Quando muore una madre, moriamo tutte.

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Quando muore una madre, moriamo tutte.

 

E come in un terremoto, ci frantumiamo in mille parti di noi, perchè è davvero troppo, da scoppiare il cuore. Perchè quella madre siamo tutte, donne che quotidianamente generano idee, nutrono relazioni e danno alla luce figli e figlie. E che non pensano che diventare madre oggi può significare morire.

No, non possiamo crederlo, non nel 2019, non in Italia.

O forse si.

Forse da oggi, dobbiamo fare spazio a questo ossimoro che coniuga la vita e la morte, le intreccia in un abbraccio impossibile da sciogliersi, un primo abbraccio di una madre verso il suo bambino venuto al mondo. Un ultimo abbraccio prima di andare via, per sempre. Ed è quel “per sempre” che ci trascina in un vortice di domande e rabbia su quanto valore oggi, ha l’evento nascita, in una gestione sanitaria decadente che uccide e lascia orfani. E ci lascia orfane incredule di quanto è successo.

Quando muore una madre, moriamo tutte. E nulla sarà come prima.

Perchè il sacrificio di una madre urla giustizia e perchè solo la consapevolezza (vera) e il cambiamento, potrà dare un senso a questo dolore immenso che si unisce al dolore corale di una regione, quotidianamente stuprata e che fatica a rialzarsi. E a proteggere i suoi figli e le sue figlie.

Abbiamo bisogno di dare un senso, mentre moriamo tutte insieme a Tina.

Abbiamo bisogno di alleanza e coraggio affinchè l’evento nascita sia un momento rispettato e sicuro, abbiamo bisogno di voce e consapevolezza, perchè ogni donna e madre possa sentirsi tutelata nei suoi bisogni e quelli del suo bambino o della sua bambina. Abbiamo bisogno di braccia forti per sostenere i padri e le famiglie.

Abbiamo bisogno di una sanità che ci rassicura.

Perchè quando muore una madre, moriamo tutte, donne e madri di una Calabria assolata, stuprata e abbandonata, che urla giustizia e cambiamento.

Scusaci Tina, se non abbiamo saputo proteggere te e la tua famiglia.

Cecilia Gioia

Associazione di Volontariato MammacheMamme

 

 

 

Feste di compleanno….strategie di sopravvivenza da bismamma.

 

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Ho calcolato che in media una mamma accompagna i propri figli da una parte all’altra della città, scarrozzandoli nei vari compleanni dei compagni da 1, 5-2 volte al mese. A tutto questo aggiungi l’estrema difficoltà a ricordare i regali degli anni passati, correndo spesso (sic) il rischio di replicare, il risultato che emerge è un’esposizione sistematica a situazioni stressanti e spesso decisamente “scomode”. E allora che fare?

Dopo 12 anni di sovraesposizioni costanti a questi eventi ciclici e, nel mio caso, al quadrato (sono una BisMamma) ho deciso di affrontare il tutto puntando agli aspetti positivi dei compleanni, crocevia di mamme e papà spesso affannati dagli innumerevoli incastri quotidiani.

E quindi mentre aspetto il fatidico giorno, sfrutto la preparazione del biglietto da dare al festeggiato di turno come attività da proporre ai miei bambini; tempo di realizzazione, circa mezz’ora che utilizzo per una doccia veloce e shampoo, piuttosto che una manicure con annesso smalto o altre attività che spesso sono costretta a rimandare. Ovviamente il tempo di realizzazione del piccolo manufatto si allunga se proponiamo un biglietto decorato con collage o quant’altro.

L’acquisto poi del regalo è una buona occasione per ritagliarsi del tempo rubato per fare uno shopping veloce giustificandolo come ricerca accurata per un regalo utile e educativo per il piccolo festeggiato.

E arriva il giorno della festa e tra un incastro e l’altro, un buco tra gli appuntamenti segnato nella mia agenda e un ritardo, ormai cronico e inconsapevole (?) parto con i miei bimbi alla ricerca di un nuovo asilo o ludoteca dove si terrà la festa.

E ci si ritrova, tra gli sguardi spesso stanchi, mentre l’animazione ci accoglie e coinvolge immediatamente i bambini in giochi di magia. Anche in questo caso, un rapido sguardo mi permette di localizzare un luogo confortevole per seguire i miei bambini e il flusso dei miei pensieri. E mentre riapro l’agenda, sperando di riuscire ad organizzare la prossima giornata lavorativa, la mamma di turno si avvicina e in quel momento esatto capisco che la mia ultima speranza di godere di un momento per me, si è definitivamente spenta e con essa la possibilità di sfuggire.

