Anatomia del senso di colpa.

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Se non fai i compiti, mi arrabbio!”.

Chissà quante volte, da bambini, abbiamo ascoltato questa frase dai nostri genitori. E chissà quante altre volte questa frase ha risuonato nella nostra vita adulta sotto forma di emozioni dense e spesso non semplici da nominare. Ed ecco che il senso di colpa inizia a strutturarsi in noi, aderendo come una seconda pelle e filtrando, inevitabilmente, il nostro modo di stare nel mondo.

Perché il senso di colpa è un vero e proprio meccanismo psicologico che si attiva quando facciamo qualcosa che va contro il nostro codice di comportamento acquisito, agendo da supervisor inflessibile e scarsamente accomodante. Si manifesta attraverso la rabbia verso noi stessi tormentandoci e condizionando la nostra vita fino a quando non facciamo qualcosa per riparare all’accaduto.

Ma torniamo agli albori di questo sentimento, a come si presenta a noi sin dalla primissima età consolidandosi in schemi cognitivi e comportamentali mal adattivi che influenzano la nostra vita adulta tanto da strutturare in noi vissuti di inadeguatezza e bassa autostima. Torniamo al nostro Io Bambin* desideros* di non deludere le aspettative genitoriali, sempre alla ricerca di quello sguardo amorevole e compiaciuto dei nostri genitori, sguardo che spesso si è vestito di delusione e frasi scomode, consolidando in noi la colpa, e il pensiero disfunzionale di aver commesso delle cose orribili.

Secondo uno studio condotto alla Washington University di St. Louis, la predisposizione a sentirsi colpevole potrebbe essere collegata ad un’alterazione del volume dell’insula, area cerebrale che regola la percezione, l’autoconsapevolezza e le emozioni e che sappiamo essere coinvolta in molti disturbi mentali. I ricercatori del Dipartimento di Psichiatria hanno misurato prima i livelli di senso di colpa e depressione in un gruppo di bambini reclutati in età prescolare, tra i 3 e i 5 anni. Costoro, raggiunta un’età compresa tra i 7 e i 13 anni, sono stati sottoposti a tre esami di risonanza magnetica funzionale, una ogni 18 mesi circa. Secondo i risultati dello studio, pubblicato su Jama Psichiatry, oltre la metà dei bambini depressi aveva anche un senso di colpa patologico; inoltre, i bambini non necessariamente depressi ma con un senso di colpa patologico mostravano delle dimensioni ridotte della parte anteriore dell’insula rispetto ai loro coetanei. L’individuazione del legame tra funzioni cerebrali e specifiche aree e reti di connessioni neurali è una delle più grandi sfide che le neuroscienze sta portando avanti attraverso un approccio integrato alla psicologia. A tal proposito ricercatori stanno indagando quali siano i modi più efficaci per aiutare i bambini a gestire i sensi di colpa appresi ed ecco che la psicologia assume ruolo predominante in un’ottica di prevenzione e promozione di salute psicologica sin dalla primissima età.

E da adulti? Come possiamo prenderci cura di noi stessi e di questo meccanismo psicologico che blocca il nostro sentirci liberi di mostrarci davvero per quello che siamo e non per quello che per anni abbiamo costruito come immagine ideale del nostro Sé? Iniziare a sperimentare che certi pensieri non producono nessun disastro irreversibile è un buon esercizio per riuscire a esprimere il nostro vero sentire e provare a rompere gli schemi rigidi e acquisiti che per anni hanno condizionato le nostre scelte, influenzando la qualità della vita. Tutto questo avvia un processo di riconoscimento di noi stessi e della autenticità delle nostre emozioni per stabilire delle relazioni interpersonali efficaci e sviluppare con loro una comunicazione rispettosa e funzionale.

