Aiuto….ho l’ansia!

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L’ansia, in condizioni normali, è uno stato di attivazione psicologica e organica che ci consente di affrontare le difficoltà quotidiane e la loro risoluzione. L’ansia diviene patologica, e non più adattiva, quando condiziona la qualità della vita inficiando le normali attività quotidiane. Tutto questo influenza notevolmente la percezione della realtà rendendo la persona incapace di contenere e esprimere le proprie emozioni in maniera funzionale e riducendo significamente le personali capacità di problem solving, anche nelle situazioni più semplici.

Il panico consiste in uno stato di intensa paura che raggiunge il suo picco nel giro di circa dieci minuti, caratterizzato dalla comparsa, spesso inaspettata, di almeno quattro dei seguenti sintomi: palpitazioni, sudorazione, tremori, dispnea, sensazione di asfissia, dolore al petto, nausea, sensazione di instabilità e sbandamento, derealizzazione o depersonalizzazione, sensazione di perdere il controllo, impazzire o morire, parestesie, brividi o vampate di calore.

Di solito gli attacchi di panico sono più frequenti in periodi stressanti. Alcuni eventi di vita possono infatti agire da fattori scatenanti quali la separazione, la perdita o la malattia di una persona significativa, l’essere vittima di una qualche forma di violenza, problemi finanziari e lavorativi.

I disturbi d’ansia, nelle loro innumerevoli manifestazioni, sono molto diffusi nel mondo occidentale negli ultimi anni. Il contesto socioeconomico e culturale, le relazioni familiari non ne sono la causa primaria, ma indubbiamente contribuiscono a trasformare in patologia una predisposizione di base, anche di tipo genetico.

Come psicoterapeuta ho potuto constatare quanto questi disturbi possano influenzare la qualità della vita dell’individuo, che mette in atto una serie di strategie di evitamento delle situazioni considerate ansiogene. L’approccio cognitivo comportamentale spiega gli attacchi di panico come uno stimolo incondizionato che, presentandosi in relazione temporale o spaziale con altro stimolo, fanno si che quest’ultimo inneschi una risposta condizionata che si manifesta attraverso le condotte di evitamento . Ad esempio se penso all’ascensore inizio ad avere le palpitazioni ed evito di salirci. Inoltre, gli aspetti cognitivi, ovvero i pensieri coinvolti nell’eziologia e nel mantenimento degli attacchi di panico sono spesso il risultato di “interpretazioni catastrofiche” di eventi fisici e mentali considerati erroneamente come segni di un imminente disastro. Ad esempio l’aumento del battito cardiaco può essere interpretato come un indicatore di un attacco di cuore. La Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) è considerata attualmente la terapia che ottiene i risultati migliori nel trattamento della maggior parte dei disturbi emozionali e del comportamento dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla comunità scientifica internazionale.

È un approccio psicologico di tipo educativo che ha come obiettivo principale far apprendere nuove modalità e abilità comportamentali e cognitive. In particolare, l’attenzione dello psicoterapeuta è posta sui comportamenti disfunzionali, sulle credenze e sui pensieri che sono alla base delle cause del disagio.

La terapia cognitivo comportamentale nel trattamento del disturbo di panico risulta quindi essere un approccio più che valido poiché permette di lavorare sia a livello comportamentale, attraverso le esposizioni, sia a livello cognitivo, tramite l’individuazione degli errori di pensiero e la ristrutturazione cognitiva, arrivando così ad ottenere un modo di pensare e leggere le situazioni più semplice, proficuo.

Cecilia Gioia

Quando le pance brontolano (e si raccontano).

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Il titolo può far pensare ad una risposta fisiologica da risveglio in attesa di una abbondante colazione, in realtà ben si riferisce ad un brontolio psicologico, persistente e rumoroso che spesso fatichiamo a riconoscere.

Si, perchè la nostra psiche parla, racconta e brontola.
La mia poi, ultimamente (sarà l’età?) va spesso in sciopero, riconoscendosi il diritto di esprimere la sua perchè attivata dalle innumerevoli sollecitazioni che la vita quotidiana ci regala. Ed ecco che il brontolio aumenta, linkando ad episodi scomodi, tessendo una rete densa e spesso difficile da mollare.
Essere consapevole di questo movimento psichico permette a noi stessi di entrare in contatto con le emozioni più rumorose per ascoltarle e fare spazio alle loro innumerevoli sfaccettature.
Essere in ascolto di noi ci fa connettere con le nostre parti che spesso dimentichiamo o proviamo a rendere afone. Strategia davvero inutile e dispendiosa, perchè scarsamente funzionale e irrispettosa dei nostri bisogni.
Ecco perchè ho imparato negli anni a fare spazio al mio brontolio psichico regalando alla sua narrazione uno spazio confortevole e legittimo. Mi piace pensarmi eternamente in ascolto, un ascolto attivo e curioso mentre tutte le mie parti si riuniscono e fanno assemblea raccontandosi giornate dal retrogusto un pò amaro, mostrando piccole e grandi ferite da battaglia e imparando strategicamente a prendersene cura. Le immagino davvero così, piccole parti di un IO unitario e ribelle, che spesso faticano a convivere ma che con gli anni hanno imparato a sperimentare un equilibrio flessibile e trasformabile.
Perchè in fondo siamo davvero così, contenitori e contenuti densi di significati e significanti, in attesa di narrarsi storie e briciole, in attesa di scoprirci uniche/i mentre la pancia brontola compiaciuta, noi impariamo ad amarci.
Cecilia Gioia

Il dono: una storia zen.

