QM: il Quoziente Mammesco.

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Strana sigla il QM, di comprensione non immediata, ma per una che si occupa da tanti (sic!) anni di neuropsicologia, non nascondo di provare un misto di soddisfazione nel raccontare questa piacevole “scoperta”.

Bene, partendo da queste premesse, che cos’è il Quoziente Mammesco?

Nel linguaggio comune probabilmente è capitato di incontrare più volte il termine di Quoziente Intellettivo o QI, e allora procediamo con ordine e se vi va, provate a seguirmi.

In neuropsicologia parliamo di Quoziente Intellettivo (QI) come il punteggio che si ottiene attraverso un Test di Intelligenza, cioè un test standardizzato che misura l’efficienza intellettiva. E’ bene sottolineare che i test di intelligenza misurano delle abilità specifiche (intelligenza psicometrica) e non l’intelligenza “vera” che invece comprende una serie di aspetti e abilità. Infatti il QI è semplicemente un indice quantitativo: dimostra se lo sviluppo cognitivo procede in linea con il gruppo di riferimento, è un ottimo indicatore da utilizzare nella ricerca ma “perde” di quegli aspetti squisitamente individuali che tanto ci rendono umanamente interessanti ed unici. Due autori Horn e Cattell mi colpirono durante i miei studi, per il concetto di intelligenza cristallizzata, ovvero quelle capacità cognitive acquisite tramite la socializzazione e la cultura, basate quindi sul sapere e sull’esperienza e meno toccate dai processi di logoramento dovuti all’invecchiamento; e di intelligenza fluida, ovvero quelle capacità cognitive come il problem solving, il pensiero induttivo e la memoria associativa, che sono legate alla predisposizione fisica e quindi al buon funzionamento di specifiche strutture neurofisiologiche e che si riducono, con l’età. A tutto questo, mentre sorvoliamo anni e anni di studi sull’intelligenza, voglio aggiungere il concetto conosciuto e largamente usato di intelligenza emotiva di Goleman, che include “la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli altrui, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali”.

Bene, e allora perché non parlare di intelligenza materna, che racchiude alcuni aspetti delle intelligenze sopraelencate e che può essere facilmente identificata, e magari un giorno, “classificata” con il Quoziente Mammesco?

E qui le nostre competenze di mamme, tante, uniche riescono facilmente ad identificarsi, riconoscendosi in tutte queste abilità sopraelencate.

Iniziamo dalle strategie di problem solving, cavallo di battaglia di noi mamme, sollecitate sempre da situazioni spesso di “emergenza” che ci costringono a ragionare in tempi immediati e imprevedibili. Il pensiero induttivo, di aristotelica memoria, tanto caro a noi mamme, sempre alle prese con particolari premesse da cui partire per arrivare a conclusioni probabilmente vere, in termini di probabilità, assecondando i tempi ristretti a cui spesso è sottoposto il nostro pensiero. Un esempio di pensiero induttivo mammesco che ci farà sorridere un po’ ma in cui molte di noi si riconosceranno è “In classe di mio figlio, ho visto un bimbo raffreddato, un secondo bimbo raffreddato… allora probabilmente tutti i bimbi della classe sono raffreddati”.

Alzi la mano chi si riconosce in questo tipo di pensiero?

Ma continuiamo con la memoria associativa che sembra essere a forma più primitiva di memoria molto nutrita nelle mamme perché costantemente sollecitata da associazioni di informazioni e che permette a diversi ricordi di legarsi tra loro come anelli di una catena. Anche in questo caso noi mamme siamo speciali, riusciamo a partire da un piccolo ricordo per ricostruire anni e anni di informazioni acquisite, non tralasciando nulla, anzi arricchendo le di nuovi particolari digeriti nel corso del tempo.

E poi c’è l’intelligenza emotiva, un misto di empatia, motivazione, autocontrollo, logica, capacità di adattamento e di gestione delle proprie emozioni, utile per utilizzare i lati positivi di ogni situazione cui si va incontro. Per Goleman l’intelligenza emotiva racchiude due competenze a cui attribuisce delle caratteristiche specifiche:

  1. Competenza personale, ovvero il modo in cui controlliamo noi stessi e che comprende
  • la consapevolezza di sé, utile per riconoscere le proprie emozioni e le proprie risorse;
  • la padronanza di sé che racchiude l’abilità ad adattarsi e una buona resilienza
  • e la motivazione, spinta energetica che guida l’individuo verso nuovi obiettivi da raggiungere.
  1. Competenza sociale, ossia la modalità con cui gestiamo le relazioni con l’Altro che comprende:

– l’empatia, ovvero la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui, individuare e promuovere le opportunità offerte dall’incontro con altre persone e il saper interagire all’interno di un gruppo.