M. Cecilia Gioia

 

Bibliografia

Belden AC, Barch DM2, Oakberg TJ1, April LM1, Harms MP1, Botteron KN3, Luby JL1. Anterior insula volume and guilt: neurobehavioral markers of recurrence after early childhood major depressive disorder. JAMA Psychiatry. 2015 Jan;72(1):40-8

Giornata Mondiale della Prematurità

 

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Il 17 novembre si celebra la Giornata Mondiale della Prematurità.
Ogni anno, circa 15 milioni di bambini nascono prima del termine e ben un milione non sopravvive. Globalmente, un neonato su 10 nasce prematuro. In occasione di questa giornata, in tutto il mondo verranno illuminati monumenti o punti di interesse con il colore viola (colore che nel mondo rappresenta la prematurità). I bambini nati prima del termine, in generale, presentano un più elevato rischio di complicazioni per la salute e condizioni croniche che possono avere un impatto sul loro sviluppo futuro e sulla vita quotidiana. Spesso le pratiche ospedaliere sono, nella maggior parte dei casi, focalizzate sulla stabilizzazione dei parametri vitali del bambino. Ruolo dello psicologo sarà quello di accompagnare e sostenere la coppia in un percorso di accompagnamento ad quel processo di genitorialità interrotto prematuramente, che si forma proprio durante le quaranta settimane di gestazione. Innumerevoli studi presenti in letteratura si sono focalizzati sugli aspetti fisiologici del parto prematuro, ma è necessario accogliere tale nascita attraverso un modello bio-psico-sociale che abbracci in maniera esaustiva il significato di un evento così importante nella vita del bambino e dei genitori. E’ necessario promuovere un modello di assistenza individualizzata caratterizzato da maggiore attenzione al coinvolgimento della famiglia nelle cure del bambino e al supporto dei genitori. Genitori, troppo spesso, lasciati soli negli innumerevoli vuoti che una nascita così improvvisa inevitabilmente comporta. Una mamma e un papà prematuri necessitano di calore, accoglienza, silenzi, rispetto, cure. Proprio come il loro bambino. Bisogna saperli sfiorare, senza invadere il loro spazio, già sconfinato dall’imprevedibile. E accompagnarli, un passo indietro, rispettando la giusta distanza emotiva, che permette loro di andare avanti, nonostante tutto. I genitori pretermine hanno sguardi pieni di domande in attesa di risposte, e ogni silenzio non spiegato destabilizza un equilibrio difficile perché fatto di attimi e di segnali. Perché cambia tutto, e i 5 sensi si amplificano per cogliere anche il più piccolo segnale del proprio bambino. E un mondo finora sconosciuto diventa casa, dove suoni innaturali si trasformano in ninne nanne per tutti i piccoli guerrieri. Dove è facile riconoscersi e sostenersi, ognuno con la sua storia e le sue paure, mentre le ore scorrono e la speranza cresce. I genitori pretermine sono genitori in battaglia, genitori che guardano le loro paure più grandi negli occhi e sfidano l’imprevedibile, che graffiano la vita accarezzando i cuori dei loro bambini. Ecco perché, nonostante i progressi nelle cure neonatologiche, la nascita pretermine continua a rappresentare un evento potenzialmente traumatico per i genitori e per lo sviluppo del loro bambino. Questo rende necessario un intervento di prevenzione e trattamento in grado di rispondere efficacemente alle esigenze psicologiche della triade madre-papà-bambino e al bisogno di riprendere quel processo di genitorialità bruscamente interrotto e iniziato durante i mesi dell’attesa.
M. Cecilia Gioia

“Se l’è andata a cercare”

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tratto da aulalettere.scuola.zanichelli.it

 

“Se l’è andata a cercare”, frase vuota, quanto infame che risuona dentro ognuno di noi costringendoci a guardarci dentro.

In questi ultimi giorni poi questa frase ha il ricordo amaro di chi non c’è più, psicologicamente o fisicamente.

Ripeto dentro di me parole vuote per provare a spiegare cosa succede ad una società inerme e voyeuristica, dove i sentimenti fanno fatica a riconoscersi e a trovare spazio e dove è facile perdersi in un tamtam mediatico decisamente inutile fatto di frasi ridondanti e di circostanza.

Del resto perché soffermarsi e chiedersi cosa sta succedendo, in quale direzione questa società a deciso di viaggiare, in fondo “se l’è andata a cercare“, quindi non è affar nostro. E’ affar suo, di Tiziana , di una tredicenne calabrese e di tutte le DONNE che quotidianamente provano a sopravvivere in uno spazio spesso scomodo fatto di violenze.