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C’era una volta un anziano samurai che si dedicava a insegnare il buddismo zen a giovani allievi. Malgrado la sua età, correva la leggenda che fosse ancora capace di sconfiggere qualunque avversario.
Un pomeriggio si presentò un giovane guerriero conosciuto per la sua totale mancanza di scrupoli. Egli era famoso per l’uso della tecnica della provocazione: aspettava che l’avversario facesse la prima mossa e, dotato di una eccezionale intelligenza che gli permetteva di prevedere gli errori che avrebbe commesso l’avversario, contrattaccava con velocità fulminante. Questo giovane e impaziente guerriero non aveva mai perduto uno scontro. Conoscendo la reputazione del samurai, aveva deciso di sfidarlo, sconfiggerlo e accrescere così la propria fama.
Tutti gli allievi del vecchio samurai si dichiararono contrari all’idea, ma il maestro decise ugualmente di accettare la sfida lanciata dal giovane guerriero.
Si recarono tutti nella piazza della città: il giovane cominciò a insultare l’anziano maestro. Lanciò prima alcuni sassi nella sua direzione, gli sputò poi in faccia. Gli urlò tutti gli insulti che conosceva, offendendo addirittura i suoi antenati. Per lunghe ore fece di tutto per provocarlo, tuttavia il vecchio si mantenne impassibile.
Sul finire del pomeriggio, quando ormai si sentiva esausto e umiliato, l’impetuoso guerriero si ritirò.
Delusi dal fatto che il maestro avesse accettato tanti insulti e tante provocazioni senza reagire, gli allievi gli domandarono:
– “Come avete potuto sopportare tante indegnità? Perché non avete usato la vostra spada? Anche sapendo che avreste potuto perdere la lotta, avreste mostrato il vostro coraggio! La gente penserà che siete un codardo!”
L’anziano maestro samurai, allora domandò loro:
– “Se qualcuno vi si avvicina con un dono e voi non lo accettate, a chi appartiene il dono?”
– “Appartiene a chi ha tentato di regalarlo” – rispose uno dei ragazzi.
– “Lo stesso vale per l’invidia, la rabbia e gli insulti” – disse il maestro – “Quando invidia, rabbia e insulti non vengono accettati, continuano ad appartenere a chi li porta con sé”.

Lo Zen è una filosofia buddhista, un’arte del vivere e un modo d’essere. Secondo lo Zen questo processo si realizza attraverso la pratica, ovvero imparare a vivere con consapevolezza e agire in accordo con la propria natura: “Quando cammini cammina, quando sei seduto sii seduto, soprattutto non vacillare“.

Grazie agli insegnamenti zen possiamo quotidianamente imparare a mantenere il nostro equilibrio interiore nonostante le tante provocazioni che siamo costretti a “subire”.

Il racconto del vecchio Samurai ci insegna a come accogliere esperienze emotivamente tossiche senza lasciarsi inquinare psicologicamente e fisicamente. Imparare ad allontanare dalla propria vita ciò percepiamo come tossico, protegge il nostro equilibrio e le nostre energie. Alla luce di questo è necessario comprendere la differenza tra “reagire” e “rispondere” ad una provocazione. In genere reagiamo alle circostanze, come ad esempio, se qualcuno urla contro di noi, reagiamo allo stesso modo, urlando.

Aggrapparsi alla rabbia è come afferrare un carbone ardente con l’intento di gettarlo a qualcun altro; sei sempre e solo tu a rimanere bruciato”. Buddha

Ma possiamo imparare a rispondere, decidendo consapevolmente di avere il controllo. Vale a dire che se non accettiamo le provocazioni, i regali avvelenati, eviteremo di essere contagiati dalla loro tossicità.

“Siamo al mondo per convivere in armonia; coloro che ne sono consapevoli non lottano tra di loro” Buddha
In che modo?
  • Scopriamo cosa attiva in noi le risposte maladattive al punto di perdere il controllo. Questo ci permetterà di riconoscere i trigger che innescano in noi comportamenti di attacco/fuga da alcune situazioni per ripristinare la nostra sicurezza interna. Generalmente queste modalità sono apprese durante i nostri primi anni di vita.
  • Impariamo a lasciare il nostro passato alle spalle, trasformando le esperienze passate, anche quelle più dolorose, come insegnamenti. Riconoscere le proprie ferite e prendersene cura determina in noi un processo di guarigione interiore che ci rende più forti e ci fa sentire sicur*.
  • Guardiamo ai nostri stati emotivi come a delle nuvole transitorie che ora coprono il cielo, ma presto non ci saranno più. Se non ci lasciamo trasportare, è possibile non agire sulla rabbia e sulle provocazioni, imparando ad accettare o rifiutare quello che gli altri ti offrono.. E ricordiamo che è impossibile controllare tutte le nostre reazioni emotive, ma possiamo imparare a riconoscere e guidare in modo funzionale i nostri atteggiamenti e comportamenti.
Cecilia Gioia

 

 

 

Siamo tutti dei porcospini?

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“Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”. (Arthur Schopenhauer – ‘Parerga e Paralipomena’).

In questo breve racconto, il filosofo Arthur Schopenhauer ci fa riflettere sulla difficoltà del vivere in gruppo e mantenere la giusta distanza nelle relazioni interpersonali per non ferirsi l’un l’altro.

Nel dilemma del porcospino, l’unico modo per evitare di ferirsi e di pungersi è quello di restare vicini, ma non troppo vicini. In questo modo i protagonisti riescono a trovare riparo sia dagli aculei che rischiano di pungerli che dal freddo.

Ma siamo tutti dei porcospini quando parliamo di relazioni interpersonali?

Jon Maner e i suoi colleghi hanno voluto approfondire questa domanda con uno studio sperimentale che ha avuto come oggetto il modo in cui le persone rispondono al rifiuto sociale. Nell’ articolo “Does Social Exclusion Motivate Interpersonal Reconnection?Resolving the “Porcupine Problem” gli autori hanno dimostrato che in seguito a continui rifiuti le persone molto ansiose diventano meno socievoli. Le persone più ottimiste, invece, nonostante i rifiuti ricevuti, si impegnano molto per rafforzare le proprie relazioni con gli altri.

I ricercatori concludono « A questo punto va ricordata la risposta che Schopenhauer stesso suggeriva al dilemma del porcospino: infatti Schopenhauer asseriva che le persone cercano naturalmente una distanza di sicurezza dagli altri. “In questo modo” scriveva “il mutuo bisogno di calore viene soddisfatto solo in parte; ma le persone almeno non si feriscono”. (1851/1964, p. 226) Naturalmente Schopenhauer era noto anche per il suo carattere cupo e la sua filosofia era nota per il pessimismo.[5] ».

