposte maladattive al punto di perdere il controllo. Questo ci permetterà di riconoscere i trigger che innescano in noi comportamenti di attacco/fuga da alcune situazioni per ripristinare la nostra sicurezza interna. Generalmente queste modalità sono apprese durante i nostri primi anni di vita.
  • Impariamo a lasciare il nostro passato alle spalle, trasformando le esperienze passate, anche quelle più dolorose, come insegnamenti. Riconoscere le proprie ferite e prendersene cura determina in noi un processo di guarigione interiore che ci rende più forti e ci fa sentire sicur*.
  • Guardiamo ai nostri stati emotivi come a delle nuvole transitorie che ora coprono il cielo, ma presto non ci saranno più. Se non ci lasciamo trasportare, è possibile non agire sulla rabbia e sulle provocazioni, imparando ad accettare o rifiutare quello che gli altri ti offrono.. E ricordiamo che è impossibile controllare tutte le nostre reazioni emotive, ma possiamo imparare a riconoscere e guidare in modo funzionale i nostri atteggiamenti e comportamenti.
Cecilia Gioia

 

 

 

Siamo tutti dei porcospini?

porco

Foto dal web

“Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”. (Arthur Schopenhauer – ‘Parerga e Paralipomena’).

In questo breve racconto, il filosofo Arthur Schopenhauer ci fa riflettere sulla difficoltà del vivere in gruppo e mantenere la giusta distanza nelle relazioni interpersonali per non ferirsi l’un l’altro.

Nel dilemma del porcospino, l’unico modo per evitare di ferirsi e di pungersi è quello di restare vicini, ma non troppo vicini. In questo modo i protagonisti riescono a trovare riparo sia dagli aculei che rischiano di pungerli che dal freddo.

Ma siamo tutti dei porcospini quando parliamo di relazioni interpersonali?

Jon Maner e i suoi colleghi hanno voluto approfondire questa domanda con uno studio sperimentale che ha avuto come oggetto il modo in cui le persone rispondono al rifiuto sociale. Nell’ articolo “Does Social Exclusion Motivate Interpersonal Reconnection?Resolving the “Porcupine Problem” gli autori hanno dimostrato che in seguito a continui rifiuti le persone molto ansiose diventano meno socievoli. Le persone più ottimiste, invece, nonostante i rifiuti ricevuti, si impegnano molto per rafforzare le proprie relazioni con gli altri.

I ricercatori concludono « A questo punto va ricordata la risposta che Schopenhauer stesso suggeriva al dilemma del porcospino: infatti Schopenhauer asseriva che le persone cercano naturalmente una distanza di sicurezza dagli altri. “In questo modo” scriveva “il mutuo bisogno di calore viene soddisfatto solo in parte; ma le persone almeno non si feriscono”. (1851/1964, p. 226) Naturalmente Schopenhauer era noto anche per il suo carattere cupo e la sua filosofia era nota per il pessimismo.[5] ».

Alla luce di questo, possiamo davvero sentirci tutti dei porcospini? 

Ognuno di noi può chiederlo a se stess* e provare a rispondere.

Forse molt* di noi provano paura nell’avvicinarsi agli altre o alle altre a causa di alcuni eventi dolorosi del nostro passato. Forse fatichiamo a sperimentare il valore del contatto come occasione di nutrimento, ma non dovremmo mai rinunciare alla nostra vita sociale. Non dovremmo mai evitare di entrare nella relazione con l’altr*, perchè è vero, i rapporti con gli altri e con le altre sono sempre una scommessa, ma è proprio questo che li rende unici e preziosi. E il nostro quotidiano impegno a mantenerli in equilibrio un esercizio per conoscerci e conoscere. E crescere.

Cecilia Gioia

Per fortuna che c’è la Musica.

62168169_2365868236992522_1386178043126480896_nAbbiamo bisogno di bellezza e quindi di Arte in tutte le sue sfumature.

Abbiamo bisogno di perderci nel suo nutrimento, per ritrovarci e riconoscerci.

In tempi duri come questi, bisogna allearsi alla bellezza come bussola efficace per non perderci.  Proprio come ieri, in cui ho pensato fortemente: “Per fortuna che c’è la Musica“. Ieri pomeriggio più come mai ne ho assaporato il valore universale e fluido, mentre il coro di voci bianche accompagnava i miei pensieri affaticati. Ed è proprio in quell’istante in cui tempo si sospende, che riesco a ritrovarmi mentre decodifico suoni e melodie, armonizzandomi alla voce di mio figlio Manuel, e dei suoi compagni e compagne del coro. E’ incredibile sentirsi parte di un corpo unico, che emette suoni ordinati per ritmo e altezza a formare una melodia che vibra nell’anima.