E allora che compleanno sia, chiudo l’agenda, abbraccio una mamma e punto la torta. Il resto potete immaginarlo, ed il ritorno in macchina mentre osservo dallo specchietto lo sguardo soddisfatto dei miei figli mi ripaga di tutto il resto, mentre ripeto a mente la prossima data di compleanno da ricordare perché: “Ovviamente i tuoi figli ci saranno? Guarda che vi aspetto, ci conto”.

Ce la posso fare, lo so, sono una BisMamma.

Cecilia Gioia

Tratto da Le nuove mamme

La solitudine delle madri.

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Noi madri siamo sempre più sole. Sempre più sole e sempre più giudicate.

Devi fare questo“, “Non puoi non fare così“, “Così lo vizi!“, “Ma che tipo di madre sei?” e potrei continuare per ore. Come madre e psicoterapeuta che si occupa di perinatalità, ascolto ogni giorno i rumorosi silenzi delle mamme. E incontro la difficoltà di una società distratta a restare in ascolto, sospendendo il giudizio e sostenendo l’accoglienza.

Il rischio di sviluppare una depressione postnatale è maggiore nelle 5 settimane dopo il parto. Si manifesta quando la donna presenta da e per almeno due settimane umore depresso e interesse nelle abituali attività e almeno cinque di questi sintomi: disturbi del sonno e/o dell’appetito, iperattività motoria o letargia, faticabilità o mancanza di energia, sensi di colpa, bassa autostima, sentimenti di impotenza e disvalore, ridotta capacità di pensare o concentrarsi e pensieri ricorrenti di morte.

Esiste un modello biopsicosociale che spiega la depressione postpartum attraverso tre fattori di diversa natura quali:

  • I fattori di vulnerabilità, che rispecchiano il fatto che alcune donne sono più soggette alla depressione postnatale che altre.
  • I fattori facilitanti-scatenanti: i livelli di stress collegati a eventi difficili accaduti subito prima dell’insorgenza della depressione postnatale, le variabili moderatrici dello stress(sostegno sociale e abilità di coping).
  • I fattori biologici, come un improvviso e considerevole calo nei livelli degli estrogeni dopo il parto.

Le cure possono consistere nella psicoterapia e nella partecipazione a terapie di gruppo con donne che manifestano la stessa sintomatologia; nell’eventuale assunzione di ansiolitici e antidepressivi, che sono cure possibili, ma da assumere comunque sotto controllo medico.

Una donna che soffre di depressione ha bisogno di essere riconosciuta nel suo disagio attraverso una presa in carico che non coinvolge solo la donna, ma tutto il sistema familiare che ne è inevitabilmente coinvolto. Lo sviluppo del rapporto madre-bambino è il processo psicologico centrale del periodo perinatale. La relazione madre-bambino inizia già durante la gravidanza e consiste essenzialmente in idee ed emozioni attivate dal bambino che trovano la loro espressione nei comportamenti affettivi e protettivi della madre. La depressione post-partum trascurata o sottovalutata può avere effetti negativi su tutta la famiglia, condizionando il corretto sviluppo di una buona relazione madre-bambino. Una donna che soffre di depressione postpartum sperimenta quotidianamente un ventaglio di emozioni che fatica a condividere perchè inaccettabili, prima di tutto da se stessa, come ostilità verso il bambino, rammarico per la gravidanza, sensazione di sollievo quando si allontana dal bambino, tentativo di evasione o fuga dal contesto relazionale.

È necessario rivolgersi ad un* specialista, un* psicoterapeuta o un* psichiatra, se i sintomi sono di una entità allarmante o comunque persistono oltre le due settimane, se si ha la sensazione di poter fare del male a se stesse o al proprio bambino e se i sintomi di ansietà, paura e panico si manifestano con grande frequenza nell’arco della giornata.

E’ importante ricordare che la depressione post partum non si manifesta subito dopo il parto. La maternity blues, o tristezza post-partum, è una sindrome transitoria che può intervenire nelle prime 48 ore dopo il parto. Di norma si risolve spontaneamente entro una settimana. È importante identificare le donne con maternity-blues poiché il 20% di esse presentano un episodio depressivo maggiore nel primo anno dopo il parto.