Alla luce di questo, possiamo davvero sentirci tutti dei porcospini? 

Ognuno di noi può chiederlo a se stess* e provare a rispondere.

Forse molt* di noi provano paura nell’avvicinarsi agli altre o alle altre a causa di alcuni eventi dolorosi del nostro passato. Forse fatichiamo a sperimentare il valore del contatto come occasione di nutrimento, ma non dovremmo mai rinunciare alla nostra vita sociale. Non dovremmo mai evitare di entrare nella relazione con l’altr*, perchè è vero, i rapporti con gli altri e con le altre sono sempre una scommessa, ma è proprio questo che li rende unici e preziosi. E il nostro quotidiano impegno a mantenerli in equilibrio un esercizio per conoscerci e conoscere. E crescere.

Cecilia Gioia

Ti disprezzo, ma ho bisogno di te

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E’ in questa frase l’essenza del comportamento passivo aggressivo, una continua ambivalenza tra l’ostilità e l’intensa dipendenza emotiva dagli altri. L’aggressività passiva è una modalità di esprimere rabbia indirettamente, cioè ferendo gli altri senza “visibilmente” fare nulla. Tutto questo si esprime in sarcasmo, complimenti ambigui, eccessive dimostrazioni di interesse e gentilezza irreali, procrastinazioni, finti fraintendimenti, omissioni e negazione dei propri sentimenti di rabbia quando qualcuno li nota. Alla luce di tutto questo definiamo il comportamento passivo aggressivo come un modo deliberato e mascherato di esprimere sentimenti di rabbia (Long, Long & Whitson , 2008).

Per essere classificati come atteggiamenti passivo-aggressivi, devono essere accomunati un’intenzione ostile nascosta dietro un atteggiamento apparentemente disponibile. Di fatto utilizzando questo tipo di comportamento, le persone esprimono la loro scarsa tendenza all’assertività, la difficoltà ad affrontare un eventuale conflitto e le emozioni negative emergenti seguiti dai sensi di colpa.

Ecco alcuni esempi di comportamenti passivo-aggressivi:

  • adottare una comunicazione ambigua;
  • drammatizzare;
  • procrastinare;
  • chiedere frequentemente scusa;
  • utilizzare i sensi di colpa;
  • essere spesso in ritardo;
  • polemizzare;
  • essere irresponsabile;
  • evitare l’intimità e la tenerezza verso l’altro;
  • controllare e manipolare l’altro.

Tutti questi comportamenti passivo-aggressivo hanno in comune l’insicurezza nell’esprimere i propri sentimenti e le proprie emozioni.

Benchè tutti noi utilizziamo saltuariamente comportamenti di questo tipo, ci sono alcune persone che ne fanno la loro modalità di relazione abituale.

Una buona consapevolezza delle emozioni che ci abitano è fondamentale per un equilibrio psicologico, ecco perché diventa fondamentale il concetto di “regolazione emotiva”. Nel caso della rabbia, indica la capacità dell’individuo di esprimere questa emozione liberamente, evitando atteggiamenti di repressione, di aggressività passiva o disregolata.

Cecilia Gioia

Bibliografia:

The Angry Smile: The Psychology of Passive-Aggressive Behavior in Families, Schools, and Workplaces. Long, Long & Whitson , 2008

 

 

Il grande segreto.

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Negli anni la pratica clinica ha affinato i miei sensi rendendoli più sensibili e recettivi verso le storie che ascolto. Come nel caso di chi decide di abitare per un determinato periodo di vita il mio setting psicoterapeutico portando dietro di sé un grande segreto.

Quando questo arriva, lo sento nell’aria, tutto si sospende ed è in attesa, regalando tempi e pause ormai conosciute. E allora respiro, mi ascolto e aspetto, come chi sa che sta per assistere al grande miracolo dell’apertura del vero Sé.

E la persona lentamente si rivela, (ri)scoprendo parti di Sé per troppo tempo inibite dalle varie strategie di evitamento che hanno come un unico scopo di impedire l’accesso a un ricordo percepito come pericoloso per la coscienza.

Ma cos’è un grande segreto?

Potrebbe riguardare un episodio specifico (un trauma), oppure una condizione generale (es: i ricordi di come ci si sentiva annullati dalle critiche dei genitori). Ricordi e temi di vita dolorosi possono nascondersi oltre la coscienza e stimoli del presente possono farli rivivere richiamando parti di Sé dimenticate ma bisognose di essere (ri)conosciute e integrate.

Un esempio può essere rappresentato da chi, a ogni presa in giro del proprio capo, rischia di provare lo stesso senso di umiliazione ricevuto ad opera di un insegnante alle elementari. A questo punto la coscienza potrebbe apparentemente trarre vantaggio dall’inibire l’accesso di questi ricordi a sé stessa. E quindi cristallizza e protegge negli anni il grande segreto innescando una serie di meccanismi di difesa che generano sistemi disfunzionali e patologie che probabilmente non sarebbero comparse altrimenti. E’ fondamentale, per noi clinici, mantenere un approccio integrato e per questo inserire protocolli mirati alla cura del trauma, per accompagnare la persona che ha scelto di condividere con noi un percorso di psicoterapia, a svelare a se stess* il grande segreto.

Ci vuole davvero grande coraggio e fiducia per decidere di attraversare insieme quel confine, per conoscere cosa vi si nasconde, abitandolo per comprendere che non può distruggerci, ma renderci più forti e consapevoli. E tanta consapevolezza clinica e profondo rispetto verso i passaggi evolutivi di chi ha scelto di donarci la sua storia di vita e il suo grande segreto.

Cecilia Gioia

Diventare mamma, un atto davvero creativo.