– le abilità sociali,  che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili e favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo che consenta di lavorare per obiettivi comuni.

Alla luce di tutto questo, alzi la mano chi come donna e mamma, non esercita quotidianamente questo tipo di intelligenza?

Immagino che ognuna di noi, nei suoi tempi diversi di maternità, possa riconoscersi in queste caratteristiche e provare a guardare a sè stessa con gratitudine per l’enorme lavoro cognitivo ed emotivo che porta avanti.

E allora diciamolo a gran voce, il Quoziente Mammesco esiste davvero perché racchiude tutto questo e altro ancora e noi mamme spesso, non ne siamo davvero consapevoli.

Ecco perchè è importante parlarne e risvegliare in noi le nostre coscienze spesso sopite che dimenticano di riconoscersi il nostro immenso valore. Ed è per questo che come donna e madre di cielo e di terra rivendico, con orgoglio, il mio Quoziente Mammesco come risorsa inesauribile che genera crescita e cambia-Menti fuori e dentro di me.

E tu, conosci il tuo Quoziente Mammesco?

Cecilia Gioia

 

 

 

 

 

La Scala di Edimburgo per un’autovalutazione della depressione post partum.

Maternity-blues-ok-950x545È l’unico test di screening attualmente riconosciuto a livello internazionale. La sua applicazione può rivolgersi a popolazioni di origini etniche diverse. Il test non costituisce di per sé una diagnosi di dpp, ma può essere un punto sa cui partire. In generale si esegue si esegue dopo due settimane dalla nascita del bambino ed è necessario rispondere a tutte le domande e sommare il punteggio.

1) Negli ultimi 7 giorni sono stato capace di sorridere e vedere il lato divertente delle cose:

– Come sempre  = 0 punti
– Un po’ meno del solito = 1
– Decisamente meno del solito = 2
– Per niente = 3

2)  Negli ultimi 7 giorni guardavo alle cose imminenti con gioia:

– Come sempre  = 0 punti
– Un po’ meno del solito = 1
– Decisamente meno del solito = 2
– Per niente = 3

3) Negli ultimi 7 giorni mi rimproveravo senza motivo quando le cose andavano male:

– Sì, per la maggior parte delle volte = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

4) Negli ultimi 7 giorni sono stata ansiosa e preoccupata senza una ragione:

– No, per niente = 0 punti
– Molto raramente = 1
– Sì, qualche volta = 2
– Sì, molto spesso = 3

5) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita spaventata o terrorizzata senza una vera ragione:

– Sì, abbastanza = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

6) Negli ultimi 7 giorni le cose mi sovrastano:

– Sì, per la maggior parte del tempo non riesco a cavarmela affatto = 3 punti
– Sì, a volte non riesco a cavarmela come al solito = 2
– No, la maggior parte delle volte me la cavo abbastanza bene = 1
– No, me la sono cavata come sempre =0

7) Negli ultimi 7 giorni sono stata così infelice che da non riuscire a dormire:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, alcune volte = 2
– No, non per molto = 1
– No, mai = 0

8) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita triste e abbattuta:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, abbastanza spesso= 2
– No, non molto spesso =1
– No, mai = 0

9) Negli ultimi 7 giorni mi sono sentita così triste da mettermi a piangere:

– Sì, per la maggior parte del tempo = 3 punti
– Sì, abbastanza spesso = 2
– Soltanto occasionalmente = 1
– No, mai = 0

10) Negli ultimi 7 giorni il pensiero di farmi del male mi è venuto in mente:

– Sì, abbastanza spesso = 3 punti
– Qualche volta = 2
– Quasi mai =1
– Mai = 0

In linea con la letteratura internazionale si può considerare un punteggio 9-11 come indicatore di medio rischio e ≥12 come indicatore di rischio elevato. Il solo punteggio non deve sostituire il giudizio clinico, è opportuno avvalersi di un colloquio clinico approfondito rispetto ai singoli item. L’importante è che non pensare di farcela da sola: la depressione è una malattia a tutti gli effetti e come tale va curata.

Puoi prenotare un colloquio clinico al numero 388/3620740.