La gravidanza è un momento irripetibile nella vita di una donna, tanto delicato quanto incredibilmente denso di forza e di coraggio. E’ il tempo dell’attesa e della fisiologica necessità di imparare a sostare con gli innumerevoli modifiche fisiche e psicologiche che accompagnano i nove mesi di endogestazione. Ecco perché è importante sostenere le donne e i papà sin dal preconcepimento, in un’ottica di prevenzione e promozione di benessere psicofisico, promuovendo spazi di incontro e confronto tra i neo genitori. Da un po’ di anni, come operatori che si occupano di perinatalità, stiamo cercando di diffondere informazioni per prevenire e portare alla consapevolezza di tutti la necessità di ricreare una rete di sostegno intorno alle neomamme in un’ottica di salutogenesi per tutte le famiglie. Molto è stato fatto, ma non abbastanza, ecco perché è necessario continuare a fare prevenzione attraverso tutti i mezzi divulgativi. Per info si può consultare il sito www.depressionepostpartum.it e selezionare la regione di riferimento per conoscere i centri o le associazioni riconosciute a livello nazionale che si occupano di depressione postpartum. Anche sul nostro territorio sono sempre più presenti associazioni che si occupano di stare accanto alle neomamme e ai neopapà promuovendo il famoso proverbio “Per crescere un bambino o una bambina, ci vuole un intero villaggio”. Ecco, il villaggio attualmente, non fa abbastanza, non riesce a proteggere tutte le madri. Dovremmo imparare a fare più silenzio, per riuscire ad ascoltare la richiesta di aiuto delle madri e delle famiglie, sospendendo il giudizio e accogliendo i bisogni.

Cecilia Gioia

Aiuto….ho l’ansia!

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L’ansia, in condizioni normali, è uno stato di attivazione psicologica e organica che ci consente di affrontare le difficoltà quotidiane e la loro risoluzione. L’ansia diviene patologica, e non più adattiva, quando condiziona la qualità della vita inficiando le normali attività quotidiane. Tutto questo influenza notevolmente la percezione della realtà rendendo la persona incapace di contenere e esprimere le proprie emozioni in maniera funzionale e riducendo significamente le personali capacità di problem solving, anche nelle situazioni più semplici.

Il panico consiste in uno stato di intensa paura che raggiunge il suo picco nel giro di circa dieci minuti, caratterizzato dalla comparsa, spesso inaspettata, di almeno quattro dei seguenti sintomi: palpitazioni, sudorazione, tremori, dispnea, sensazione di asfissia, dolore al petto, nausea, sensazione di instabilità e sbandamento, derealizzazione o depersonalizzazione, sensazione di perdere il controllo, impazzire o morire, parestesie, brividi o vampate di calore.

Di solito gli attacchi di panico sono più frequenti in periodi stressanti. Alcuni eventi di vita possono infatti agire da fattori scatenanti quali la separazione, la perdita o la malattia di una persona significativa, l’essere vittima di una qualche forma di violenza, problemi finanziari e lavorativi.

I disturbi d’ansia, nelle loro innumerevoli manifestazioni, sono molto diffusi nel mondo occidentale negli ultimi anni. Il contesto socioeconomico e culturale, le relazioni familiari non ne sono la causa primaria, ma indubbiamente contribuiscono a trasformare in patologia una predisposizione di base, anche di tipo genetico.

Come psicoterapeuta ho potuto constatare quanto questi disturbi possano influenzare la qualità della vita dell’individuo, che mette in atto una serie di strategie di evitamento delle situazioni considerate ansiogene. L’approccio cognitivo comportamentale spiega gli attacchi di panico come uno stimolo incondizionato che, presentandosi in relazione temporale o spaziale con altro stimolo, fanno si che quest’ultimo inneschi una risposta condizionata che si manifesta attraverso le condotte di evitamento . Ad esempio se penso all’ascensore inizio ad avere le palpitazioni ed evito di salirci. Inoltre, gli aspetti cognitivi, ovvero i pensieri coinvolti nell’eziologia e nel mantenimento degli attacchi di panico sono spesso il risultato di “interpretazioni catastrofiche” di eventi fisici e mentali considerati erroneamente come segni di un imminente disastro. Ad esempio l’aumento del battito cardiaco può essere interpretato come un indicatore di un attacco di cuore. La Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) è considerata attualmente la terapia che ottiene i risultati migliori nel trattamento della maggior parte dei disturbi emozionali e del comportamento dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla comunità scientifica internazionale.