Mentre noi stiamo a guardare, tutto scorre veloce, basta un click.

No, nessuna di loro se l’è andata a cercare.

Nessuna ha deciso di farsi violentare fisicamente e verbalmente godendo di quella scelta.

Nessuna sceglie. Molte però subiscono mentre il silenzio avvolge la loro vita relegandola ad un oblio di “fatti” sussurrati ma taciuti.

Oggi, più che mai, questi “fatti” fanno rumore.

Oggi, più che mai, come donne e madri consapevoli, è necessario ascoltare le nostre pance che urlano.

Oggi, più che mai, è il momento di andare in direzione ostinata e contraria da questa società che non mi rappresenta, da questo spazio dove ho deciso di crescere i miei figli.

Mai come oggi questa società ha bisogno di essere nutrita per nutrire, ha bisogno di educarsi al rispetto per rispettare, ha bisogno di essere ascoltata per ascoltare le urla di dolore di chi davvero non ce la fa più e smette di urlare.

E l’educazione parte da noi, dalle nostre case, dai nostri figli, dal nostro territorio, perché non serve commentare, serve fare.

Perché tutti noi siamo responsabili, perché “nessuna se l’è andata a cercare”.

Cecilia Gioia

Quando si sceglie un* psicoterapeuta.

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La psicoterapia è una forma di terapia basata sulla parola. Lo strumento usato è il colloquio che guida il paziente attraverso un processo logico e comprensibile che chiunque può seguire. L* psicoterapeuta è laureat* in psicologia (corso universitario di 5 anni) e ha conseguito una specializzazione in psicoterapia frequentando un corso di almeno 4 anni successivo alla laurea. Scegliere un* psicoterapeuta è un processo complesso che avviene, spesso, in un momento di difficoltà emotiva. Se siete intenzionati ad intraprendere un percorso psicoterapeutico può essere utile considerare questi aspetti.

  1. La ricerca su Internet

Nei siti web del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi CNOP e degli Ordini Regionali sono visionabili le banche dati contenenti i nominativi di tutti gli Psicologi iscritti all’Albo di una data regione. E’ importante verificare l’iscrizione all’Albo degli Psicologi e se presente l’abilitazione all’esercizio della Psicoterapia. Per verificare bisogna inserire il Nome e Cognome o il n° di iscrizione nell’elenco dall’Albo degli Psicologi consultabile sul sito nazionale o sul sito regionale in cui è iscritto lo psicologo .

  1. Il passa parola

Anche nella ricerca di un terapeuta, una buona strategia è quella di chiedere alle persone di propria fiducia, che sono o sono state in psicoterapia, come si trovano o come si sono trovate con il proprio Psicoterapeuta.

  1. L’approccio teorico.

Esistono numerose approcci teorici alla psicoterapia fondati su basi epistemologiche differenti. Ecco perché diversi approcci di psicoterapia agiscono su aspetti diversi dell’essere umano.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è una delle più diffuse psicoterapie per la terapia di diversi disturbi psicopatologici in particolare dei disturbi dell’ansia e dell’umore. Si tratta di una disciplina scientificamente fondata, la cui validità è suffragata da centinaia di studi. La psicoterapia cognitivo-comportamentale, come suggerisce il termine, combina due forme di terapia estremamente efficaci. La psicoterapia cognitiva aiuta ad individuare certi pensieri ricorrenti, certi schemi fissi di ragionamento e di interpretazione della realtà, che sono concomitanti alle forti e persistenti emozioni negative che vengono percepite come sintomi e ne sono la causa, a correggerli, ad arricchirli, ad integrarli con altri pensieri più oggettivi, o comunque più funzionali al benessere della persona. La psicoterapia comportamentale: aiuta a modificare la relazione fra le situazioni che creano difficoltà e le abituali reazioni emotive e comportamentali che la persona ha in tali circostanze, mediante l’apprendimento di nuove modalità di reazione. Aiuta inoltre a rilassare mente e corpo, così da sentirsi meglio e poter riflettere e prendere decisioni in maniera più lucida.