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Diventare mamma rappresenta l’atto creativo per eccellenza. La donna apprende, attraverso un percorso di consapevolezza, a fare spazio per accogliere le trasformazioni che il suo corpo e la sua mente vivranno durante i mesi di endogestazione. E sin dai primi attimi di vita intrauterina, mamma e figlia/o sperimenteranno la consapevolezza di vivere, come protagonisti assoluti, un vero e proprio miracolo creativo, una scintilla di pensiero che racchiude in sé tutto il senso del mondo. Mettere al mondo un figlio è concepire nuove parti sè, come donna consapevole di camminare sul mondo, esprimendo liberamente se stessa e il suo essere madre. Ed è attraverso questo atto creativo che la coppia sperimenta le sue risorse endogene, spesso inconsapevoli, attraverso le piccole e grandi conquiste che caratterizzano il diventare genitori.

Il dono più bello che un genitore possa fare ai figli è l’ottimismo, indispensabile per crescere sereni. Secondo Seligman l’ottimismo è il risultato del nostro stile di attribuzione, vale a dire di come interpretiamo gli eventi che ci riguardano. Crescendo, il bambino si crea un’immagine causale delle cose che gli accadono, sviluppa cioè delle teorie sui motivi per cui determinate cose accadono e del perché egli fallisce o ha successo. Come genitori possiamo quotidianamente migliorare l’ottimismo dei nostri figli attraverso una serie di azioni “creative” che sollecitano nel bambino il bisogno di far leva sulle sue risorse interne, quali

  • proporre loro attività che migliorano la loro padronanza del mondo circostante come scegliere i vestiti da mettersi ogni giorno, le cose da acquistare al supermercato, i cibi da mangiare, i giochi. Questo approccio comporta anche lasciare che i nostri figli provino a risolvere da soli le proprie difficoltà, senza criticarli in caso di insuccessi. Sostituirsi a loro, anche se a volte è più rapido, criticarli o lodarli senza un motivo impedisce ai nostri figli di sviluppare le capacità necessarie per affrontare la vita, e riduce la loro fiducia in se stessi, perché trasmettiamo il messaggio che sono incapaci di cavarsela da soli.
  • stimolare nei propri figli la creazione di nuove strategie per relazionarsi meglio con gli altri come fare amicizia con altri bambini, negoziare in caso di disaccordi, rivolgersi a persone adulte.
  • spiegare i loro (e i nostri) insuccessi e successi con commenti che promuovono uno stile ottimista, cioè descrivere l’evento negativo come di importanza limitata, temporaneo, circoscritto a un solo un aspetto della loro persona, e dovuto a cause esterne o a un loro comportamento modificabile.

Numerosi studi si sono concentrati sul mettere in evidenza le basi cerebrali del pensiero creativo. Già negli anni Settanta è stata promossa, su basi scientifiche, la teoria che la creatività fosse associata ad una maggiore attivazione da parte dell’emisfero destro del nostro cervello: tale zona, infatti, sembrerebbe avere un ruolo predominante a livello di percezione e produzione musicale, nella creazione delle arti visive e nella produzione di immagini mentali (Martingale, 1981; Seamon – Gazzaniga, 1973, cit. in Sternberg 1999). Secondo Gardner (1994) la persona creativa è colei che regolarmente risolve dei problemi, elabora dei prodotti o formula interrogativi nuovi in un modo che inizialmente viene considerato originale ma che finisce per venir accettato in un particolare ambiente culturale. La persona creativa non è creativa una tantum. È in grado di comportarsi creativamente sempre: l’atto creativo non è un evento unico, ma la creatività è piuttosto di uno stile di vita. Uno dei primi compiti dei genitori è quello di offrire al bambino, fin da piccolissimo, delle opportunità per esprimere le proprie potenzialità. Può essere utile far possedere un luogo segreto, in cui il bambino può pensare e sognare; offrire, se possibile, vari materiali come album da disegno e strumenti musicali; ritagliare degli spazi temporali e fisici in cui creare; incoraggiare il bambino a disegnare e valorizzare le “produzioni artistiche”; portare i bambini ai musei e far ascoltare loro la musica; non reprimere la creatività dei propri figli con suggerimenti; far comprendere ai bambini l’importanza di “partecipare” anche se il proprio contributo sarà secondo o terzo; stabilire un clima allegro e utilizzare l’ironia quando si lavora a qualcosa di creativo e darsi il peso giusto e darlo ai propri figli, senza utilizzare frasi del tipo “sei un genio!” e varie.

L’educazione alla bellezza equivale a fornire ai nostri bambini la capacità di apprezzare la poesia del mondo, offrendo loro validi strumenti per fronteggiare gli imprevisti della vita.

Come genitori è fondamentale incoraggiare il potenziale del nostro bambino attraverso l’ascolto consapevole innanzitutto di noi stessi. L’ascolto delle nostre emozioni come genitori ci permette di riconoscere ed eventualmente esprimere una serie di emozioni, spesso poco piacevoli, che inevitabilmente tendiamo a nascondere e che trasmettono al bambino sentimenti di rabbia e impotenza. Tutto questo influenza negativamente la percezione che il bambino ha di sé condizionando lo sviluppo di una sana autostima e senso di efficacia, fondamenta necessarie per crescere. Un passo successivo è far leva sui suoi punti di forza, guardandolo negli occhi e parlando con tono di voce dolce e moderato, sottolineando due elementi fondamentali del nostro bambino, , quali l’energia e la sua creatività.

Alfie Kohn sostiene che uno dei bisogni fondamentali del bambino è di essere amato in maniera incondizionata e di essere accettato anche quando combina guai o fallisce. I sistemi educativi attualmente ancora in uso quali punizioni, castighi, premi e altre forme di controllo inducono invece i nostri figli a credere di essere amati solo se ci compiacciono o ci colpiscono in modo favorevole e che hanno come unico effetto quello di far sentire il bambino sbagliato come persona. L’obiettivo invece è porre il genitore a riflettere su quali sono i bisogni dei nostri figli e come possiamo soddisfare tali bisogni, base solida da cui partire in un clima di alleanza e cooperazione. Perché educare è l’atto creativo per eccellenza, è portare rispetto, amore, ricerca comune dei valori nei rapporti tra due persone. E’ far venire fuori da lui cio’ che e’ dentro di lui. In altri termini, vuol dire aiutare qualcuno ad esprimere se stesso, ad essere quello che e’, a comportarsi seguendo la sua personalita’. Educare alla creatività è un atto d’ amore e noi come genitori possiamo fare molto, perchè:

Tutti i bambini sono degli artisti nati; il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi. (P. Picasso)”.