È un approccio psicologico di tipo educativo che ha come obiettivo principale far apprendere nuove modalità e abilità comportamentali e cognitive. In particolare, l’attenzione dello psicoterapeuta è posta sui comportamenti disfunzionali, sulle credenze e sui pensieri che sono alla base delle cause del disagio.

La terapia cognitivo comportamentale nel trattamento del disturbo di panico risulta quindi essere un approccio più che valido poiché permette di lavorare sia a livello comportamentale, attraverso le esposizioni, sia a livello cognitivo, tramite l’individuazione degli errori di pensiero e la ristrutturazione cognitiva, arrivando così ad ottenere un modo di pensare e leggere le situazioni più semplice, proficuo.

Cecilia Gioia

Donne tra lavoro e famiglia.

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Crescere ed educare un bambino o una bambina è un’avventura imprevedibile e affascinante che non preclude nella donna la propria realizzazione professionale, anzi la arricchisce.

Nell’immaginario collettivo il modello chimerico della “brava madre” alimenta quotidianamente aspettative il più delle volte irrealizzabili che minano le competenze, spesso inconsapevoli, di noi donne creando insicurezze e sensi di colpa “mammeschi” che inevitabilmente si ripercuotono nella vita famigliare e lavorativa. Nella mia esperienza personale e professionale il primo passo verso un sano compromesso è l’accettazione consapevole del cambiamento che la nascita di un figlio o di una figlia comporta, la scoperta graduale di una flessibilità inaspettata ma necessaria in questa nuova vita di donna e madre e l’ascolto quotidiano dei propri bisogni e di quelli del proprio bambino o della propria bambina.

So di riportare concetti già abbondantemente “masticati” ma personalmente scarsamente “digeriti” ma viviamo in una società che considera la maternità un ostacolo alla carriera di una donna, e che sottovaluta l’enorme risorsa, in termini funzionali, del diventare madre. Ricerche nel campo delle neuroimmagini hanno evidenziato gli innumerevoli cambiamenti anatomo-funzionali che avvengono nel cervello durante la gravidanza e nel postartum in termini di efficacia e di risorse facilmente spendibili nei due ruoli che la donna si appresta a vivere, quello di madre e di lavoratrice. Si è scoperto infatti, che i flussi ormonali legati alla gravidanza, alla nascita e all’allattamento, in effetti, rimodellano il cervello, per esempio, aumentando la grandezza dei neuroni in alcune regioni e producendo trasformazioni strutturali in altre. Quindi, mamme stiamo serene, è scientificamente provato che dal punto di vista cognitivo la maternità non ci ha tolto nulla, semmai ci ha arricchito.

Mi chiedo quindi perché non investire strategicamente nell’accoglienza di una scelta così importante come quella di generare una nuova vita promuovendo azioni che sostengono e accompagnano l’evento nascita.

Ma quali possono essere gli strumenti giusti per scardinare questi meccanismi mentali? Per prima cosa, la corretta informazione e l’attenzione quotidiana dei media e della società sull’evento nascita attraverso la promozione di azioni nutrienti che coinvolgono la collettività sull’importanza della maternità consapevole. E’ necessario, inoltre, creare gruppi di sostegno alla pari nelle nostre città che compensano le lacune attuali presenti nel territorio a sostegno della donna e del proprio bambino.

Altro aspetto fondamentale il rinforzo quotidiano dell’alleanza tra noi donne che ricrea quella famosa rete di sostegno tanto cara alle nostre nonne e che permetteva loro di continuare a lavorare nei campi o in casa generando figli.

E l’obiettivo condiviso tra noi mamme che la mamma perfetta non esiste, ma che tutte noi possiamo diventare “mamme sufficientemente buone” per il nostro bambino o la nostra bambina, migliorandoci ogni giorno senza esitare di chiedere aiuto.

Cecilia Gioia

 

Il sostegno al lutto pre e perinatale in Calabria.

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La morte di un figlio è sicuramente l’esperienza più dolorosa per un genitore.

Ogni coppia in gravidanza forma un legame, sia fisico che mentale, con il bambino atteso, che si rinsalda ben prima della nascita. Quando un bambino muore prima o dopo il parto, il legame si spezza in modo violento. Con la morte del figlio muore anche una parte del genitore e i sogni e le attese vanno in frantumi. Molti genitori, soprattutto le madri, raccontano di sentirsi con le braccia ed il corpo carichi di un amore da donare, senza che nessuno possa riceverlo.