Il corpo delle mamme non si “deve” vedere?

Uno scritto di 5 anni fa, ahimè sempre attuale.

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Ho aspettato un po’ prima di utilizzare la scrittura come mezzo elettivo per condividere emozioni di “pancia” e pensieri di “testa”, ma adesso credo che sia maturato in me il bisogno di esprimermi. Ho assistito, in questi giorni, a reazioni inaspettate, manifestate da donne (spesso anche mamme) e uomini (spesso anche papà) verso immagini che mostravano l’evento nascita. Eh si, avete capito bene, l’evento nascita proprio come avviene dalla notte dei tempi, non un bimbo sotto il cavolo o una cicogna svolazzante, ma una mamma che mette al mondo il suo bambino, in un momento che si ripete da sempre e che ha permesso di non estinguerci. Un corpo che si apre al mondo, che dona senza remore il frutto del suo amore, un corpo che è meglio non vedere, perché evoca, a quanto pare, reazioni e imbarazzi soprattutto tra noi donne. Ecco, l’ho detto.

Adesso prometto di fare un bel respiro per accogliere le mie emozioni rumorose rispetto a tutto questo e abbracciare le nostre innumerevoli diversità di ognuno. Ma sono sincera, come sempre, a me leggere quei commenti, ha fatto male. E non solo come donna che conosce il suo corpo e che rimane incantata, ogni volta, dell’incredibile bellezza del femminile, ma come mamma che considera l’evento nascita un vero miracolo che si manifesta gratuitamente a tutti noi. Mi chiedo cosa risuona nelle pance di ognuno, l’immagine della vita che nasce. Mi chiedo anche quanto spesso ci lasciamo sopraffare dalla generalizzazione, senza soffermarci sul significato unico e irripetibile che ogni nascita porta con sé. E poi mi soffermo a pensare alla nascita di ognuno di noi, di cui non abbiamo un ricordo consapevole ma che appartiene a una memoria viscerale che si risveglia sollecitata dall’immagine di una donna che partorisce. Alle emozioni che inconsapevolmente evoca, che ci sintonizza alla nostra nascita, un passaggio obbligato dall’utero caldo e accogliente di nostra madre alle luci, le voci, i suoni estranei che ci hanno travolto, segnandoci per sempre. “Non si potrà mai cambiare la società se non si cambia il modo di mettere al mondo i propri figli” dice di Michel Odent. E questa affermazione ben si lega per noi donne e mamme, all’esperienza della gravidanza e ai nostri parti.

Naturali, indotti, vaginali, cesarei, sognati, delusi, ricordati, rimossi, odiati, amati.

Una carrellata di eventi che segnano la nostra vita di donna e di mamma con cicatrici non sono solo fisiche, ma psicologiche e spesso ancora dolorose. E tutto questo bagaglio che quotidianamente ci portiamo dietro che inizia dalla nostra nascita fino il parto dei nostri figli è un’eredità non sempre comoda di cui spesso siamo scarsamente consapevoli. E intanto la nostra pancia e la nostra vista si turba profondamente davanti a scene naturali, fisiologiche e spesso vissute, percependole come non idonee, o meglio eccessivamente imbarazzanti e “inguardabili”.

Cosa sta succedendo?

Tempo fa mio figlio Esteban (6 anni) mi ha chiesto stupito perché una donna semi-nuda era affissa su un cartellone pubblicitario di una nota marca di abbigliamento. Ma non mi ha mai fatto domande davanti ad una mamma con il seno scoperto mentre allatta il suo bambino o davanti a delle foto che rappresentano la nascita.

Ecco, questo a me fa riflettere e molto.

E adesso silenzio, facciamo parlare le nostre pance e il nostro cuore.

In una parola, ascoltiamoci.

Cecilia Gioia.

 

 

Storia di una mamma.

Quando incontri una storia speciale, te ne accorgi subito. L’aria si sospende, il battito rallenta, lo sguarda prova ad andare oltre e si sincronizza anche il respiro. La storia di una donna e una mamma in rinascita, un dono per me e per chi vorrà leggere con il cuore.