Per fortuna che c’è la musica“, quando Esteban in orchestra siede al piano e suona, insieme. Ed è proprio lì che strumenti diversi si riconoscono e si fondono, rimanendo unici. Potere universale della musica, che produce bellezza e armonia.

Quanta bellezza ieri! Meravigliosa infanzia e adolescenza che si mescola nella magia del teatro e ci nutre di grande bellezza! E di speranza.

Bisogna davvero essere grate/i alle/agli insegnanti, che coltivano Arte quotidianamente e ne raccontano la bellezza ai nostri figli e alle nostre figlie.

Bisogna osservarli con ammirazione e profonda gratitudine, perchè in un mondo così duro, loro non hanno smesso di sognare e ricordare a noi di farlo, ogni giorno.

Bisogna proteggerli come un dono per noi e per le generazioni future.

Bisogna quotidianamente imparare a cercare bellezza, arte e rispetto, per ricordare a noi stesse/i di restare umane/i.

Cecilia Gioia

 

Diventare genitori.

0k2_622

Foto dal web

La nascita di un bambino o di una bambina viene considerata da sempre come un evento gioioso. Il vissuto provato della nascita però, è spesso in netto contrasto con questa immagine idealizzata della genitorialità. Il passaggio da figli a genitori è un processo delicato che necessita di molta cura per imparare a coniugare il passato e il futuro accogliendo consapevolmente questa importante trasformazione. Le emozioni dei neogenitori si muovono molto spesso su un continuum che va dalla gioia per la nascita alla tristezza per ciò che lasciano, facendo sperimentare durante il postpartum una instabilità emotiva e una vulnerabilità transitoria legata a questa fase di adattamento. Questo perché l’identità genitoriale è un processo evolutivo che coinvolge i pensieri, le emozioni e la capacità di integrare tutto questo nella propria vita personale, imparando quotidianamente a fare spazio. Mettere al mondo un figlio è concepire nuove parti sè, ed è attraverso questo atto creativo che la coppia sperimenta questo cambiamento.

Mai come in questo periodo storico è necessario, quando è possibile, parlare di triade costituita da madre, padre e bambino/a, triangolazione fondamentale nella formazione della personalità. Ognuno di noi deriva da questo triangolo, in un passaggio generazionale che evidenzia dinamiche psicologiche importanti con le nostre figure genitoriali. Alla luce di tutto questo, in un’ottica di prevenzione primaria e promozione della salute, è fondamentale sostenere i neogenitori verso questa spinta evolutiva che necessita di sostegno e fiducia.

Questo non sempre capita ecco perché per alcuni neo genitori, di ritorno dall’ospedale, può essere davvero faticoso ricevere e intrattenere familiari e amici nella propria casa, in un momento in cui il solo occuparsi delle necessità quotidiane, sembra un qualcosa al di fuori della loro portata. Tutto questo sconvolge la routine familiare, rendendo il rientro a casa più pesante. Una buona organizzazione e una rete efficiente di persone disponibili e il rispetto dei tempi e degli spazi di questo delicato periodo di adattamento, alleggeriranno la vita della nuova famiglia.

Molti neo genitori si trovano inoltre a dover affrontare in solitudine le richieste del neonato o della neonata, la perdita della routine, le notti insonni, i cambiamenti di ruolo comprese le decisioni relative al proprio lavoro. Altri fattori stressanti possono essere l’isolamento, le difficoltà finanziarie o un parto inaspettatamente problematico.

Sappiamo che la donna, dopo il parto, sperimenta un calo dell’umore e una certa instabilità emotiva. I primi giorni che seguono la nascita di un/a figlio/a sono un periodo ricco di sollecitazioni psicologiche e affettive, ma anche neuroendocrine ed ormonali che possono favorire l’insorgere di un’alterazione dell’umore, nella maggior parte dei casi transitoria. In questo caso parliamo di babyblues , e si manifesta nei primi 10 giorni dopo il parto, e tende a risolversi spontaneamente.

E’ presente circa nel 50-80 % delle donne e solo il 10-15% della popolazione generale arriva a manifestare sintomi clinicamente significativi per una depressione postpartum. Rispetto alla baby blues che è una condizione benigna, la depressione postpartum è una patologia da non sottovalutare. Si può manifestare a diversi livelli di intensità: Lieve, Moderato, Severo e può essere legata ad un unico episodio o prolungarsi per più settimane o mesi o ripresentarsi in maniera ripetuta nel corso del tempo.

Negli ultimi anni, vari studi si sono occupati dell’argomento giungendo alla conclusione che la depressione postpartum può colpire circa il 10% dei neo papà di tutto il mondo. Solitamente, questo disturbo colpisce i papà nel primo anno di vita del bambino, con un picco tra i tre mesi e i sei mesi, mentre sembra meno a rischio l’immediato post parto.