La sofferenza dei genitori è immensa e il vuoto dopo la morte del proprio figlio, è incolmabile sempre. Un genitore in lutto può percepirsi come persona diversa. C’è chi sente di non amare la vita come prima e le relazioni con il mondo esterno subiscono grandi cambiamenti. Non di rado sopraggiungono sentimenti di intolleranza verso altre coppie e sentimenti di evitamento nei confronti di chi non ha provato un dolore così grande.

Nel tempo questi sentimenti possono trasformarsi positivamente migliorando le relazioni con gli altri in particolare nei confronti di persone sofferenti. La sofferenza dovuta a un lutto deve poter essere espressa; vivere il lutto con consapevolezza coinvolge sia aspetti emotivi che cognitivi, sia aspetti corporei che sociali e spirituali.

Poter disporre di un sostegno fatto di comprensione e ascolto ne facilita e ne favorisce l’elaborazione. I gruppi di auto mutuo aiuto sono una risorsa per persone che stanno vivendo un lutto. Il gruppo si incontra per condividere i propri vissuti con l’obiettivo di scoprirsi risorsa non solo per sé ma anche per gli altri. Il gruppo di auto-mutuo-aiuto per persone che hanno subito un lutto non è di tipo psicoterapeutico ma un gruppo di confronto, di condivisione delle proprie emozioni, delle proprie esperienze. I gruppo di auto-mutuo-aiuto si offre come aiuto concreto e reciproco in un clima di solidarietà e supporto fra pari, in cui ogni partecipante può esprimersi con i suoi tempi ed i suoi modi, sicuro del sostegno partecipe e della riservatezza del gruppo.

L’Associazione di Volontariato MammacheMamme (www.mammachemamme.it), in convenzione con l’Associazione CiaoLapo Onlus, unica associazione in Italia scientifico – assistenziale, per la tutela della gravidanza a rischio e della salute perinatale, da sette anni è diventata centro di riferimento per le famiglie calabresi che hanno subito un lutto perinatale, offrendo supporto psicologico e promuovendo gli aspetti culturali e scientifici della psicologia perinatale. A tal proposito, il 5 Aprile del 2014 ha avviato il primo gruppo di AutoMutuoAiuto per il Lutto Perinatale “Parole in ConTatto”, un gruppo aperto a genitori che hanno perso un figlio in gravidanza o dopo la nascita. La partecipazione al gruppo è libera e gratuita e ha cadenza quindicinale. Il luogo dell’incontro è presso lo Studio di Psicoterapia Amigdala, via G. De Rada 58/B, Cosenza. L’obiettivo del gruppo è abbattere la solitudine, facilitare il confronto tra esperienze, e fornire strumenti e risorse per affrontare il lutto. evitando che il lutto non elaborato si trasformi in malattia.

Continuare a vivere dopo il lutto non significa dimenticare, né nascondere, ma “passare attraverso” la perdita, integrandola nel proprio percorso di vita, restituendo al bambino perduto un suo posto speciale nella sua famiglia.

Al gruppo si accede dopo un primo colloquio informativo gratuito ed è aperto a tutti i genitori , mamme, papà e coppie con esperienza di lutto in gravidanza o dopo il parto, recente o remota, che sentono la necessità di affrontare il lutto e di proseguire la sua elaborazione. Per informazioni telefonare al numero 388-3620740 o scrivere a info@mammachemamme.it.

Cecilia Gioia

L’argento vivo addosso.

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Ci sono bambin*, in particolare nell’età della scuola dell’infanzia (3-6 anni) instancabili e curios* a cui spesso è difficile stare dietro. Un bambino o una bambina estremamente vivace ha tutti i tratti del temperamento amplificati. E’ molto sensibile, energetic*, motoriamente espressiv* e manifesta la gioia e la rabbia con estrema facilità. Le manifestazioni comportamentali che caratterizzano un bambino o una bambina vivace non sono solo percepite come eccessive, ma presentano una frequenza e continuità elevata, che condiziona la capacità del genitore di trovare un buon equilibrio fra intervenire troppo e intervenire troppo poco.

Ma da cosa dipende la loro vivacità?

Spesso le eccessive stimolazioni derivanti da un numero elevato di attività, le gelosie dovute all’arrivo di un fratellino o di una sorellina, il bisogno fisiologico di muoversi all’aria aperta e la richiesta costante di attenzione possono dare vita ad una serie di manifestazioni comportamentali “incontenibili”. E’ importante, come genitore, comprendere questa serie di comportamenti, come la comunicazione di un bisogno, ricordando di dare valore a tutto questo perché espressione libera e senza filtri del proprio bambino o della propria bambina. L’accettazione priva di giudizio pone noi genitori in una posizione di accoglienza rispetto a questa particolare esuberanza espressiva, infatti attraverso il loro continuo “sconfinare” i nostri figli e le nostre figlie esprimono il bisogno di attirare la nostra attenzione e la richiesta di un maggiore contenimento da parte delle figure genitoriali.