  1. Diverse modalità di psicoterapie.
  • la psicoterapia individuale,
  • la psicoterapia di coppia,
  • la psicoterapia familiare,
  • la psicoterapia di gruppo,
  • la psicoterapia di comunità.

 

È bene sapere, infatti, che la ricerca ha ormai chiarito che chi si rivolge alla psicoterapia a fronte di problemi personali riesce a stare meglio dell’80% di chi non lo fa e che i cambiamenti ottenuti sono durevoli (Lambert e altri, 2002).

Cecilia Gioia

 

Lambert M J, Vermeersch D A, 2002. Effectiveness of Psychotherapy. In Elsevier Encyclopedia of Psychotherapy, 709-714, Elsevier Science, USA.

Quando le mamme non hanno voce.

tristezza-puerperio_o_su_horizontal_fixed   Spesso le mamme parlano, raccontano, spiegano, consigliano ma la loro voce è un inno silenzioso.

E quando timidamente tentano di alzare il loro tono, spesso quella voce si trasforma in un segnale ovattato che si disperde, in un immenso spazio che non accoglie e dimentica. Alcune volte chi vive accanto a loro, non ha orecchie per ascoltare o fatica a comprendere quell’universo di suoni, rappresentato dal sordo rumore dei loro pensieri.

In fondo basta poco per udirle, basta provare a “sentirsi dentro” in uno scambio di emozioni e di bisogni spesso poco espressi perché poco riconosciuti e ascoltati.

Basta poco, e spesso, troppo spesso questa possibilità di incontro si dimenticata, perché soffocata dagli innumerevoli “fare” e poco dal nutriente “sentire”, mentre tutto scorre in un silenzio rumoroso che segna. Ecco perché quando finalmente le mamme gustano la magia dei loro pensieri, splendida melodia della vita, non smettono più di raccontarsi e raccontare al mondo, quanto è meraviglioso ri-scoprire il suono della propria voce.

Il loro cuore, come cassa armonica, risuona dei mille colori dell’anima e finalmente il mondo scopre un sorriso.

Cecilia Gioia

tratto da: http://www.lenuovemamme.it

Una coccola al giorno?

Foto dal webPremesso che come tutte le mamme del mondo, vivo una giornata che dura in media 48 ore e che combatto con imprevisti quotidiani che rendono la mia resilienza un’abilità in continua trasformazione, ma alla coccola serale, quella no, non rinuncio.

Perché in quel momento, nel lettone, tutto si ferma e la giostra quotidiana e frenetica lascia il posto a piedini morbidi e mani paffute.
E finalmente il respiro torna regolare, più profondo, le braccia di aprono per accogliere, la pelle si cerca e si respira in un momento che profuma di buono. Ci si racconta.

Io e i miei bambini dopo una fase coccolosa condividiamo il meglio della nostra giornata, ovvero –Quello che ci è piaciuto di più– attraverso racconti e aneddoti. Questo nostro appuntamento quotidiano ci permette di raccontarci il tempo e lo spazio che non abbiamo vissuto insieme ma che vogliamo condividere in un momento tutto nostro.
E nel lettone poi le storie prendono forma in una drammatizzazione che solo l’estro creativo dei bambini sa esprimere. Ed io li osservo stupita di quanta ricchezza raccontano i loro occhi e i loro gesti, in un processo dinamico che si rinnova in ogni nuovo racconto.
E poi si pensa al nuovo giorno, alle nuove avventure da affrontare, e ci si da appuntamento alla prossima sera per rifornirci di coccole e di noi, in un rituale che si rigenera perché nutrito.

Ripensandoci, il titolo non rende giustizia al contenuto. Una coccola al giorno?

Ma no! Meglio mille, diecimila, centomila coccole e momenti preziosi,pernutrire giornate frenetiche e distacchi forzati. E ripartire poi per una nuova avventura quotidiana ricca di imprevisti, ma con una certezza che fa bene, la coccola della sera.