Il passaggio dal bambino o dalla bambina immaginario/a al bambino o bambina reale porta ad un iniziale disorientamento che necessita di essere riorganizzato: ci possono volere giorni o settimane, o mesi, ecco perché diventa necessario favorire questo riorganizzazione tenendo conto dei cambiamenti che accompagneranno i neogenitori. Si tratta di cambiamenti tanto incisivi sia per i genitori quanto per il/la neonato/a, il/la quale ha dovuto abbandonare l’ambiente protetto dell’utero materno. D’ora in avanti, dovrà̀ abituarsi alla vita all’esterno ed ecco perché necessiterà̀ soprattutto di contatto fisico e attenzioni.

Tra i cambiamenti più evidenti che coinvolgono i neogenitori troviamo quelli che riguardano le abitudini del sonno. Il ritmo di vita è completamente stravolto, sia di notte che di giorno ed è impensabile dormire un’intera notte per il momento. I genitori non dovrebbero aspettarsi che i loro bambini dormano tutta la notte a 2, 6, 8 mesi o più. In realtà si svegliano tantissimo. Se si svegliano e sono soli, allora il loro scopo è di cercare di ridurre questa separazione, questo senso di abbandono col pianto; in questo caso dormire con o vicino al genitore (cosleeping) è una scelta funzionale, che può consentire a entrambi di dormire bene. La frase del grande psicologo infantile Winnicott: “Non esiste un neonato, esiste un neonato e qualcuno“, è una bella metafora che ci fa comprendere come le “aspettative biologiche” del neonato o della neonata rispetto alle sue esperienze di sonno, sono in netto contrasto con le nostre “aspettative culturali”.

La mancanza di sonno potrebbe rendere entrambi i genitori particolarmente irritabili e farli sentire in difficoltà nell’affrontare le incombenze della vita quotidiana. I neonati hanno bisogno di un contatto corporeo continuo con mamma e papà nei primi mesi e di muoversi con loro. Solo così riescono a scaricare la loro energia. Un genitore che una buona dose di pazienza, si accosti al pianto del neonato o della neonata, coccolandolo/a, nutrendolo/a, stabilendo il contatto, imparerà presto a scoprire i suoi bisogni. I neonati possono piangere perché hanno sete, fame, caldo, freddo, sonno, bisogno di uscire di casa e altri buoni motivi. Spesso il pianto serale dei neonati è confuso con la colica perché durante il pianto, il pancino è teso, ma non è così. Talvolta i gonfiori sono più̀ la conseguenza che la causa del pianto. I neonati infatti, come una cassa di risonanza, percepiscono i sentimenti e la stanchezza della madre accumulata durante la giornata trascorsa e trasformano queste tensioni in un pianto, spesso inconsolabile. Mentre piange il neonato o la neonata ingurgita molta aria e può essere utile tranquillizzarlo/a con lievi massaggi praticati in senso orario sul pancino gonfio oppure prendere i suoi piedini e spingere leggermente le sue ginocchia contro il pancino. Molte mamme si accorgono che i bambini si tranquillizzano non appena si trovano tra le braccia del padre. L’aiuto del papà è fondamentale perché permette alla mamma un momento di pausa e di riposo.

L’allattamento è il prototipo di ogni relazione umana, dove attraverso il seno, si impara a stare con l’altro acquisendo un modello di relazione. Benché allattare sia del tutto naturale, è anche un’arte, un comportamento che si apprende. Spesso questo processo naturale è influenzato già in fase precoce dalla disinformazione del personale sanitario o dalle pratiche ospedaliere. Tutto questo influenza i neogenitori aumentando la confusione e il disorientamento.

Diventa necessario quindi, un supporto psicologico ai neogenitori attraverso la creazione di una rete di sostegno familiare, sociale e sanitaria perché allattare nella nostra società attuale richiede un’inaspettata resilienza alle pressioni quotidiane. E’ importante ricordare che la donna, l’uomo e il bambino o la bambina, ovvero la triade di cui parla Daniel Stern, sono portatori sani di risorse endogene, spesso sconosciute ma presenti. Il compito di noi operatori è far emergere tutto questo, in un clima di fiducia e di rispetto, sostenendo l’allattamento come diritto della famiglia.

La qualità del legame del neonato o della neonata con le sue figure di accudimento è la base della “teoria dell’attaccamento” che descrive il bisogno di ogni persona di costruire un rapporto emozionale con i suoi simili. Ciò risulta particolarmente importante per i neonati: nei primi mesi e anni i piccoli dipendono da chi è in grado di soddisfare le loro principali esigenze e garantire la loro sopravvivenza. I genitori che rispondono in maniera efficace ai segnali di disagio dei bambini o delle bambine, dissolvendo il loro stato di stress, permettono di consolidare in quest’ultimi/e una rappresentazione caratterizzata dall’idea di essere degni/e di ricevere cure, perché riconosciuti/e nelle loro emozioni e nei loro bisogni. Apprenderanno quindi che le figure di accudimento si occuperanno efficacemente di loro, se impareranno a comunicare liberamente i loro bisogni di conforto e di protezione, con una ricaduta da adulti/e in termini di regolazione emotiva, fiducia in se stessi/e e interazioni sociali gratificanti.