Vivere con un bimbo o una bimba estremamente vivace non è semplice, a causa dell’esuberanza spesso caotica e imprevedibile dei suoi atteggiamenti. Questa suo modo di esprimersi condiziona inevitabilmente i genitori, gli insegnanti e i compagni e le compagne. Spesso si crea un vero e proprio condizionamento sul bambino o sulla bambina a causa dei feedback negativi che riceve in risposta alla sua espressiva vivacità.

Ma quali sono gli errori più frequenti che i genitori fanno dinnanzi a un figlio o una figlia vivace?

Spesso il genitore vive un senso di frustrazione e inadeguatezza rispetto all’eccessiva vivacità del figlio o della figlia. La sua difficoltà a contenere e comprendere tale irrequietezza lo spinge, alcune volte, a percepirsi come genitore inefficace trasmettendo al/la bambin* sentimenti di rabbia e impotenza. Tutto questo influenza negativamente la percezione che il/la bambin* ha di sé condizionando lo sviluppo di una sana autostima e senso di efficacia, fondamenta necessarie per crescere. I bambini e le bambine devono essere incoraggiati a sviluppare il loro potenziale, non etichettati.

Come genitore mi rendo conto delle difficoltà che si incontrano quotidianamente nel vivere con bambin* estremamente vivaci. Il primo passo è ascoltarsi per comprendere quali emozioni risveglia in noi il tale comportamento. L’ascolto delle nostre emozioni come genitori ci permette di riconoscere ed eventualmente esprimere una serie di emozioni, spesso poco piacevoli, che inevitabilmente tendiamo a nascondere.

Il secondo passo è mettersi alla sua stessa altezza, guardandolo negli occhi e parlando con tono di voce dolce e moderato, facendo leva sui punti di forza del nostro bambino o della nostra bambina, quali l’energia e la sua creatività. Nei momenti di crisi il genitore può fermare il flusso di vivacità attraverso un abbraccio che sospende l’azione e che conquista l’attenzione. Attraverso un sano contenimento e dei confini ben definiti, il bambino o la bambina percepiscono la presenza del genitore non come giudicante, ma accogliente. La fermezza e la coerenza delle regole fornisce loro degli argini in cui sentirsi più sicuri.

Cecilia Gioia

 

QM: il Quoziente Mammesco.

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Strana sigla il QM, di comprensione non immediata, ma per una che si occupa da tanti (sic!) anni di neuropsicologia, non nascondo di provare un misto di soddisfazione nel raccontare questa piacevole “scoperta”.

Bene, partendo da queste premesse, che cos’è il Quoziente Mammesco?

Nel linguaggio comune probabilmente è capitato di incontrare più volte il termine di Quoziente Intellettivo o QI, e allora procediamo con ordine e se vi va, provate a seguirmi.

In neuropsicologia parliamo di Quoziente Intellettivo (QI) come il punteggio che si ottiene attraverso un Test di Intelligenza, cioè un test standardizzato che misura l’efficienza intellettiva. E’ bene sottolineare che i test di intelligenza misurano delle abilità specifiche (intelligenza psicometrica) e non l’intelligenza “vera” che invece comprende una serie di aspetti e abilità. Infatti il QI è semplicemente un indice quantitativo: dimostra se lo sviluppo cognitivo procede in linea con il gruppo di riferimento, è un ottimo indicatore da utilizzare nella ricerca ma “perde” di quegli aspetti squisitamente individuali che tanto ci rendono umanamente interessanti ed unici. Due autori Horn e Cattell mi colpirono durante i miei studi, per il concetto di intelligenza cristallizzata, ovvero quelle capacità cognitive acquisite tramite la socializzazione e la cultura, basate quindi sul sapere e sull’esperienza e meno toccate dai processi di logoramento dovuti all’invecchiamento; e di intelligenza fluida, ovvero quelle capacità cognitive come il problem solving, il pensiero induttivo e la memoria associativa, che sono legate alla predisposizione fisica e quindi al buon funzionamento di specifiche strutture neurofisiologiche e che si riducono, con l’età. A tutto questo, mentre sorvoliamo anni e anni di studi sull’intelligenza, voglio aggiungere il concetto conosciuto e largamente usato di intelligenza emotiva di Goleman, che include “la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli altrui, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali”.