Disegni di Michal Rovner. Tratto dal libro L’abbraccio di Grossman D., edito da Mondadori, 2010

Sono diventata mamma per la prima volta nel 2012, dopo un anno di tentativi falliti e altrettanti pianti silenziosi all’arrivo di ogni ciclo. Un anno difficile, contrassegnato dalla solitudine: marito lontano per lavoro e lavoro sfrenato in ufficio per compensare i vuoti. Immaginavo l’arrivo di un figlio come un momento magico, capace di spazzare via la tristezza e rigenerare un rapporto vissuto a distanza. Nel dormiveglia immaginavo di stringere forte il mio piccolo e di allattarlo. Era il mio ultimo pensiero ogni sera prima di addormentarmi. Rimasi incinta quando ormai avevo perso la speranza ed ero pronta a preparare la domanda per l’adozione, quando smisi di fare calcoli sui giorni fertili, quando un ginecologo mi disse che avrei dovuto fare accertamenti a causa dei miei follicoli troppo grossi ed iniziare una cura ormonale. Il primo mese di gravidanza fu bellissimo, mi sembrava di camminare sospesa da terra, era tutto perfetto come avevo immaginato nel buio della mia camera da letto. Il sogno fu bruscamente interrotto da una macchia di sangue che si trasformò in un flusso vero e proprio nel giro di pochi minuti. Ricordo ancora come se fosse oggi la disperazione durante la corsa in ospedale, con la certezza di aver perso quel bimbo tanto desiderato. Distesa su un lettino freddo, con le lacrime che mi offuscavano la vista,  un medico poco cortese mi disse di smettere di piangere perché il bimbo stava bene, di fare punture e stare a letto finché le perdite di sangue non si fossero fermate. Di colpo mi ritrovai a vivere h24 tra letto e divano, con la paura che anche un piccolo movimento avrebbe potuto far male al miracolo che stava crescendo dentro di me. Piano piano cominciai a spegnermi. Il sollievo di essere ancora incinta lasciò presto spazio al nervosismo e alla tristezza. Cominciai a piangere senza sapere bene quale fosse il motivo. Mi sentivo sola e incompresa ma non lo davo a vedere, nascondendomi tutti i giorni dietro un sorriso di circostanza per amici e parenti. Passai quasi tutta la gravidanza a letto, con l’ansia perenne che qualcosa potesse andare storto. Il giorno tanto atteso arrivò nonostante tutto. Dopo tre giorni di travaglio ed un parto tremendo,l’angelo dagli occhi color caffè che tante volte avevo immaginato fece ingresso nella mia vita. Sembrava tutto perfetto, forse troppo. Faceva tanto caldo in quei giorni, troppo caldo per un bimbo di pochi giorni digiuno. Il piccolo ciucciava con tutte le sue forze ma la montata lattea tardava ad arrivare. La mia inesperienza e la presenza attorno a me di persone inesperte non mi permisero di capire che qualcosa non andava e il mio angelo svenne in auto mentre stavamo andando in ospedale per un controllo, dopo aver trovato tracce rosse nel pannolino. In quei 10 interminabili minuti pensai che fosse morto. Si svegliò all’arrivo in tin dove lo portai attraversando di corsa lunghi corridoi, senza neanche sentire il dolore degli innumerevoli punti del parto e la stanchezza di quei lunghi giorni senza sonno. In quei 10 minuti il terrore si impadronì della mia mente e non fui lucida neanche con i medici che all’inizio non capirono, scambiandomi per una neonamma ansiosa. Mi chiesero scusa goffamente dopo molte ore, dicendomi che in effetti il bimbo aveva avuto un calo glicemico che aveva causato lo svenimento. Tornai a casa distrutta e arrabbiata. Arrabbiata con i medici e con me stessa per non aver capito che il mio bimbo non stava bene. Il giorno dopo arrivò il latte ma dopo le prime poppate cominciai a sentirmi stanca, eccessivamente stanca. Nel pomeriggio cominciai ad avere la sensazione che il mio corpo stesse cedendo, non avevo la forza di muovermi, mi sentivo paralizzata. Arrivò a casa il 118 che mi portò in ospedale. Ero lucida ma non riuscivo a muovermi. Ad un certo punto le forze mi abbandonarono quasi del tutto, il mio corpo non rispondeva più. Dissi a mio marito che stavo per morire, lo salutai, raccomandandogli di prendersi cura del nostro cucciolo e mi addormentai o forse svenni. Dopo tante ore mi dissero che avevo l’emoglobina bassa e mi parcheggiarono in una barella nel corridoio di un pronto soccorso affollato. Durante la notte cominciarono a comparire dei termori in tutto il corpo. Arrivarono in tre per tenermi ferma e mi spararono in bocca una siringa con gocce di valium. Mi dissero che