Alla luce di tutto questo, se di tanto in tanto, ci si sente frustrati a causa della nuova situazione o sovraccarichi di incombenze, è importante sapere che non si è soli: a molti genitori succede la stessa cosa. Se i genitori sono aiutati dall’esterno, nella maggior parte dei casi il cambiamento risulta più̀ semplice. Se invece, a questo periodo di transizione così delicato, si aggiungono ulteriori disagi, come la malattia o un deficit del neonato o della neonata, le preoccupazioni di natura economica oppure un parto gemellare, spesso la fase del passaggio è maggiormente faticosa. Il modo più funzionale per accompagnare i neogenitori è renderli protagonisti consapevoli di un cambiamento, che inizia ad agire nella coppia già in fase di preconcepimento e che non smetterà di accompagnare, quotidianamente, le piccole e grandi conquiste che caratterizzano il diventare genitori. Aiutare a generare le loro verità equivale a riconoscere le loro competenze, lavorando sulle risorse e sulle nuove possibilità, accogliendo l’apertura verso il nuovo e ricordando a loro stessi il valore delle scelte. Perché non esistono ricette su come trasformarsi da diade felice a famiglia felice. Ogni coppia può trovare la propria strada per organizzare la nuova vita quotidiana, perchè genitori non si nasce ma diventa. Ogni giorno.

Cecilia Gioia, Phd

Psicologa esperta in perinatalità

Psicoterapeuta

U.O. Ostetricia e Ginecologia iGreco Ospedali Riuniti sede operativa Sacro Cuore, Cosenza

La Scala di Edimburgo per un’autovalutazione della depressione post partum.

Maternity-blues-ok-950x545È l’unico test di screening attualmente riconosciuto a livello internazionale. La sua applicazione può rivolgersi a popolazioni di origini etniche diverse. Il test non costituisce di per sé una diagnosi di dpp, ma può essere un punto sa cui partire. In generale si esegue si esegue dopo due settimane dalla nascita del bambino ed è necessario rispondere a tutte le domande e sommare il punteggio.

1) Negli ultimi 7 giorni sono stato capace di sorridere e vedere il lato divertente delle cose:

– Come sempre  = 0 punti
– Un po’ meno del solito = 1
– Decisamente meno del solito = 2
– Per niente = 3

2)  Negli ultimi 7 giorni guardavo alle cose imminenti con gioia:

– Come sempre  = 0 punti
– Un po’ meno del solito = 1
– Decisamente meno del solito = 2
– Per niente = 3

3) Negli ultimi 7 giorni mi rimproveravo senza motivo quando le cose andavano male:

– Sì, per la maggior parte delle volte = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

4) Negli ultimi 7 giorni sono stata ansiosa e preoccupata senza una ragione:

– No, per niente = 0 punti
– Molto raramente = 1
– Sì, qualche volta = 2
– Sì, molto spesso = 3

5) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita spaventata o terrorizzata senza una vera ragione:

– Sì, abbastanza = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

6) Negli ultimi 7 giorni le cose mi sovrastano:

– Sì, per la maggior parte del tempo non riesco a cavarmela affatto = 3 punti
– Sì, a volte non riesco a cavarmela come al solito = 2
– No, la maggior parte delle volte me la cavo abbastanza bene = 1
– No, me la sono cavata come sempre =0

7) Negli ultimi 7 giorni sono stata così infelice che da non riuscire a dormire:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non per molto = 1
– No, mai = 0

8) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita triste e abbattuta:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, abbastanza spesso= 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

9) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita così triste da mettermi a piangere:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, abbastanza spesso = 2
– Soltanto occasionalmente = 1
– No, mai = 0

10) Negli ultimi 7 giorni il pensiero di farmi del male mi è venuto in mente:

– Sì, abbastanza spesso = 3 punti
– Qualche volta = 2
– Quasi mai =1
– Mai = 0

In linea con la letteratura internazionale si può considerare un punteggio 9-11 come indicatore di medio rischio e ≥12 come indicatore di rischio elevato. Il solo punteggio non deve sostituire il giudizio clinico, è opportuno avvalersi di un colloquio clinico approfondito rispetto ai singoli item. L’importante è che non pensare di farcela da sola: la depressione è una malattia a tutti gli effetti e come tale va curata.

Puoi prenotare un colloquio clinico al numero 388/3620740.