Bene, e allora perché non parlare di intelligenza materna, che racchiude alcuni aspetti delle intelligenze sopraelencate e che può essere facilmente identificata, e magari un giorno, “classificata” con il Quoziente Mammesco?

E qui le nostre competenze di mamme, tante, uniche riescono facilmente ad identificarsi, riconoscendosi in tutte queste abilità sopraelencate.

Iniziamo dalle strategie di problem solving, cavallo di battaglia di noi mamme, sollecitate sempre da situazioni spesso di “emergenza” che ci costringono a ragionare in tempi immediati e imprevedibili. Il pensiero induttivo, di aristotelica memoria, tanto caro a noi mamme, sempre alle prese con particolari premesse da cui partire per arrivare a conclusioni probabilmente vere, in termini di probabilità, assecondando i tempi ristretti a cui spesso è sottoposto il nostro pensiero. Un esempio di pensiero induttivo mammesco che ci farà sorridere un po’ ma in cui molte di noi si riconosceranno è “In classe di mio figlio, ho visto un bimbo raffreddato, un secondo bimbo raffreddato… allora probabilmente tutti i bimbi della classe sono raffreddati”.

Alzi la mano chi si riconosce in questo tipo di pensiero?

Ma continuiamo con la memoria associativa che sembra essere a forma più primitiva di memoria molto nutrita nelle mamme perché costantemente sollecitata da associazioni di informazioni e che permette a diversi ricordi di legarsi tra loro come anelli di una catena. Anche in questo caso noi mamme siamo speciali, riusciamo a partire da un piccolo ricordo per ricostruire anni e anni di informazioni acquisite, non tralasciando nulla, anzi arricchendo le di nuovi particolari digeriti nel corso del tempo.

E poi c’è l’intelligenza emotiva, un misto di empatia, motivazione, autocontrollo, logica, capacità di adattamento e di gestione delle proprie emozioni, utile per utilizzare i lati positivi di ogni situazione cui si va incontro. Per Goleman l’intelligenza emotiva racchiude due competenze a cui attribuisce delle caratteristiche specifiche:

  1. Competenza personale, ovvero il modo in cui controlliamo noi stessi e che comprende
  • la consapevolezza di sé, utile per riconoscere le proprie emozioni e le proprie risorse;
  • la padronanza di sé che racchiude l’abilità ad adattarsi e una buona resilienza
  • e la motivazione, spinta energetica che guida l’individuo verso nuovi obiettivi da raggiungere.
  1. Competenza sociale, ossia la modalità con cui gestiamo le relazioni con l’Altro che comprende:

– l’empatia, ovvero la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui, individuare e promuovere le opportunità offerte dall’incontro con altre persone e il saper interagire all’interno di un gruppo.

– le abilità sociali,  che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili e favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo che consenta di lavorare per obiettivi comuni.

Alla luce di tutto questo, alzi la mano chi come donna e mamma, non esercita quotidianamente questo tipo di intelligenza?

Immagino che ognuna di noi, nei suoi tempi diversi di maternità, possa riconoscersi in queste caratteristiche e provare a guardare a sè stessa con gratitudine per l’enorme lavoro cognitivo ed emotivo che porta avanti.

E allora diciamolo a gran voce, il Quoziente Mammesco esiste davvero perché racchiude tutto questo e altro ancora e noi mamme spesso, non ne siamo davvero consapevoli.

Ecco perchè è importante parlarne e risvegliare in noi le nostre coscienze spesso sopite che dimenticano di riconoscersi il nostro immenso valore. Ed è per questo che come donna e madre di cielo e di terra rivendico, con orgoglio, il mio Quoziente Mammesco come risorsa inesauribile che genera crescita e cambia-Menti fuori e dentro di me.

E tu, conosci il tuo Quoziente Mammesco?

Cecilia Gioia

 

 

 

 

 

Quando le pance brontolano (e si raccontano).

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Il titolo può far pensare ad una risposta fisiologica da risveglio in attesa di una abbondante colazione, in realtà ben si riferisce ad un brontolio psicologico, persistente e rumoroso che spesso fatichiamo a riconoscere.