non avrei dovuto allattare per almeno un giorno e mi mandarono a casa con un foglietto su cui c’era scritto depressione post partum. Fu quello l’inizio di un lungo periodo difficile. Cominciai ad essere confusa, ad avere paure di tutti i tipi, a non essere più lucida. Dicevo e facevo cose strane. Non riuscivo ad accudire il mio piccolo e svuotavo il latte tirato nel lavandino perché il medico a cui i miei familiari si rivolsero cominciò a prescrivermi psicofarmaci che resero il latte un veleno per il mio cucciolo. Trascorsi un paio di settimane a casa e oltre un mese in un reparto di psichiatria. Fu un periodo strano. Da una parte mi mancava mio figlio e dall’altra ero contenta di essermi allontanata da lui e da tutti per ricomporre la mia mente in frantumi. In quel periodo emerse il meglio e il peggio di me, mischiati in un unico pentolone che ribolliva giorno e notte, senza darmi un attimo di tregua. Tornai a casa quando il mio bimbo aveva quasi due mesi. Aveva un odore che non riconoscevo, beveva un latte che non era il mio, piangeva quando lo tenevo in braccio e si calmava soltanto tra le braccia della nonna. Non sapevo cullarlo, non sapevo consolarlo, non sapevo essere la sua mamma. Gli volevo bene, tanto bene, ma la naturalezza del nostro rapporto aveva lasciato posto ad una voragine che mi sembrava incolmabile. Ci vollero mesi di duro lavoro per ritrovarci. Dopo quattro mesi smisi di prendere psicofarmaci e piano piano cominciammo lentamente ad annusarci, a coccolarci, a conoscerci. Dopo altri cinque mesi rimanemmo finalmente soli. Senza il papà che tornava soltano per il weekend e senza le nonne che tornarono a vivere nelle proprie case dopo mesi di convivenza forzata sotto le stesso tetto. Mi cominciai a sentire finalmente madre ma con la sensazione costante di dover dimostrare al mondo di poterlo essere. Non era scontato, non era facile. Inghiottivo ogni giorno dolore per trasformarlo in grinta, inventando  modi sempre diversi per farmi amare dal mio cucciolo. Lentamente cominciai a non pensare più a quel periodo tanto difficile e ritornai ad essere la persona che ero ma con una sensibilità più accentuata. Passarono gli anni e dopo quattro io e mio marito decidemmo di avere un altro figlio che arrivò al secondo tentativo. Sentii la sua presenza dentro di me da quando vidi la seconda linea rossa sul test di gravidanza. Quel puntino dentro di me era già il mio secondo amore prima ancora che il suo cuore cominciasse a battere. Decisi subito di cambiare ginecologo e struttura ospedaliera, di azzerare il passato per costruire un nuovo futuro. La fortuna mi portò a bussare alla porta di un medico speciale che si accorse al primo sguardo che qualcosa andava ancora risolta prima di partorire il secondo figlio. Mi suggerì subito di rivolgermi ad uno psicologo e la mia prima reazione fu un mix di incredulità e rabbia. Che ne sapeva lui di me, della mia storia,  della mia forza? Tornai a casa infastidita ma le sue parole aprirono un varco nelle mie insicurezze. Mi resi conto in pochi giorni che in quattro anni ero riuscita a tappare un buco nero con un velo di forza ma che il buco c’era ancora e che il velo era troppo sottile. Decisi di frantumare il velo e di tuffarmi nel buco nero con l’aiuto di un salvagente: una psicologa dagli occhi gentili e pieni di umanità. La perlustrazione del buco nero durò per tutta la gravidanza e anche per qualche mese dopo la nascita del mio secondo angelo dagli occhi color caffè. La mia bimba adesso ha quasi 8 mesi, vissuti in buona parte cuore a cuore dentro una fascia rosa o attaccata al mio seno da cui non esce più veleno ma amore. Il suo arrivo è stato un balsamo sulle ferite che avevano sanguinato senza sosta per 4 lunghi anni. Grazie a lei e con lei ho seminato fiori nel buco nero che adesso si è trasformato in un pozzo di esperienze, di emozioni, di vita. Ed è ancora grazie a lei che mi sono riappropriata della naturalezza del rapporto con il mio primo figlio, cominciando a coccolarlo e accudirlo con un trasporto nuovo, carico di  tenerezza. Adesso non piango più pensando a quanto ho perso, perché ormai quasi tutto è stato recuperato. Non potrò più recupare la donna che ero prima del crollo: una donna che metteva al primo posto il lavoro, che non si guardava mai indietro, che faceva della razionalità il suo punto di forza. Quella donna ha lasciato posto a me: una persona imperfetta, una mamma felice, una donna forte.