Cecilia Gioia

tratto da www.lenuovemamme.it

L’orologio delle emozioni

Foto dal webTra le mille strategie di mamma psicoterapeuta, ho inserito nella mia cassetta degli attrezzi, uno strumento facile da realizzare, ma di sicuro effetto: un vero e proprio orologio con lancette che non segnano le ore e i minuti, bensì le emozioni! Inutile dire che i miei bimbi ne sono rimasti entusiasti, scoprendo quanto è facile e nutriente ri-conoscere i propri stati d’animo. Comunicare le proprie emozioni e riconoscere quelle degli altri, favorisce la socializzazione e le relazioni interpersonali, insegnando a sintonizzarsi su se stessi.

Fin qui, nulla di nuovo, uno strumento utile e divertente che si presta per un sacco di giochi con i nostri bimbi, dal racconto delle proprie emozioni, al riconoscimento delle stesse, sia sull’orologio che mimandole e altro ancora.

E allora perché non utilizzarlo noi genitori? In fondo, noi adulti facciamo spesso fatica a ri-conoscere i nostri stati d’animo, dimenticando il valore dell’espressione emotiva priva di “filtri” e di “castranti barriere”. Ed ecco che un orologio di cartone colorato, diventa un valido supporto per con-divere a noi stessi e ai nostri figli, le emozioni di mamma e papà. Essere genitore ci insegna anche questo: adattare strategicamente piccoli ausili, per crescere consapevoli di quanto fa bene esprimere i propri stati d’animo, anche quelli meno piacevoli, che se raccontati e legittimati, si trasformano in occasioni preziose tutte da vivere. La famiglia è una vera e propria fucina di idee e strategie per conoscersi e scoprirsi, che non dimentica mai differenze e individualità, considerandole una ricchezza da cui attingere.

E allora buone emozioni a tutti!

Cecilia Gioia

tratto da www.lenuovemamme.it

Hai il diritto di non offrire ragioni e scuse per giustificare il tuo comportamento.

Alzi la mano chi (almeno un centinaio di volte, sic!) non si sia mai sentito in dovere di giustificare una propria scelta comportamentale.

E nodonna-dice-no-300x225n abbia mai constatato quanto questa decisione si sia rivelata poco funzionale a un cambiamento, o a vincere un disagio personale.

Bene, se l’argomento può interessarvi mettiamoci “comodi” e ascoltiamoci; e sempre se vi va, raccontiamoci questo diritto e cosa rappresenta per noi.

In realtà, nessuno ci obbliga a esplicitare agli altri i motivi dei nostri comportamenti: siamo liberi di scegliere se condividere o no la nostra sfera personale. Ed ecco che emergono silenziosi i tanto famosi “confini”, “dogane” legittime e necessarie che tutelano la nostra parte più intima e, spesso, poco “ri-conosciuta”.

In realtà troppe volte percepiamo una sensazione di “assenza di confini” rispetto agli innumerevoli stimoli che il vivere quotidiano ci presenta, o “sentiamo” i nostri confini come troppo permeabili, barriere che mal proteggono il nostro “viverci” in maniera più profonda.

E allora che fare?

Una strategia è considerare questo diritto come un punto fermo all’interno del mare dei rapporti interpersonali, una sorta di bussola che ci ricorda quelli che sono i doveri e i diritti verso noi stessi e gli altri.

Ma quanto è ingombrante questo pensiero dentro di noi? Quanto è difficile conoscere e mantenere i propri confini, legittimandosi il diritto di non giustificarsi?

Ammettiamolo: siamo affetti da un virus cognitivo (io li chiamo così) che ci “obbliga” ad agire secondo prassi sociali, una sorta di etichetta interiorizzata e collettiva che, ahimè, si dimostra, nei fatti, nociva per la nostra salute psicofisica. Non sempre però riusciamo a farne a meno, causa un apprendimento disfunzionale strutturato negli anni, che sostiene questo pensiero irrazionale dell’ “Io Devo”.

Giustificare i nostri comportamenti attraverso scuse e argomentazioni equivale a svalutare le nostre scelte, giuste o poco funzionali che siano, alleviando il disagio che si prova nel sentirsi addosso la “responsabilità dell’azione”, elemento nutriente che sostiene il vivere quotidiano.

Ma che effetto fa sentirsi totalmente responsabili di un comportamento e scegliere di manifestarlo o meno? In un contesto quotidiano dire “sono stanco, ho bisogno di un’ora per me” (che, a livello comportamentale, equivale a un Time Out) “deve” essere necessariamente giustificato?