Si, perchè la nostra psiche parla, racconta e brontola.
La mia poi, ultimamente (sarà l’età?) va spesso in sciopero, riconoscendosi il diritto di esprimere la sua perchè attivata dalle innumerevoli sollecitazioni che la vita quotidiana ci regala. Ed ecco che il brontolio aumenta, linkando ad episodi scomodi, tessendo una rete densa e spesso difficile da mollare.
Essere consapevole di questo movimento psichico permette a noi stessi di entrare in contatto con le emozioni più rumorose per ascoltarle e fare spazio alle loro innumerevoli sfaccettature.
Essere in ascolto di noi ci fa connettere con le nostre parti che spesso dimentichiamo o proviamo a rendere afone. Strategia davvero inutile e dispendiosa, perchè scarsamente funzionale e irrispettosa dei nostri bisogni.
Ecco perchè ho imparato negli anni a fare spazio al mio brontolio psichico regalando alla sua narrazione uno spazio confortevole e legittimo. Mi piace pensarmi eternamente in ascolto, un ascolto attivo e curioso mentre tutte le mie parti si riuniscono e fanno assemblea raccontandosi giornate dal retrogusto un pò amaro, mostrando piccole e grandi ferite da battaglia e imparando strategicamente a prendersene cura. Le immagino davvero così, piccole parti di un IO unitario e ribelle, che spesso faticano a convivere ma che con gli anni hanno imparato a sperimentare un equilibrio flessibile e trasformabile.
Perchè in fondo siamo davvero così, contenitori e contenuti densi di significati e significanti, in attesa di narrarsi storie e briciole, in attesa di scoprirci uniche/i mentre la pancia brontola compiaciuta, noi impariamo ad amarci.
Cecilia Gioia

UBUNTU: “Le persone diventano persone grazie ad altre persone”

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In Africa esiste un concetto noto come Ubuntu, il senso profondo dell’essere umani solo attraverso l’umanità degli altri; se concluderemo qualcosa al mondo sarà grazie al lavoro e alla realizzazione degli altri“( Nelson Mandela, novembre 2008)

Ubuntu è un’espressione in lingua bantu, è una regola di vita, basata sulla compassione, il rispetto dell’altr*. L’ubuntu ci esorta a sostenerci e aiutarci reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei nostri diritti, ma anche dei nostri doveri, poiché è un desiderio di pace verso l’umanità intera.

Una frase  che sintetizza questa filosofia è umuntu ngumuntu ngabantu, ovvero io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo. 

Quanta consapevolezza dentro queste parole!

Ma cosa significa praticare l’Ubuntu?

Ubuntu si declina come una presa di coscienza dei propri diritti e doveri il cui rispetto porta verso la pace fra tutti gli uomini e le donne.

In quest’ottica, il rito del saluto assume un significato fondamentale: l’ espressione SAWU BONA (che equivale ad un nostro ciao),  significa TI VEDO, e la risposta di chi riceve il saluto è SIKHONA, SONO QUI.

Lo scambio dei saluti è fondamentale perchè finchè l’altro non mi vede io non esisto.

Riconoscersi un’identità nel momento in cui l’altr* ci vede , ci rispetta e ci riconosce come persona significa entrare in relazione  ( ti vedo / sono qui ) ed essere disponibili ad accogliere le reciproche differenze. E dà valore all’incontro con l’altr* come occasione di crescita per l’umanità intera.

Quanta saggezza ci dona la Madre Africa, ricordando a noi, uomini e donne di questo tempo, così distratt* e centrat* su un individualismo sterile, l’importanza di saper stare in relazione.

Per me Ubuntu è un inno alla forza creatrice che genera sentimenti di compassione e gratitudine verso l’altr* me.

Ubuntu è dunque un occasione per cogliere la relazionalità della vita: qualunque persona dipende da altre persone e nessuno è totalmente indipendente e inutile.

Perchè la vita è un dono e va celebrata ogni giorno con gratitudine, per trsmettere poi alle generazioni future, il significato profondo dell’ Ubuntu come occasione quotidiana per stabilire relazioni che nutrono e generano.

Perchè fare il bene genera forza vitale e, in chi riceve, un riconoscimento di chi dona e una responsabilità nei suoi confronti. L’atto di riconoscere e rispondere è fare il bene. A partire da questa reciprocità, la generosità può davvero tradursi in solidarietà. E mai come in questo periodo storico così buio, l’Umanità necessita di ricordare a se stessa il valore dell’Ubuntu, per imparare a vivere coltivando valori orientati ad accrescere tanto la propria vita quanto quella degli altri, in un’osmotico scambio che genera cambia-Menti e rinascita.

Cecilia Gioia