Cecilia Gioia

 

 

 

Le Crisi psicogene non Epilettiche (PNES)

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Le crisi psicogene sono modificazioni episodiche del comportamento, caratterizzate dalla compromissione improvvisa e transitoria di funzioni motorie, sensitive, autonomiche, cognitive e/o emozionali, che mimano semeiologicamente una crisi epilettica ma che sono determinate da meccanismi psicologici e non da alterazioni dell’attività elettrica cerebrale (Lesser, 1996). Esse sono frequentemente osservate nei centri di epilessia, dove rappresentano approssimativamente il 20% dei pazienti giunti all’osservazione per crisi convulsive refrattarie alla terapia antiepilettica (Benbadis, 2000); un terzo dei pazienti presenta inoltre episodi prolungati ricorrenti che mimano uno stato epilettico (Reuber, 2003), associati ad aumento di morbilità e mortalità (Reuber, 2004), legati a inappropriati interventi di emergenza e al ricovero in terapia intensiva (Howell, 1989; Gunatilake, 1997). La prevalenza stimata nella popolazione generale è tra il 2 ed il 33/100000 individui, una frequenza pari a disturbi quali la sclerosi multipla e la nevralgia del trigemino (Benbadis, 2000). L’acronimo PNES (Psychogenic Non Epileptic Seizures) è usato in letteratura per descrivere queste manifestazioni parossistiche, che tipicamente insorgono nella seconda o terza decade di vita e colpiscono le donne da 3 a 4 volte di più rispetto agli uomini (Lesser, 1996). Tuttavia esistono casi di PNES con esordio prima della pubertà (Bathia, 2005) e sopra i 70 anni (Duncan, 2006), nei quali non sono riscontrate differenze di sesso.

Diagnosi

La diagnosi di PNES può essere sospettata con buon valore predittivo in base alla storia clinica e alle caratteristiche semeiologiche degli episodi, ma deve essere confermata successivamente attraverso una registrazione video-elettroencefalografica (V-EEG) prolungata, che rappresenta il gold standard per l’identificazione di questo tipo di crisi (Schachter, 2010). La resistenza ai farmaci antiepilettici, un’alta frequenza di eventi, la ricorrenza di episodi prolungati per oltre trenta minuti, il manifestarsi delle crisi in particolari circostanze (ad esempio in presenza del medico o in sala d’attesa), una storia di sintomi fisici inspiegati quali fibromialgia o dolore cronico (Benbadis, 2005), di trattamenti psichiatrici oppure di abuso fisico e sessuale sono tutti elementi anamnestici clinicamente utili per sollevare il sospetto di crisi psicogene piuttosto che epilettiche (Reuber, 2003). Sebbene nessuna caratteristica considerata singolarmente può essere ritenuta patognomonica di PNES, alcuni elementi semeiologici altamente sospetti sono: l’esordio graduale, la durata superiore a due minuti, l’assenza di confusione postcritica, un’attività motoria irregolare o asincrona comprendente movimenti laterali della testa, posture opistotoniche (Meierkord, 1991; O’Sullivan, 2007), movimenti pelvici ritmici (Geyer, 2000), il farfugliamento (Vossler, 2004) ed il pianto (Bergen, 1993). La chiusura degli occhi, soprattutto quando prolungata e resistente a tentativi di apertura forzata da parte dell’esaminatore, è un segno specifico di PNES (Chung, 2006); al contrario l’incontinenza urinaria e la morsicatura della lingua si verificano tanto nelle crisi epilettiche quanto nelle PNES, pertanto non sono discriminanti (de Timary, 2002). Il monitoraggio v-EEG nella maggior parte dei casi consente di dimostrare l’assenza di alterazioni epilettiformi durante l’evento clinico e quindi di definire con certezza la diagnosi di PNES. Tale esame può risultare negativo anche nelle crisi epilettiche parziali semplici ed in alcune crisi parziali complesse, in particolare quelle che hanno origine nel lobo frontale (Bathia, 1997), o può non essere interpretabile a causa di eccessivi artefatti da movimento (Schachter, 2010). In questi casi, la presenza di suggestione testimoniata dalla positività al test d’induzione (un’iniezione di soluzione salina o l’apposizione di batuffoli imbevuti di alcool sulla regione cervicale per provocare la crisi) (Bazil, 1994) può slatentizzare l’etiologia psicogena dell’episodio. Un altro test per valutare una crisi psicogena anche se con una bassa sensibilità e specificità è il dosaggio sierico postictale di prolattina, infatti i livelli dell’ormone misurati a 20 minuti dall’episodio sospetto risultano aumentati nelle crisi generalizzate tonico-cloniche e nelle crisi parziali complesse; ciò però non si verifica nelle crisi del lobo frontale e nello stato di male epilettico (Bauer, 1996). Tuttavia, nonostante l’attenzione rivolta negli anni recenti, la distinzione delle PNES dalle crisi epilettiche resta un quesito di difficile soluzione nella pratica clinica come testimoniato dal tempo di latenza media tra la prima manifestazione e la diagnosi che è di circa 8 anni e dal fatto che la quasi totalità dei pazienti è trattata inizialmente con antiepilettici (Reuber, 2002), nonostante la coesistenza delle due patologie sia riportata solo nel 10% dei casi (Benbadis, 2001). La presenza di alterazioni intercritiche dell’EEG riscontrata nei pazienti con PNES può contribuire al ritardo diagnostico ed ad una diagnosi errata (Reuber, 2002); tali alterazioni se isolate non devono essere considerate supportive di una diagnosi di epilessia.