E quante volte questo bisogno fisiologico di fermarsi è stato soffocato dai “DEVO” o “”, veri e propri elementi interferenti che rendono inadeguata la sopravvivenza e il benessere personale d tutti noi?

Caspita quante domande in attesa di risposte… Ma lasciamoci così, con questi punti di riflessione con-divisi, e proviamo a sospendere i nostri pensieri, per ri-incontrarci al più presto, per raccontarci e “sentirci”.

Tutti i viaggi alla scoperta di noi stesse cominciano con un primo passo…E allora buon cammino a tutti!

Cecilia Gioia

tratto da http://www.bambinonaturale.it

IL MODELLO COGNITIVO COMPORTAMENTALE

albero La psicoterapia cognitivo-comportamentale è una delle più diffuse psicoterapie per la terapia di diversi disturbi psicopatologici in particolare dei disturbi dell’ansia e dell’umore.

Si tratta di una disciplina scientificamente fondata, la cui validità è suffragata da centinaia di studi. La psicoterapia cognitivo-comportamentale, come suggerisce il termine, combina due forme di terapia estremamente efficaci:
La psicoterapia cognitiva: aiuta ad individuare certi pensieri ricorrenti, certi schemi fissi di ragionamento e di interpretazione della realtà, che sono concomitanti alle forti e persistenti emozioni negative che vengono percepite come sintomi e ne sono la causa, a correggerli, ad arricchirli, ad integrarli con altri pensieri più oggettivi, o comunque più funzionali al benessere della persona.
La psicoterapia comportamentale: aiuta a modificare la relazione fra le situazioni che creano difficoltà e le abituali reazioni emotive e comportamentali che la persona ha in tali circostanze, mediante l’apprendimento di nuove modalità di reazione. Aiuta inoltre a rilassare mente e corpo, così da sentirsi meglio e poter riflettere e prendere decisioni in maniera più lucida.
La terapia cognitivo-comportamentale (TCC) è una psicoterapia sviluppata negli anni ’60 da A.T. Beck.
È una terapia strutturata (si articola secondo una struttura ben definita, benché non in maniera rigida, per assicurarne la massima efficacia), direttiva (il terapeuta istruisce il cliente ed assume attivamente il ruolo di “consigliere esperto”), di breve durata (cambiamenti significativi sono attesi entro i primi sei mesi) ed orientata al presente (è volta a risolvere i problemi attuali).
Essa è finalizzata a modificare i pensieri distorti, le emozioni disfunzionali e i comportamenti disadattivi del cliente, producendo la riduzione e l’eliminazione del sintomo e apportando miglioramenti duraturi nel tempo.
La terapia cognitivo- comportamentale è una terapia breve che agisce in un ampio raggio di problemi psicologici, come la depressione, l’ansia, la rabbia, i conflitti coniugali, le paure e l’abuso/dipendenza da sostanze.
Il focus della terapia è incentrato su come pensi, agisci, comunichi oggi piuttosto che sulle esperienze dell’infanzia. Inoltre, dal momento che il paziente apprende ad auto-aiutarsi, diviene abile nel mantenere i miglioramenti acquisiti durante la terapia anche dopo la fine di questa.

COME AVVIENE LA VALUTAZIONE DEI PAZIENTI: Quando si comincia una terapia cognitivo- comportamentale, il terapeuta chiede di compilare alcuni questionari che servono per valutare il range di sintomi e problemi. Questi strumenti valutano la depressione, l’ansia, la rabbia, le paure, i disturbi fisici, la personalità e lo stile relazionale. Lo scopo di questa valutazione è quello di acquisire più informazioni possibili su come sta il paziente, così da comprendere velocemente quali problemi abbia (o non abbia) e quanto gravi questi siano.

