Raccontare ai propri figli la vita è un’impresa naturale. Perché i bambini comprendono, accolgono e rimangono nei racconti. Spesso non cercano spiegazioni per andare oltre e razionalizzare, perché sanno STARE attraverso un’innocenza disarmante che stupisce.
Raccontare quindi della vita e anche della morte, senza usare sinonimi improponibili quanto irreali, e riconoscere dignità e rispetto a temi con cui spesso noi adulti facciamo fatica ad accogliere. Ma i bimbi no, loro sanno STARE, anche nei contenuti più “scomodi”.
Parlare con loro di lutto perinatale diventa semplice. E le parole fluiscono lente, non c’è fretta di concludere perché il nostro interlocutore sfugge o “non sostiene”, perché i bambini rimangono, ascoltano, accolgono e sorridono. Non chiedono dettagli morbosi o ridondanti, ma si interessano di ciò che è veramente utile. Esteban (6 anni) spesso dice –La mamma sarà molto triste-, e chiede – Ha salutato il suo bambino?– ricordando il mio lavoro –Hai fatto compagnia alla mamma?– e Manuel (3 anni e 9 mesi) suggerisce –Meglio fare una carezza però, prima che voli in cielo– e rassicura –Ma adesso non sarà solo, perché farà amicizia con i nostri fratellini-.
Frasi che nascono dal cuore e che sottolineano l’incredibile ricchezza dei bambini nel cogliere le emozioni, tralasciando tutto il resto. E la loro semplicità contiene e rigenera perché fonte inesauribile d’incanto verso un quotidiano non sempre facile.
Perché è fisiologico raccontare ai propri figli della vita e della morte, rispettando i tempi e i silenzi, in un processo che nutre di consapevolezza. E osservarli mentre mandano baci al cielo, in un gesto naturale che fa bene.