Nel corso della mia vita lavorativa ho chiesto a me stessa più volte se la mia professione sia stata davvero la scelta migliore per me. Una domanda rumorosa dal retrogusto inusuale che destabilizza anche gli equilibri più solidi e che regala spunti di riflessione intensi, di quelli che durano almeno una notte. Ed ecco che ieri sera, dopo un tempo silente, la mia domanda fa capolino tra note, luci e corde accarezzate. Eh si, davanti ad un concerto di una cantante e una chitarra nera, lucida e graffiata dai concerti, è davvero facile perdersi in un interrogativo sfrontato e rumoroso.
Ed è proprio lì, mentre mi perdo tra la musica, che ho immaginato un’altra vita; o meglio, quella vita che sin da piccola consideravo l’unica possibile per me. Buffo davvero ricordarmi con la chitarra, una matita e fiumi di note e di parole che si intersecano in melodie timide. Timide davvero, o forse semplicemente solitarie, uniche, un po’ come quel sogno di vita così lontano e nitido. Così nitido da perdermi in un fiume di ricordi mentre tutto scorre, anche la musica che mi accarezza l’anima; un po’ come le mani di mio figlio Manuel (apprendista chitarrista) che si aggrappa a me, disegnando in quel contatto tutto il mio essere madre. Ma la musica scorre mentre continuo a perdermi nelle immagini passate, nelle mie chitarre tanto amate, nel mio stare con loro richiamandole con il loro nome e il loro suono. Chissà come sarebbe stata la mia vita se avessi scelto altro, forse la musica. Ma le mani di mio figlio mi stringono e l’incrocio di occhi a me familiari, volti di persone che ho avuto il privilegio di accompagnare in psicoterapia mi riportano nel mio qui ed ora e come per incanto rientro nella mia scelta, la MIA INCREDIBILE SCELTA, e sorrido.
Sorrido alla cantante, alla sua chitarra, alla città che ho imparato ad amare, alle mie mani che provano a suggerire un Sol7 a Manuel, al mio orecchio che sostiene le abilità da pianista di Esteban, alle chitarre che io e mio marito alcune volte ancora accarezziamo, alle persone che seguo in terapia e quelle che accompagnato, alle loro storie che ho accolto, ascoltato e accarezzato. E al mio ultimo paziente che ho incontrato due giorni fa a studio per la prima volta e che mi ha detto, vedendo nella stanza una delle mie chitarre: “Dottoressa ma lei suona?” e al mio annuire sorridendo “Anche io, sa?”. E il nostro concerto può avere inizio, mentre un setting amniotico ascolta e annota la sua storia. E conferma la mia scelta. Perché fare la psicoterapeuta è la mia scelta, e la chitarra nel mio studio la mia quotidiana conferma.
Cecilia Gioia