Il 14 febbraio io ballo.

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“Un miliardo di donne violate è un’atrocità” sostiene Eve Ensler, “un miliardo di donne che ballano è una rivoluzione.

Sono partita da questa frase pronunciata da Eve Ensler, autrice de I monologhi della vagina, attivista e fondatrice del V-Day, per decidere di ballare ogni 14 febbraio.

E sempre da questa frase ho deciso che ballare insieme tutte significa produrre un’onda ossitocinica che invade tutt*, nessun* esclus*.

Un miliardo di donne, un numero assurdo e atroce se lo si associa alla violenza.

Un numero incredibile e rivoluzionario se rappresentato da mille storie di donne che prendono forma attraverso un corpo unico che balla e racconta.

Perché attraverso il ballo passa la rivoluzione. Una rivoluzione che non necessita di parole ma di azioni confluenti verso un unico obiettivo, un corpo che avvolge e coinvolge in una danza liberatoria e antica.

Ballare significa centratura, ascolto e libertà.

Ballare insieme ad altre donne significa sorellanza e consapevolezza.

Ballare davanti alle nostre figlie o ai nostri figli, alle nostre compagne o ai nostri compagni, alle nostre madri o ai nostri padri significa orgoglio e crescita.

Ballare davanti a tutte le forme di violenza subita significa ribellione e coraggio.

Ballare il 14 febbraio in una piazza incuriosita significa promuovere la cultura del rispetto.

Perché la rivoluzione parte da me, ogni giorno.

Attraverso il mio scegliermi, accogliermi e amarmi: scelta coraggiosa e concreta

che necessita di un costante ri-conoscermi dentro.

Perché contro la violenza sulle donne e le bambine serve una vera rivoluzione, a partire da ognuna di noi, dentro di noi.

Perché praticare verso di me atti gentili significa imparare ad amarmi e rispettarmi.

Spezzare le catene della violenza, i maltrattamenti fisici, le mutilazioni genitali, l’incesto e la schiavitù sessuale a cui una donna su tre è sottoposta in ogni luogo del mondo, questo il mio obiettivo.

Liberare il mio corpo e la mia mente per sentirmi parte consapevole di un corpo unico e meraviglioso, il mio impegno di ogni giorno.

Il 14 febbraio io ballo, e voi?

Cecilia Gioia

 

 

Inevitabilmente Rosa.

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Rosa Parks booking photo following her February 1956 arrest during the Montgomery Bus Boycott.

Le donne tessono la storia. Giorno dopo giorno generano vite e intrecciano cambiamenti. Come sessantadue anni fa, in un 1° dicembre che ogni anno profuma di rosa. Il profumo di Rosa Parks e il suo immenso NO che continua a risuonare in tutte noi, donne che corrono quotidianamente con i lupi, affamate di diritti e di cambiamenti. Perché quel NO racconta coraggio, determinazione, racconta amore verso la giustizia e segna grandi rivoluzioni. Quel NO è una scelta, un invito a non cedere a tutto ciò che vìola i nostri diritti, un NO partorito da una donna considerata “the Mother of the Civil Rights movement”. Si, perché le donne generano sempre, soprattutto cambiamenti. E lo fanno con generosità, donando ad un mondo spesso distratto e spaventato, atti di grande coraggio e gentilezza. Come quel NO fermo, deciso, educato e denso di significati. Ed è in quella negazione che si genera un processo di affermazione e riconoscimento, dove milioni di Rosa, ogni giorno, respirano all’unisono il vento del cambiamento. Oggi, come ieri innumerevoli archetipi femminili esprimono la forza potentissima, selvaggia, istintiva e passionale che si nasconde in ogni donna attraverso il suo NO. Un NO che necessita di spazio e ascolto, di istinto e di crisi, di ferite e di storie. Di scoperte e di atti gentili, verso noi stesse, in armonia con le nostre parti. Affinchè quel NO continui a risuonare nelle nostre pance e nei nostri cuori, per diventare consapevolmente, ogni giorno, madri di noi stesse.

M. Cecilia Gioia

 

Copyrights – 2017 Amigdala Studio di Psicoterapia by M. Cecilia Gioia