Aspetti Psichiatrici e Neuropsicologici                                                     

Una diagnosi non corretta, oltre ad aumentare i costi sanitari e sociali, ha serie ripercussioni sulla qualità della vita dei pazienti, che sono esposti a danni iatrogeni dovuti all’uso di farmaci non necessari (effetti collaterali ma anche teratogeni, non irrilevanti se si considera che la maggioranza dei pazienti con PNES sono donne in età fertile), a difficoltà di occupazione, restrizioni di guida ed a ritardi nella valutazione e nel trattamento della psicopatologia sottostante e/o associata, con conseguente peggioramento della prognosi (Chung, 2006; Szaflarski, 2003). I pazienti con crisi psicogene, infatti, mostrano una maggiore prevalenza di deficit neuropsicologici (perdita di memoria a breve termine e di capacità attentive) e patologie psichiatriche superiori rispetto alla popolazione generale. Tra le patologie psichiatriche più evidenti sono stati riportati disturbi depressivi, d’ansia (soprattutto disturbo post-traumatico da stress) e di personalità (in particolare borderline), il cui mancato riconoscimento e trattamento contribuisce alla persistenza delle PNES dopo la diagnosi ed al peggioramento della qualità della vita. La discussione circa la caratterizzazione delle crisi psicogene come un disturbo primariamente somatoforme o dissociativo è dibattuta e ben esemplificata dalla discordanza classificativa nei due maggiori sistemi nosografici psichiatrici, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV-TR) e la Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-10), che collocano le PNES in capitoli distinti. Il DSM-IV-TR include le crisi psicogene nei disturbi da conversione (American Psychiatric Association, 2000), nell’ambito dei disturbi somatoformi, forme cliniche nelle quali un disordine mentale è espresso in modo esclusivo e/o prevalente attraverso sintomi fisici. Nella conversione i sintomi neurologici non sono dovuti a una lesione organica cerebrale ma vengono prodotti inconsciamente dal paziente e scatenati o esacerbati da particolari fattori stressanti; essi costituiscono la rappresentazione concreta di pulsioni ed istinti rimossi e resi inconsci perché incompatibili con la coscienza dell’individuo. Attraverso la somatizzazione il soggetto si libera dal conflitto ed allo stesso tempo lo soddisfa metaforicamente trasferendolo sul corpo (Invernizzi, 2006). Nei pazienti con PNES l’entità della somatizzazione risulta correlata alla severità delle crisi ed alla prognosi (Reuber, 2003). Al contrario l’ICD 10 classifica le PNES nell’ambito dei disturbi dissociativi (Who, 1992), riprendendo il concetto di dissociazione proposto da Janet per indicare l’isolamento dalla coscienza di una serie di idee come meccanismo difensivo nei confronti di eventi traumatici reali, quali per esempio abusi sessuali o maltrattamenti, soprattutto nell’infanzia (Invernizzi, 2006), che in effetti sono dati anamnestici spesso presenti nella storia di questi pazienti con una frequenza superiore a quella rilevata nella popolazione generale (Duncan, 2008). Ovviamente, data la produzione inconscia dei sintomi alla base sia della somatizzazione sia della dissociazione, le crisi psicogene devono essere distinte tanto dai disturbi fittizi quanto da quelli di simulazione. Nei primi, il soggetto produce intenzionalmente i sintomi per il bisogno psicologico di assumere il ruolo del malato, come nella sindrome di Munchausen che ne costituisce la variante più grave; nei secondi, che diversamente non costituiscono un disordine psichiatrico, i sintomi sono prodotti volontariamente per ottenere un vantaggio materiale, per esempio l’acquisizione di droghe o un risarcimento per invalidità. (Schachter, 2010).

Le basi Neurobiologiche/Neurofisiologiche                                                         

Nonostante l’attenzione rivolta principalmente a fattori psicologici quali base fisiopatologica delle PNES, l’ipotesi di un possibile contributo organico allo sviluppo delle crisi psicogene e di altri sintomi somatoformi è ipotizzata da alcuni anni se non dallo stesso Charcot oltre cento anni fa. Alcuni studi hanno dimostrato una prevalenza inaspettatamente alta di alterazioni elettroencefalografiche, deficit neuropsicologici (Schachter, 2010) ed anormalità cerebrali (Reuber, 2002) nei pazienti con PNES. Inoltre le PNES possono manifestarsi dopo interventi neurochirurgici, in genere entro un mese, effettuati anche per indicazioni diverse dal controllo di crisi epilettiche refrattarie alla terapia medica; il rischio è più alto nei pazienti con storia di problemi psichiatrici precedenti l’intervento e con maggiori complicazioni chirurgiche (Reuber, 2002). Molti pazienti con PNES riportano in anamnesi un trauma cranico antecedente lo sviluppo delle crisi; questi casi sono spesso diagnosticati erroneamente come epilessia post-traumatica; tuttavia le PNES post-traumatiche hanno caratteristiche che ne permettono una differenziazione, infatti il trauma cranico è generalmente di lieve entità, la maggioranza dei soggetti sono donne, la semeiologia è tipo crisi parziali complesse e sono più frequenti gli episodi di stato di male psicogeno (Barry, 1998). Attualmente, il contributo di tecniche di neuroimaging funzionale ha messo in discussione l’origine psicologica e psicodinamica dei disturbi conversivi fornendo dati preliminari circa un possibile coinvolgimento delle regioni limbiche e della corteccia sensori-motoria e ponendo le basi per l’ipotesi di un modello patogenetico di tipo neurobiologico (Montoya, 2006). In particolare, studi di neuroimaging hanno rivelato riduzioni selettive nell’attività dei circuiti frontali e subcorticali coinvolti nel controllo motorio durante paralisi conversiva, della corteccia somatosensitiva nell’anestesia e della corteccia visiva nella cecità di origine psicogena (Vuilleumier, 2005). Nella paralisi di origine psicogena la modulazione dell’attività dei gangli della base e del sistema talamocorticale responsabile dell’inibizione motoria potrebbe essere provocata da diversi fattori stressanti attraverso gli input limbici dall’amigdala e dalla corteccia orbito frontale, che mostrano un’iperattivazione; inoltre sia il talamo sia i gangli della base risultano implicati nell’integrazione sensoriale e nell’elaborazione del dolore (Vuilleumier, 2001). Tuttavia questi studi sono inficiati sia dalla grande eterogeneità del campione esaminato, sia dall’attenzione rivolta prevalentemente a sintomi negativi, quali la paralisi e l’anestesia. Sulla base di queste conoscenze ed essendo le crisi psicogene assimilabili ai disturbi da conversione lo scopo del nostro studio sperimentale è stato quello di verificare l’esistenza di anormalità cerebrali nei pazienti con crisi psicogene, combinando due distinte tecniche di risonanza magnetica cerebrale avanzate quali la Voxel-Based-Morphometry (VBM) e la misurazione dello spessore corticale. Il nostro obiettivo era quella di trovare risultati sovrapponibili attraverso due tecniche diverse in modo da rafforzare il nostro risultato. La VBM è una tecnica di RM completamente automatizzata e sensibile in grado di identificare differenze minime di densità della sostanza grigia e bianca del cervello, non altrimenti rilevabili con metodiche convenzionali, in gruppi di soggetti attraverso il confronto con individui normali senza nessuna ipotesi aprioristica, contrariamente alle metodiche precedenti che restringono l’analisi a specifiche regioni di interesse (Ashburner, 2000). L’analisi dello spessore corticale, metodica validata su studi post-mortem in pazienti affetti da Corea di Huntington, fornisce un ulteriore strumento per quantificare la riduzione dello spessore di aree di corteccia che risultano atrofiche (Fischl, 2000). La dimostrazione di specifici correlati neuroanatomici nei pazienti con PNES, oltre a fare luce nella comprensione di un disturbo tanto complesso, potrebbe contribuire a migliorare sia la diagnosi che la terapia delle crisi psicogene.