PROGRAMMAZIONE DEL TRATTAMENTO: Paziente e terapeuta lavorano insieme per sviluppare un programma terapeutico. Questo include la frequenza degli incontri, la rilevanza di assumere farmaci o no: la diagnosi; gli obiettivi; l’acquisizione di competenze mirate; i cambiamenti che sono richiesti per modificare il modo in cui il paziente pensa, si comporta e comunica ed altri fattori…

COME SI STRUTTURA UNA SEDUTA: Alcuni altri tipi di terapia hanno un andamento della seduta non strutturato, mentre la terapia cognitivo- comportamentale prevede che all’inizio di ogni incontro paziente e terapeuta decidano un ordine del giorno che contenga le cosa fare. Tale “agenda” può includere la revisione delle cose dette nelle precedenti sedute, i compiti, uno o due problemi contingenti, una revisione finale di quanto appreso nella seduta attuale e i compiti per la settimana successiva. Lo scopo è quello di risolvere i problemi e non di lamentarsi solo di essi.

COMPITI DI AUTO-AIUTO: Esattamente come richiesto dal un personal trainer in palestra, la terapia cognitivo-comportamentale richiede che si faccia esercizio anche in mancanza del terapeuta. Ciò che si apprende nella terapia è ciò che occorre che si possieda e che diventi proprio al di fuori della terapia.
Ricerche hanno dimostrato che i pazienti che svolgono a casa i compiti dati in seduta raggiungono i risultati più in fretta e li mantengono più a lungo di chi non lo fa. I compiti di auto-aiuto possono includere il monitoraggio dell’andamento del proprio umore, dei propri pensieri e dei propri comportamenti; l’elenco delle attività svolte; la raccolta di informazioni; il cambiamento del modo in cui si comunica con gli altri e altri compiti.

La letteratura scientifica internazionale ha riportato l’efficacia della psicoterapia Cognitivo Comportamentale  per il trattamento dei seguenti disturbi:

Disturbi d’Ansia

Disturbi del tono dell’umore

Disturbi dell’alimentazione

Disturbi del sonno

Disturbi sessuali

Dipendenze comportamentali

Questo articolo è tratto da:

“Treatment Plans and Interventions for Depression and anxiety Disorders” by Robert L.Leahy and Stephen J. Holland. Copyright 2000 by Robert L. Leahy and Stephen J. Holland. Trad. It. Gaia Vicenzi

Accompagnare il parto e la maternità

Accogliere una madre significa spogliarsi di tutte le proprie debolezze, dei piccoli o grandi conflitti, degli innumerevoli dubbi sperimentati attraverso la propria maternità, per abbracciare senza ostacoli le sue emozioni e i suoi bisogni.

Significa “stare” in uno spazio che nutre e denutrisce perché ricco di vissuti, spesso trigger inconsapevoli di emozioni già provate.

Accogliere una madre significa scalare una montagna senza tregua, perché si è avvolti da una tempesta di emozioni che spesso lascia senza fiato.

Ecco perché, spesso, il silenzio è il miglior strumento di sempre. Ottimo contenitore che contiene, rielabora e trasforma spesso contenuti dolorosi in cicatrici di cui prendersi cura.
Significa camminare insieme, mai accanto, ma un passo indietro per ripercorrere con lei i suoi passi, segni indelebili e significativi del suo passaggio. Significa gioire con lei e piangere, mentre le pance si allineano in emozioni di sempre. Significa “sentire” attraverso il contatto il vibrare sorprendente della vita o il suono sordo di una pancia che ha contenuto per via di un’attesa interrotta.
Ecco perché le pratiche psicoterapeutiche si mescolano poi al personale “sentire” del qui ed ora, dove un rapporto terapeutico si consolida, per sempre, durante le ore del travaglio e del parto. Momenti unici in cui il setting abituale a cui noi psicoterapeuti siamo abituati si trasforma in una sala parto o una sala operatoria. E nuovi strumenti riempiono questi momenti di attesa.

E mentre il respiro si sincronizza e la voce guida l’attività contrattile di un utero che mette al mondo o di un varco segnato sulla pancia per nascere, il contatto oculare consolida e dà forza. Le mani si stringono, gli abbracci sostengono, le parole si mescolano in un canto che accompagna. E si va avanti per ore, tutto il tempo necessario per assistere un miracolo che saluta il mondo con un pianto o con un assordante silenzio.
Accogliere le madri per me è tutto questo e altro ancora, un passo indietro, sempre.

Cecilia Gioia

articolo tratto da : http://www.bambinonaturale.it

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