M. Cecilia Gioia, Phd

 

*Tratto dalla mia tesi di Dottorato in Psicologia della Programmazione e Intelligenza Artificiale dal titolo: Correlati neuroanatomici in pazienti affetti da Crisi Psicogene non Epilettiche: uno studio di neuroimaging strutturale.

Il disturbo bipolare.

disturbo-bipolare-oltre-la-fase-criticaIl disturbo bipolare. Che cos’è?

È un disordine che può interferire con il lavoro e le relazioni interpersonali in modo rilevante ed è caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore, con alternarsi di episodi maniacali e depressivi e spesso si traduce in uno stravolgimento della vita quotidiana. Rientra nei disturbi dell’umore e si caratterizza per gravi alterazioni delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti.

Secondo il DSM 5 il disturbo bipolare può essere distinto in:

Disturbo bipolare I – La caratteristica principale è la presenza di almeno un episodio di Mania o Misto e di un episodio Depressivo. La durata dei singoli episodi si mantiene costante mentre diminuisce quella tra uno e l’altro nel tempo.

Disturbo bipolare II –È caratterizzato da Episodi Ipomaniacali e mancata interferenza con la vita quotidiana a livello di funzionamento sociale o lavorativo. Sono assenti l’ospedalizzazione e i sintomi psicotici.

Disturbo ciclotimico – È caratterizzato da un alto grado di malfunzionamento sociale e lavorativo per via del continuo alternarsi di periodi Ipomaniacali e sintomi Depressivi.

Come si manifesta?

Questo disturbo è caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore, delle emozioni e dei comportamenti, il tutto con una durata piuttosto variabile. Questi sbalzi d’umore sono caratterizzati dall’alternarsi di Episodi Maniacali/Ipomaniacali ed Episodi Depressivi, motivo per cui questa patologia è definita Bipolare.

Quali sono le cause?

Il primo episodio maniacale – depressivo di solito si verifica in età adolescenziale o nella prima età adulta. Molto spesso, i soggetti che soffrono di bipolarismo hanno avuto episodi simili in famiglia (fattori genetici). I geni però non sono l’unica causa. Il cervello dei pazienti colpiti mostrano mutamenti fisici nel loro cervello (dati emersi da studi di brain imaging) oppure squilibri nei neurotrasmettitori, nel funzionamento della tiroide e nei ritmi circadiani. In particolare, sono emersi livelli molto alti di cortisolo, quello che viene chiamato ormone dello stress (fattori biochimici). Anche i fattori ambientali e psicologici sono certamente coinvolti nello sviluppo del disturbo. Questi fattori vengono chiamati triggers e possono peggiorare sintomi preesistenti o scatenare nuovi episodi di mania o depressione (fattori psicologici e ambientali).

Quali i fattori di rischio se ci sono?

Distinguiamo tra i fattori di rischio gli eventi di vita stressanti. Questi eventi tipicamente comprendono cambiamenti improvvisi positivi o negativi come il matrimonio, l’allontanarsi da casa per lavoro o studio, rotture sentimentali, licenziamenti possono scatenare un disturbo bipolare in alcune persone con vulnerabilità genetica. Seguono l’abuso di sostanze che può scatenare un episodio in chi ne è già affetto o peggiorare il decorso della patologia. Droghe come la cocaina, l’ecstasy e le amfetamine possono causare episodi di mania, mentre l’alcool e i tranquillanti episodi di depressione. Anche i farmaci, in particolare gli antidepressivi possono scatenare episodi di mania. Sono potenzialmente pericolosi anche i soppressori della fame, la caffeina, i corticosteroidi e i farmaci tiroidei. Spesso gli episodi di mania o depressione si verificano in concomitanza con i cambiamenti stagionali. Gli episodi di mania sono tipici durante l’estate, mentre gli episodi depressivi durante l’autunno, l’inverno e la primavera. Infine la deprivazione di sonno, anche se minima come perdere qualche ora di sonno, può scatenare un episodio di mania.

Come si cura?

Vivere con una depressione bipolare non trattata può condizionare in maniera significativa in tutti i settori della vita, dal lavoro, alle relazioni, alla salute. E’ fondamentale avere una diagnosi precoce del problema e intraprendere il trattamento più efficace. Il disturbo bipolare è una patologia complessa, ecco perché la diagnosi può non essere così immediata e il trattamento è a lungo termine. Per ragioni di sicurezza l’assunzione dei farmaci deve essere costantemente monitorata da professionisti competenti. Un trattamento che combini insieme farmacoterapia e il trattamento psicoterapeutico è ottimale per il controllo e la stabilizzazione del disturbo nel tempo. Il trattamento psicoterapico nasce, in particolare, per affrontare i problemi di mancanza di collaborazione del paziente e migliorare la compliance.

Chi è affetto da questo disturbo può essere pericoloso per se e per gli altri?

Come abbiamo già detto il disturbo bipolare è caratterizzato dall’alternanza di uno stato depressivo e di uno maniacale (o ipomaniacale); quando c’è una compresenza di sintomi depressivi e sintomi maniacali, con il predominio di irritabilità, ansia e irrequietezza, si può presentare invece, lo stato misto. Non bisogna, però, confondere quelli che comunemente sono definiti “up e down” dell’umore, che ognuno di noi può avere nel corso della propria vita quotidiana, con le manifestazioni severe del disturbo bipolare, che possono, invece, rovinare i rapporti interpersonali, causare la perdita del lavoro e, in casi estremi, esitare in comportamenti suicidari. E’ importante ricordare che avere un disturbo bipolare non è di per sé più o meno grave che soffrire di altre patologie croniche, come l’asma o il diabete e che nella maggior parte dei casi il disturbo può essere trattato in maniera efficace grazie ad una terapia combinata adeguata.

Come comportarsi con chi ne soffre.

Aiutare chi ne soffre, soprattutto se si tratta di un familiare o di una persona cara, non è sempre facile e richiede molta pazienza. Questi suggerimenti derivano dalla esperienza diretta con questi pazienti, sia da quella dei loro familiari. E’estremamente utile:

  • Aumentare la propria conoscenza del disturbo bipolare
  • Incoraggiare nel seguire le cure secondo le prescrizioni
  • Aiutare a mantenere uno stile di vita regolare
  • Prevenire le ricadute
  • Favorire il rapporto con lo psichiatra e lo psicoterapeuta

 

M. Cecilia Gioia Phd, psicologa, psicoterapeuta

 

 

I pensieri di una psicoterapeuta.

4Credo fermamente che il miglior modo di onorare una notte d’estate dall’aria rarefatta e sospesa, sia scrivere pensieri ribelli dall’ apnea densa e faticosa. E allora scrivo. E accolgo pensieri. Scrivo di storie di donne e di uomini che quotidianamente ascolto grazie al mio lavoro, raccolgo emozioni di vite vissute, sostengo fatiche di un quotidiano viversi, riunisco parti di Sé in frammenti. In una parola ASCOLTO (dentro), lasciando scorrere tutto questo attraverso un sistema osmotico di pieni e vuoti che solo anni di pratica clinica insegnano e consolidano in un quotidiano ripetersi di rituali per accogliere ed accogliersi.

Perché è facile entrare nella relazione d’aiuto, ci gratifica sollecitando parti di un Sé affamato di riconoscimento, il difficile è rimanerci imparando a staccarsi, in un quotidiano arrivederci, mentre la terapia scorre, accoglie, raccoglie e guarisce storie quotidiane di un faticoso viversi.

Il difficile è accettare quella traccia che ogni paziente lascia in noi ogni giorno, tracce spesso doloroso, silenziosi segni che incidono la nostra psiche e la nostra storia. Il difficile è lasciarsi andare, mescolarsi, accettare senza perdersi, senza perdere mai di vista l’unico obiettivo della relazione terapeutica: la guarigione psichica della Persona che ci ha scelto. Ogni incontro è un movimento rotatorio, spesso veloce, altre volte lento, dove due sostanze diverse si mescolano per alcuni momenti ritornando ognuna al proprio posto, quando la forza terapeutica del setting smette di “centrifugare” emozioni e storie. Un pò come l’acqua e l’olio, sostanze dalla natura diversa, ma capaci di convivere nello stesso spazio che contiene differenze e confini, formando per pochi attimi una miscela empatica per poi dividersi in due strati separati ma complici. Ecco, io immagino ogni incontro terapeutico così, raccogliendo a fine giornata tutto questo, integrandolo nella mia storia di donna, di madre e di psicoterapeuta, imparando da ogni incontro l’importanza di sentirsi amati e accuditi, sin dal preconcepimento.

E parto proprio da lì, dal racconto del loro parto, perché è dentro l’utero materno che noi psicoterapeuti riusciamo ad iniziare la Persona alla narrazione di sé. Perché nel modo di venire al mondo c’è una fonte inesauribile di storie, vissuti, letture, schemi che si ripetono nel quotidiano viversi in una coazione spesso dolorosa, dai significati misteriosi che aspetta solo di essere ascoltata e restituita in una rilettura che libera da meccanismi disfunzionali e affaticati. Perché accettare di lavorare su memorie remote, significa mescolarsi, sentirsi, riconoscersi e distaccarsi, riportando la narrazione in un qui ed ora denso di sintomi e di sofferenza psichica. Significa viaggiare nel tempo, senza mai disorientarsi, raccogliendo i rischi dell’ignoto, mentre la Persona svela parti di Sé mai raccontate. Significa accettare, anche le parti scomode, quelle che non avremmo mai voluto sentire ma che appartengono alla Persona che ci ha scelto. Significa accompagnare, lenire, asciugare lacrime e guarire da una sofferenza psichica la/il protagonista della storia ascoltata. Significa lasciarla/o andare in un addio che sugella un patto indissolubile, fatto di rispetto e di confini.

Ecco cosa significa per me, ogni giorno, il mio lavoro.

Si chiama Psicoterapia, si pronuncia Passione.

Cecilia Gioia